Il Festival dei Popoli, alla 61a edizione, non ha voluto saltare l’appuntamento annuale, costringendoci a fare a meno del grande schermo delle sale chiuse per pandemia.
La visione da casa, sola davanti al pc, mi ha provocato una lettura diversa, non così negativa. La massa di filmati, visti uno dopo l’altro, parlati in lingue diverse, a un tratto ha azzerato la differenza linguistica, dando una sensazione di vivere in un unico Paese popolato di persone spesso inquiete, ma tutte animate da una ricerca, che si materializzava nel documentario. Si è creato un contesto internazionale, eccetto i documentari che rievocavano la storia di un particolare Paese (il Brasile sterminatore di indigeni o dell’Italia fascista), con argomenti e problemi condivisibili.
Sono stati attribuiti molti premi, scelti fra i 60 documentari proposti dal programma, divisi in quattro sezioni: Concorso Internazionale (18 film tra cortometraggi, mediometraggi e lungometraggi, tutti inediti in Italia); Concorso Italiano (7 i titoli, tutti inediti assoluti, un viaggio nell’Italia di oggi); Let the Music Play dedicata ai documentari musicali e Habitat, un focus sull’ambiente.
Del Concorso Internazionale ho trovato delizioso il cortometraggio Bubble di Eleanor Mortimer, che ha vinto nella sua categoria riprendendo il comportamento dei clienti di un negozio di pesci tropicali posto in un quartiere dell'East London. La giuria, entusiasta, ha usato, nella motivazione, queste frasi: “La regista traccia un film brillante, giocando con il parallelismo tra animali e umani e offrendo un ritratto delicato con grande autenticità e con molta tenerezza e umorismo, in un tempo molto breve.”
I distratti, quelli che dimenticano da qualche parte un oggetto personale, sono tutti dello stesso tipo? La risposta, negativa, ce la danno le riprese di “L'Île des Perdus” di Laura Lamanda (Francia) cui è stato attribuito Il Premio “Imperdibili”, oltre a quello Distribuzione in home video “POPOLI Doc”. Laura ha ripreso l’andirivieni in un edificio parigino adibito agli objets trouvés, ricostruendo alcune delle vicende dei visitatori, spesso più avvincenti di un romanzo.
Il rapporto tra un uomo e una cicogna, con un’ala spezzata, viene narrato dal croato Tomislav Jelincic in Storkman, (Il vecchio e la cicogna), uno dei documentari della sezione Habitat. Il protagonista riversa amore e compassione per una cicogna resa invalida da uno sparacchiatore che l’aveva scambiata per un airone. Una scusa assurda, considerando che, senza discutere sull’argomento caccia, nessuno dei due uccelli è commestibile! La cicogna viene accarezzata, protetta dal freddo, visto che non può più intraprendere il lungo volo migratorio con un’ala spezzata, aiutata a raggiungere camminando un alto comignolo, per costruirvi il nido, da una serie di passerelle ardite, progettate dal suo salvatore. Un vecchio straordinario che affronta il percorso acrobatico per aiutarla ad accudire i piccoli, nati dall’accoppiamento con il compagno. Scopriamo che le cicogne creano coppie stabili. Questa cicogna è raggiunta ogni anno dallo stesso compagno, che sa trovarla sempre durante la migrazione. Ciò però produce una separazione straziante, perché si compie ogni anno, è la riflessione del vecchio, che confronta il suo dolore di vedovo, fortissimo ma provato una volta sola, con le separazioni ripetute ogni anno cui è sottoposta la sua creatura.
Non è stato premiato, forse perché tratta un argomento molto particolare del rapporto uomo-ambiente, ma l’autore è riuscito a darci un esempio di vera solidarietà interspecifica, teneramente naturale e senza ideologia. Niente di simile alle roboanti campagne moralistiche portate avanti da molti animalisti.
È passato inosservato, a torto, pure Turkish Riviera, di Senem Gocmen (Germania). È importante per la descrizione dello stato d’animo di una ragazza di famiglia turca che si è formata totalmente in Germania, dove è nata e cresciuta, e dove ora lavora.
La seconda generazione di immigrati è infatti molto più problematica dei genitori, i quali si sono mossi dalla loro patria per migliorare il tenore di vita. Questi genitori, come già avevano fatto i nonni di Senem, la regista e voce narrante del documentario, tornano in Turchia dopo un percorso lavorativo, e lei rimane sola in Germania. Fin da piccola, racconta, si è impegnata per essere bravissima negli studi, per nascondere una diversità che percepiva come inferiorità. Ha quindi un lavoro socialmente apprezzato. Ma, mentre per i genitori la Germania è una parentesi fra due periodi di vita accomunati da una stessa cultura, che sentono propria, lei si trova fuori posto in Germania come in Turchia. E sogna un Paese di mezzo, se esiste da qualche parte, in cui sentirsi “a casa”. E attribuisce la tristezza che l’accompagnava fin da piccola, a questo dramma inespresso.
Ecco su cosa fanno leva i reclutatori di potenziali terroristi. Francia docet. I ragazzi coinvolti, di estrazione povera, abitano sobborghi dove anche l’isolamento dalla società francese è quasi totale. Non sono istruiti perché costretti a lavorare fin da piccoli. La fragilità che suscita in loro il sentirsi senza patria viene curata da una propaganda che mira a trasformarla in odio contro la società in cui crescono, reso ancora più forte dall’esaltazione della cultura d’origine che ne fanno i loro istruttori.
Come si accennava, alcuni di questi documentari ci aiutano a capire problemi del nostro tempo, e, nei casi migliori, anche ad ispirare in chi guarda ipotesi di soluzione.