Valeria Nardi, nata a Trento, dopo il diploma di liceo scientifico si iscrive alla facoltà di Scienze antropologiche dell’Università di Bologna. Conseguita la laurea con una tesi sull’alimentazione vegana con il professore Massimo Montanari, si iscrive al master biennale internazionale di Storia e cultura dell’alimentazione che frequenterà nelle tre sedi: Bologna, Tours e Barcellona.
Nel 2011 si trasferisce a Milano dove inizia la collaborazione, e successivamente viene assunta, presso la rivista online di alimentazione Il Fatto Alimentare di Roberto La Pira.
Dal 2014 è iscritta all’ordine della Lombardia come giornalista pubblicista. Parallelamente svolge attività di rilievo nel sociale a titolo volontario in particolare con bambini e ragazzi e anche con l’insegnamento di italiano a stranieri.
Dal 2019 è vicepresidente dell’associazione LAR, Libera Associazione Rousseau, che si occupa di minori e tempo libero.
Sono nata e cresciuta a Trento, una città accogliente e a misura di persona ma che, come tutti i paradisi, presto o tardi bisogna lasciare per scoprire il mondo. La mia famiglia è sempre stata presente e stimolante. Ogni pranzo e cena si trasformava in un’occasione per confrontarsi e discutere di qualsiasi argomento. Da qui ha origine la mia passione per il dibattito (che alcuni amici forse ritengono talvolta esasperante).
Mia madre, una donna estremamente intelligente e generosa, è senza dubbio un esempio per me. Da lei ho imparato a superare gli stereotipi e a cogliere il bello in ciò che mi circonda, ma anche la forza e la determinazione di lottare per cambiare quello che percepisco come ingiusto.
Quanto la sua formazione antropologica ha influenzato le sue scelte e la sua attività?
Se parliamo di sogni e desideri, il pensiero non si ferma quasi mai a obbiettivi individuali, ma piuttosto a progetti che si pianificano e realizzano insieme ad altre persone, affini e complici, per creare anche un presente di condivisione. Forse è proprio per questa mia impostazione che gli studi antropologici si sono presto incanalati verso un approfondimento del ruolo e dei significati dell’alimentazione nella cultura e nella società: il cibo rappresenta moltissime cose tra cui identità, tradizione, innovazione, ma è soprattutto incontro e scambio.
È giornalista de Il Fatto Alimentare.
Dopo la laurea in Storia e cultura dell’alimentazione ho iniziato a collaborare con Il Fatto Alimentare, una rivista online fondata dieci anni fa dall’attuale direttore, Roberto La Pira. Si tratta di una testata indipendente, unica nel suo genere, che affronta il tema del cibo a 360°: dalle pubblicità ingannevoli alle normative sulle etichette, dalle diete miracolose ai consigli dei nutrizionisti. Si potrebbe riassumere con “tutto sul cibo tranne le ricette”. Grazie al lavoro di redazione e all’esperienza del direttore, ho acquisito nuove nozioni sul processo produttivo contemporaneo e sulle caratteristiche del cibo ma soprattutto su come comunicare tutto ciò ai lettori.
Come fare del giornalismo indipendente.
È importante essere precisi, verificare le fonti – sempre, anche quando si tratta di autorità o istituzioni – ed evitare i sensazionalismi. I mass media hanno infatti la diffusa abitudine di parlare di cibo o di industria alimentare con toni allarmistici, utili ad aumentare le tirature, più che a informare i lettori. Fare giornalismo indipendente è difficile anche per questo motivo, bisogna riuscire a essere trasparenti, a non cedere alle lusinghe delle aziende e ai pubbliredazionali (gli articoli precompilati dagli uffici stampa), ma neanche al complottismo, che ultimamente sembra riuscire a insinuare qualsiasi argomento.
