Pomeriggi in cui friniscono le cicale, le cassine abbassate e una stanza in penombra. Il gelsomino si prepara a esplodere e rendere la notte profumata, ricordo del passato arabo della Sicilia. Come la madeleine di Proust, il ricordo del biancomangiare si fa spazio nella mia mente.
Bianca crema, messa ancora calda negli stampi di terracotta, sformata, adagiata su una foglia di limone e decorata con del gelsomino, talvolta dei pistacchi o delle mandorle. Fiori, aquile, cuori, pecorelle, foglie di acanto raccontano storie sulla superficie del biancomangiare, un dolce che fa parte della nostra storia sin dal medioevo e che il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali ha inserito nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (P.A.T).
Stranamente, a differenza di tanti piatti che sono legati a tradizioni locali, il bianco mangiare è tipico di tre regioni distanti fra loro: Val d’Aosta, Sardegna e Sicilia. Nella prima, col nome francese di blanc manger, si prepara sia con il latte di mandorle che con il latte vaccino; in Sardegna, col nome di origine catalana menjar blanc, questo preparato diventa una torta farcita, mentre in Sicilia, come in Val d’Aosta, si trova nelle due versioni con latte di mandorle o vaccino aromatizzato con limone e cannella e messo a raffreddare in forme di terracotta.
All’origine il bianco mangiare era una preparazione che traeva origine dalle presunte qualità del colore bianco, simbolo di purezza e ascetismo. Cibo destinato alle classi alte, prese il nome dal colore degli ingredienti che lo componevano: pollo, latte, mandorle, riso, zucchero, lardo, zenzero bianco ed era una ricetta dolce o salata a seconda di chi la preparava. La vera origine del biancomangiare è sconosciuta ma si pensa sia il risultato dell’introduzione in Europa di riso e mandorle fatta dagli Arabi all’inizio del Medioevo e che si sia diffuso in Italia intorno all’XI secolo tant’è che è presente nel banchetto organizzato da Matilde di Canossa per far riappacificare Papa Gregorio VII e l’Imperatore Enrico IV e nel banchetto di nozze di Maria de’ Medici e Enrico IV di Francia.
Si dice che un cuoco persiano si presentò a Muhallab b. Abi Safra, un generale arabo del VII secolo, per essere messo alla prova e gli presentò un piatto chiamato Muhallabiyya fatto con petto di pollo, riso, latte e zucchero e del quale la prima ricetta si trova a Baghdad nel X secolo a opera di Ibn Sayyar al-Warraq. La ricetta originale prevedeva latte o latte di mandorla, zucchero, pollo o pesce, acqua di rose, farina di riso, e talvolta veniva aromatizzato con zafferano o cannella mentre il pollo poteva essere sostituito da quaglie o pernici.
Il bianco mangiare si diffuse in tutta Europa e se ne trova menzione nei Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer e in vari libri di cucina dal XIV secolo in poi: il ricettario dei cuochi di Riccardo III, il Liber de Coquina del XIV secolo, trattato anonimo redatto a Napoli tra il 1285 e il 1309 alla corte di Carlo II d’Angiò, gli Enseignements francesi della fine del XIII secolo, poi riscritti e conosciuti come Le Viandier de Guillaume Tirel dit Taillevent che ispirò il successivo Menagier de Paris del 1393 – che entrambi parlano del bianco mangiare come ricetta per malati, il ricettario di Mastro Martino del ‘400, e poi nei ricettari di Cristoforo Messisbugo, Scappi e Stefani nel 1600 quando questa preparazione si trasforma in un dolce privo di carne con panna, uova e, più tardi, gelatina.
Nel 1691 François Massialot pubblica Le Cuisinier Royal et Bourgeois con due ricette di blanc manger: entrambi fatti con latte di mandorle, uno, da servire come piatto di mezzo o antipasto o portata principale, aggiunge un piede di vitello per assicurare gelatina sufficiente e si aromatizza con scorza di limone, acqua di fiori d’arancio e cannella, l’ altro è fatto con aggiunta di corno di cervo per assicurare il giusto quantitativo di gelatina, e poi aromatizzato con acqua all’arancia o succo di limone a seconda dell’occasione e servito freddo.
Nella prima metà del XIX secolo, quando Antonin Carême affronta la preparazione del bianco mangiare, il piatto è solo dolce e il brodo è scomparso, il latte di mandorle è preparato con acqua filtrata addolcita con zucchero granulato, addensato con colla di pesce e servito freddo. Suggerisce di aromatizzarlo con rum, maraschino, limone, vaniglia, caffè, cioccolata, pistacchi, nocciole, fragole o panna. Il Larousse Gastronomique cita Carême che così commenta il blanc manger: “Questi dolci deliziosi sono molto apprezzati dai gastronomi ma per essere gustati al meglio devono essere lisci e bianchi. Grazie a queste due caratteristiche, raramente trovate insieme, il bianco mangiare sarà sempre preferito alle creme e alle gelatine trasparenti perchè il latte di mandorle è molto nutriente e presenta proprietà balsamiche dolci al punto giusto per blandire l’amarezza degli umori”.
Un secolo dopo Carême, Auguste Escoffier, distinguendo una versione francese e una inglese, aggiunge coulis di varia frutta, e in Italia Pellegrino Artusi inserisce questo piatto nell’opera La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Nella sua ricetta, Artusi, prepara il bianco mangiare con panna, o fior di latte, colla di pesce, zucchero, mandorle e acqua di fiori d’arancio. Una ricetta che viene riproposta nel biancomangiare della tradizione valdostana, assai simile alla panna cotta.
La preparazione sarda, invece, prevede come addensante l’amido di riso o di grano, stemperato nel latte di pecora o capra, con l’aggiunta di zucchero e buccia di limone ma si distingue dalla versione valdostana e da quella siciliana perchè questa crema viene racchiusa in una sfoglia fatta con farina e strutto – pasta violada – e ripassata in forno come la torta medievale.
Di questo antico dolce di origine persiana, ne scrive il siciliano Giuseppe Pitrè nel libro La vita in Palermo cento e più anni fa e racconta che era uno di quei dolci a base di mandorle che venivano preparati dalle monache del convento di clausura di Santa Caterina.
Tomasi di Lampedusa cita il bianco mangiare ne Il Gattopardo quando don Fabrizio si siede al tavolo per dialogare e contemporaneamente gustare un dolce: “Mentre degustava la raffinata mescolanza di biancomangiare, pistacchio e cannella racchiusa nei dolci che aveva scelti, don Fabrizio conversava con Pallavicino”.
Il biancomangiare siciliano, biancu manciari in dialetto, si presenta in due versioni: una con latte vaccino e una, della zona di Modica, con latte di mandorle, entrambi candidi, addensati con amido di frumento e aromatizzati con cannella.
Un elemento che contraddistingue il biancomangiare siciliano è l’uso delle forme di terracotta smaltate, che servono anche per la cotognata, delle quali la prima notizia risale al 1779, epoca in cui queste formelle avevano grande diffusione e costituivano corredo di ogni famiglia. Per realizzare una formella occorre creare un calco in gesso su cui modellare la terracotta liscia che verrà poi smaltata. I motivi sono infiniti e, a parte i grandi stampi con l’agnello pasquale o i santi, di solito queste formelle sono piuttosto piccole con dei rilievi sottili. Troviamo la donna che fila, il cacciatore, i fiori, la frutta, gli stemmi gentilizi o di città o di ordini religiosi, nomi propri o scritte augurali come Salute, Ti Amo e Amore.