Qualche tempo fa, in un libro di etologia1, lessi a proposito di una vicenda che aveva come protagonista una famiglia di pesci appartenenti a una specie in cui il padre-famiglia, tutte le sere, si occupa di mettere a dormire la sua prole. I pesciolini appena nati galleggiano tutto il giorno sulla superficie dell’acqua e, al tramonto, il padre li prende in bocca uno a uno per trasportarli giù sul fondale, in mezzo a qualche anfratto roccioso. Una sera, il proprietario di un acquario che ospitava una famiglia di questi pesci gli dà da mangiare proprio nel momento in cui il padre è intento a trasportare uno dei suoi cuccioli sul fondale. Una distrazione da nulla, ma che si rivelerà drammatica. Il padre, alla vista del cibo, si fionda verso il boccone e abbocca. A quel punto dovrebbe inghiottire, ma in bocca c’è anche suo figlio!
Proprio in quel momento succede una cosa piuttosto curiosa, il padre si blocca, non compie alcuna azione, sembra che stia esitando. Sembra addirittura che stia pensando. Che cosa gli succede? Quando si è slanciato sul boccone, il pesce ha reagito allo stimolo (la vista del cibo) con un comportamento innato, che possiede fin dalla nascita. L’impulso ad azzannare il cibo è infatti connaturato, ereditato geneticamente, non è stato appreso. La prima reazione del pesce è stata automatica, è scaturita da una conoscenza incorporata, non mediata dall’esperienza. Tuttavia, il pesce non ha dato seguito all'azione istintiva, che avrebbe previsto di inghiottire il boccone. In bocca c’era anche suo figlio, allora il pesce si è fermato. Trovandosi alle prese con un serio conflitto di interessi, l’animale è andato in crisi. La crisi è stata causata dalla compresenza di due stimoli contrastanti: da una parte, lo stimolo-cibo lo induce ad azzannare il boccone per obbedire alle strategie di sopravvivenza individuale; dall’altra, lo stimolo derivante dalle tattiche comportamentali vòlte a garantire la sopravvivenza della specie, lo induce a fermarsi, a non inghiottire il boccone per salvare il figlio.
Il flusso comportamentale del pesce ha subìto una specie di cortocircuito: gli stimoli di pari intensità, ma di forza opposta, si sono annullati a vicenda e così l’azione, non potendo più scaturire automaticamente, si è arrestata. L’imperativo della sopravvivenza della specie, che recita più o meno così: Metti al sicuro tuo figlio! dev’essere stato intenso quanto quello della sopravvivenza individuale, che gli intima di continuo: Mangia! Entrambi hanno spinto l’animale verso direzioni opposte. Per questo il pesce si è bloccato, ha sospeso ogni azione, ha esitato. Ha operato una specie di epoché, una sospensione del giudizio e dell’azione.
A discapito di tutte le dicerie che vedono nel pesce non esattamente il più brillante esponente del mondo animale, si può affermare invece che quest’esemplare si sia comportato come se stesse pensando, come se addirittura fosse stato cosciente.
La prova che la sua esitazione e che l’avere per un attimo sospeso l’azione siano stati in qualche modo simili a un pensiero cosciente è fornita dal seguito della vicenda. Il pesce, dopo aver riflettuto, giunge a un comportamento inaspettato, innovativo. Contrariamente a quanto si sarebbe potuto scommettere, e cioè che desse seguito all’ultimo stimolo ricevuto, quello di inghiottire il boccone di cibo assieme al figlio, il padre sputa tutto ciò che ha in bocca, figlio e boccone. Poi mangia il boccone di cibo con calma, infine riprende in bocca il figlio per portarlo giù sul fondale a dormire. Che prestazione!
Il pesce pensatore, duramente messo alla prova, se l’è cavata prodigiosamente. Il malcapitato ha dovuto vedersela né più né meno che con un conflitto etico2, in cui l'impulso ad agire è stato strapazzato da ingiunzioni contrastanti. Se il pesce avesse inghiottito il boccone di cibo, avrebbe sacrificato il figlio venendo meno al principio di sopravvivenza della specie; ma se lo avesse ignorato del tutto, avrebbe trascurato l’imperativo della sopravvivenza individuale. Insomma, ogni azione sarebbe stata sbagliata o perlomeno incompleta, non esaustiva. L’animale ha vissuto una sorta di “crisi di coscienza”, è stato preso nelle morse di un cosiddetto doppio vincolo, dove i comportamenti messi a disposizione dal suo corredo genetico-comportamentale si sarebbero rivelati inadatti.