Quello che rende ancora più difficile la comunicazione è la distanza tra i cittadini e l’industria alimentare. Le filiere sono lunghe, i cibi sempre più trasformati, la comunicazione pubblicitaria non entra nel merito del prodotto ma del sistema valoriale che lo accompagna. In una realtà così complessa è difficile per chiunque orientarsi, spesso anche per chi ha una formazione specifica se non si tiene costantemente aggiornato.
È difficile capire che il prezzo su un cartellino non corrisponde al valore di un prodotto, e raramente ripaga chi ha creato quel bene.
Un'alimentazione sana e sostenibile è legata strettamente a un'agricoltura rispettosa dell'ambiente e dei suoi lavoratori.
L’esperienza del COVID-19 ha reso ancora più evidente che il modello socio-produttivo in cui viviamo non solo non è sostenibile per l’ambiente e i lavoratori, ma può diventare pericoloso. Focalizzarsi solo su quello che mettiamo in tavola e scegliere cibi sani e nutrienti non è più sufficiente. Occorre andare a ritroso lungo la filiera e rivalutare tutti i protagonisti. Siamo tutti connessi e ogni nostra scelta incide in qualche modo anche su altri piani. Ma non si può certo far ricadere sui cittadini la responsabilità di decisioni politiche che negli anni hanno impoverito i piccoli agricoltori e allevatori, fino a farli scappare in città, perdendo non solo i frutti della produzione, ma anche uno stile di vita “green” ante litteram, che della natura conosceva le potenzialità e la furia, ricoprendo anche un ruolo nella conservazione dell’ambiente e nella riproduzione delle sue risorse.
Un altro esempio sono i giovani che, lasciando la città, hanno provato a costruirsi una vita e un lavoro in campagna, ma che dopo molto lavoro e molta fatica hanno dovuto abbandonare: come si può competere in un’economia di sconti e sottocosto senza fare tagli agli stipendi, alla qualità o alla sicurezza?
Eppure alcune realtà esistono e resistono, spesso grazie alla cooperazione e alla creazione di reti di produttori e trasformatori, e in alcuni casi anche con l’aiuto di grandi aziende che con una visione lungimirante, puntano e sviluppare un modello produttivo sostenibile e più giusto. Ovviamente si tratta di nicchie nel panorama agricolo italiano che potranno sopravvivere e svilupparsi solo se si metterà seriamente in discussione lo status quo di un’economia di sfruttamento e competizione sfrenata e se i consumatori acquisteranno una coscienza sul tema.
Come l'attuale pandemia ha inciso sulla percezione dell'alimentazione e della sua filiera?
La quarantena forse ci ha suggerito qualcosa: veder aumentare i prezzi di frutta e verdura ci ha ricordato che queste non si materializzano magicamente nel reparto ortofrutta del supermercato, ma qualcuno deve preparare il terreno, scegliere i semi più adatti, coltivare con attenzione e raccogliere quando è tempo. Se solo una persona di questa filiera manca, tutto il resto presto o tardi crollerà.
La scommessa del futuro, per città come Milano, è assicurare il sostentamento alimentare, senza vampirizzare le campagne, puntando sulla creazione di modelli di interscambio vantaggiosi non solo dal punto di vista economico, ma soprattutto ambientale e sociale.
Come vede la Milano di oggi?
Queste riflessioni nascono e si sviluppano non solo dal mio lavoro in redazione a Il Fatto Alimentare, ma anche dalle altre esperienze che ho vissuto a Milano. A molti non piace: “È grigia. È sporca. C’è troppo traffico” dice, con una veloce occhiata, chi è solo di passaggio. Sicuramente è una città difficile, soprattutto venendo una realtà più piccola come la mia Trento, ma sono proprio le sue contraddizioni che la rendono la fucina d’Italia. E non mi riferisco all’aspetto economico del quale si sente sempre parlare nei telegiornali, ma di quello umano, politico, artistico. Se si superano i propri timori e stereotipi, la città si mostra per quella che è, un luogo di incontro di culture e di idee, di scontro e di contatto con “l’altro”. A Milano l’alterità è la norma, ed è la sua salvezza dal pericolo dell’involuzione culturale.