In questi tempi di pandemia dove i viaggi sono banditi, raggiungiamo un luogo della Cordigliera delle Ande dove il tempo si è fermato a circa 500 anni fa.
Siamo in Perù, nella provincia dell’altopiano andino di Paucartambo, nella regione di Cuzco. Nel territorio chiamato Nacion Qero, vive un popolo che conserva inalterate le tradizioni degli antenati Inca: i Q’ero. Si tratta delle comunità di Marcachea, Qero Totorani, Hatun Qero, Quico e Japu, costituite da tanti villaggi in cui abitano solo poche famiglie.
I Q’ero sono sfuggiti ai massacri dei Conquistadores spagnoli inoltrandosi in questi rilievi montuosi aspri e impervi aiutati dagli Apu, gli spiriti guardiani delle montagne. Sono scomparsi dalla civiltà fino al 1955 allorché una spedizione etnologica condotta dall’archeologo Oscar Nuñez del Prado, ne ha rintracciato l’esistenza.
Degli Inca conservano la credenza nel mito di Inkarri e Qollari, un uomo e una donna, creati dagli Apu per ripopolare la terra e da questa prima coppia si considerano discendenti. Come i loro antenati sono, inoltre, in grado di identificare stelle e costellazioni, possedendo una conoscenza astronomica profonda e dettagliata.
Gli Anziani si tramandano anche una sacra profezia secondo la quale dovrebbe avvenire un radicale cambiamento dell’Umanità o ‘pacachuti’ dove il caos nel mondo avrà fine per lasciare spazio a un nuovo ordine che ristabilirà armonia ed equilibrio, un rinnovamento nel quale amore e compassione rappresenteranno la forza trainante di riunificazione dei popoli. La profezia prevede che il Nord America fornisca la forza fisica (il corpo), l’Europa l’aspetto mentale (la testa) e il Sud America il cuore.
I Q’ero vivono in condizioni estreme, ad altitudini comprese tra i 4.000 e i 6.500 metri, senza elettricità e senz’acqua e parlano quasi esclusivamente la lingua degli Inca: il Quechua.
Le loro esistenze si svolgono tra immense vallate avvolte dalle nubi e freddissimi ghiacciai perenni. Quando si entra nella valle circolare di Willka Yunka e si segue la catena blu delle lame di Kuli Pausi, Q'ero Paskana e Waman Qaqa, con l’altitudine che fa sentire il cuore battere come un condor in gabbia, si prova una sensazione di spaesamento anche per la bellezza dei tramonti rosso fuoco, delle montagne incantate e delle lagune trasparenti come l’acquamarina.
Ogni giornata è costituita da sole cinque ore di luce, dalle sette alle undici del mattino, il resto è gelo e oscurità, un mondo che si popola degli spettri della notte.
Per questo la terra è poco fertile, vi crescono solo vari tipi di patate e sopravvivono alcune specie di animali: lama, alpaca, pecore e cavalli. Degli alpaca, considerati come fratelli, si utilizza la carne, il pelo per tessere gli abiti, il grasso per fare le candele e lo sterco per accendere il fuoco.
Le capanne Q’ero - costruite a mano sfruttando materiali presi direttamente dal territorio circostante - sono di pietra e fango, con pavimenti in terra battuta, senza finestre, un unico grande focolare che ha funzione di forno e riscaldamento, il tetto coperto di paglia e una piccola porta d’ingresso in legno. Alle quattro del mattino le famiglie consumano il pasto più importante della giornata quasi sempre a base di patate. L’acqua arriva, invece, direttamente dai ghiacciai attorno ai villaggi attraverso piccole fontanelle.
Eppure questa gente vive gioiosamente lavorando i campi - l’uomo apre i solchi e la donna depone il seme - filando e tessendo, colmando le giornate dei colori naturali e accesissimi dei propri indumenti. Le famiglie sono molto unite, i figli nutrono un grande rispetto nei confronti dei loro padri e quello più piccolo ha l’obbligo di assistere i genitori quando sono diventati troppo anziani. Esiste la scuola in qualche villaggio, frequentata anche dai ragazzi degli altri villaggi che devono raggiungerla con camminate di varie ore in mezzo alle montagne.
Per aiutare la fatica della dura vita di montagna, gli indios masticano le foglie di coca e suonano il flauto di Pan che li accompagna nelle loro interminabili passeggiate montane.
La cultura dei Q’ero è basata su una visione omnicomprensiva dell’esistenza, una ‘cosmovisione’ secondo la quale la vita di tutto il Cosmo è regolata da un gruppo di entità, tra le quali Inti (il Padre Sole) e la Pachamama (la Madre Terra). Il popolo è alla costante ricerca di armonia e connessione con la Natura e il Cosmo che è mantenuto in vita da un’unica grande e immanente forza, il Kausay Pacha (Energia del Cosmo). L’uomo la può percepire come fine o pesante, il suo scopo è di tenerla in continuo movimento rendendola fine ed eliminando la parte pesante. Sono gli sciamani che guidano i membri del villaggio in questo “cammino nell’energia”, dialogando col Cosmo. Questi sacerdoti sono di due tipi: i Pampamishayoq e gli Altomishayoq. I primi conoscono una serie di rituali che sono stati loro tramandati, mentre i secondi sono scelti direttamente dagli spiriti Apu e sono direttamente connessi al Cosmo.
La loro pratica mistica preferita è il ‘Despacho’, una lunga e complessa cerimonia dedicata alla ‘Pachamama’, la Madre Terra, dove le foglie di coca rivestono un ruolo fondamentale. Il ‘popolo delle nubi’ parla con le montagne e danza con i mitici uccelli dalle gambe lunghe chiamati kios. Questi rituali servono per radicarsi nella terra (come gli alberi) e aprirsi al Cosmo, ricercando l’armonia con i cicli e i fenomeni naturali.
Sono persone davvero affettuose: salutano con un abbraccio, piuttosto che una stretta di mano, sono amichevoli, ironici e possiedono un gran cuore. Hanno una percezione visiva e uditiva molto acuta, non hanno attaccamenti materiali e trasmettono un senso di pace e serenità.
Sono capaci di risolvere i loro problemi sociali attraverso costruttive riunioni della comunità e vantano una grande organizzazione interna basata sull’aiuto reciproco e sulla venerazione per gli anziani.
La popolazione oggi conta circa 750 unità, in quanto molti giovani migrano con le famiglie verso città vicine come Ocongate, Paucartambo e Cuzco. Trovano occupazione come guide turistiche, facchini o aiutanti perché sono aperti e hanno una grande padronanza della lingua spagnola e inglese, oltre che della loro lingua madre.
Ogni anno nascono una ventina di bambini e muoiono una decina di anziani, ma sono cifre approssimative segnalate oralmente dai capi delle comunità, in realtà non conoscono la propria età perché non ricordano con certezza quando son nati.
Un tempo era molto difficile raggiungere questi villaggi, oggi si arriva con i taxi fino al piccolo centro di Chua Chua che dista circa due ore di camminata dal più vicino villaggio, uno sforzo tutto sommato accettabile. Poi, per andare da un villaggio all’altro può essere necessario camminare anche un’intera giornata.
Gli indios sono dei grandi camminatori, non li spaventa la fatica, non sono abituati alle comodità e non le desiderano. Ogni mattina si svegliano e rendono grazie per il semplice fatto di aver ricevuto un nuovo giorno. Se la loro antica profezia si avverasse, ci potrebbero insegnare valori che abbiamo dimenticato in questi 500 anni della nostra civiltà.