Secondo la nostra concezione antropocentrica gli animali non hanno pensieri né coscienza; tuttavia, le istruzioni che provengono al pesce dal suo passato filogenetico, tramandate sotto forma di impulsi all’azione, non devono essere tanto dissimili dai nostri imperativi etici, dalle più automatiche reazioni attraverso le quali ritraiamo la mano dal fuoco, ai più complessi sistemi inibitori che ci inducono a sorridere al vicino di casa, anziché a ringhiargli contro.
Ho riportato e analizzato le vicissitudini del pesce per mostrare quanto alcuni paradigmi siano universali, al punto da scavalcare persino la classica distinzione tra “umano” e “animale”. Questo caso ha mostrato la continuità comportamentale tra natura (comportamento innato) e cultura (comportamento appreso tramite l’esperienza), rivelando che solo uno sguardo disattento può operare una netta distinzione tra istinto e coscienza, tra pulsioni e pensiero, tra determinismo e libero arbitrio.
Questa vicenda è saliente per inquadrare la nascita del libero arbitrio in un contesto determinista, e per interpretare il fenomeno della coscienza come scintilla ingenerata dallo stridio di due ingiunzioni pulsionali contrastanti. Proprio l’essere nelle morse del determinismo può far nascere la coscienza e la volontà individuale. Non c’è una contrapposizione categorica, bensì una continuità, uno scavallamento: la cultura non si contrappone alla natura come le polarità on/off di un interruttore, è la natura a secernere la cultura, è l’animale a secernere l’“umano”, che a sua volta può riconvertirsi in animale, come nelle modulazioni luminose regolate da una rotella.
Sto scrivendo questo saggio per scalfire il paradigma epistemologico dominante che vuole una netta contrapposizione tra l’istanza della natura e quella della cultura, così come tra quella dell’uomo e quella dell’animale, e così via, analogamente, per molte altre contrapposizioni polari (maschile/femminile; vita/morte; anima/corpo; cielo/terra; bene/male; ecc.). Con questo brano ho voluto mostrare che, paradossalmente, è proprio nell’ambito del determinismo che può nascere il libero arbitrio il quale, a sua volta, dopo essere stato innescato, può modulare sapientemente e coscientemente le scelte dettate da pulsioni deterministiche. Non c’è distinzione netta. Concetti che tradizionalmente vengono considerati opposti e polari (determinismo e libero arbitrio) e che si escludono a vicenda (se c’è l’uno, non può sussistere l’altro) si rivelano invece in qualità di elementi sussistenti, sorta di tappe disseminate lungo lo stesso continuum.
Paradossalmente, si avranno più possibilità coscienziali, ovvero la folgorazione della coscienza sarà tanto più probabile quanto maggiori sono i determinismi cui si è sottoposti. Più ingiunzioni si hanno – siano esse naturali, istintuali, provenienti dal contesto sociale, inculcate da un’educazione, ecc. - più sarà probabile che siano tra loro in contrasto e che dunque questo contrasto ingeneri una crisi, ovvero una momentanea sospensione della reazione automatica. È a questo punto che la tensione dell’essere umano o animale, pressato da stimoli opposti, ma impossibilitato a risolversi all’azione, si scarica sotto forma di folgorazione cosciente. È così che emergono nuovi comportamenti e nuove risposte adattative.
Si vede qui come il determinismo sia un elemento essenziale del libero arbitrio, senza l’uno non ci potrebbe essere l’altro. C’è demonizzazione del determinassimo solo perché è stato concepito e razionalizzato come elemento a sé stante, scisso dal contesto; sono stati trascurati questi aspetti di continuità nella genesi del libero arbitrio.
Il paradigma della crisi come tensione tra pulsioni in contrasto, la continuità tra determinismo e coscienza, lo slittamento tra natura e cultura in verità è molto antico, quasi archetipico, e tuttavia terribilmente attuale: è un buon paradigma per cercare di capire i nostri problemi, dai più quotidiani ai più sublimi. Dall’insoddisfazione per le nostre abitudini, che ci rendono la vita routinaria, cui tuttavia soccombiamo come automi, alle rinunce pulsionali per tutelare la convivenza civile; dal conformismo alla genialità; dai dilemmi delle donne tra carriera e maternità alla nascita del transgender per eludere ruoli e identità obsoleti.
1 Il libro in questione è L’altra faccia dello specchio di K. Lorenz.
2 Qui con l’aggettivo etico si fa riferimento alla sua accezione etimologica più originaria, ovvero al suo significato di “comportamentale”, “riferito, relativo al comportamento”, e non già all’accezione attualmente più diffusa e popolare di “buono, giusto, rispettoso”, ecc.