La risposta analitica si sviluppa nella tolleranza per il fraintendimento e l’incomprensione, per il silenzio o il rumore traumatico…
(F. Petrella, L’ascolto e l’ostacolo)
Veronica è una giovane donna di 33 anni, fa l’ingegnere, è creativa, affidabile, molto capace. Lavora in uno studio importante di una grande città dove è molto stimata, tanto da esserle conferiti incarichi di resposabilità nella gestione degli appalti. Chiede di inziare un percorso di aiuto psicoterapeutico perché “ho problemi di parola”.
I problemi del linguaggio riguardano una difficoltà fonatoria per cui i suoni sono impastati, aggrovigliati, confusi, creano una sequenza sonora disturbante che rende incomprensibile il suo parlare, come se si esprimesse in una lingua altra, strana non solo impedendo la comunicazione, ma costituendo addirittura un intralcio al rapporto con gli altri. Ma non solo, le parole escono disordinate, senza capo né coda, senza senso logico, un’insalata di parole per cui il discorso risulta strampalato, indecifrabile e nell’insieme dà luogo ad una rumorosità assurda.
La comunicazione diventa talmente incomprensibile che nell’ambito del lavoro, per potersi intendere, le hanno dovuto affiancare un “traduttore” per rendere codificabile il messaggio.
Gli altri sono spaventati da lei, per la sua stranezza/estraneità nell’esprimersi coniugata allo stesso tempo con una notevole competenza lavorativa, è perturbante l’immagine che dà di sé, una sorta di incongruenza inspiegabile che lascia perplessi e smarriti.
Veronica diventa questa sorta di aliena quando è morsa dall’ansia, ansia che la invade in maniera così devastante che la confonde e le fa perdere i parametri di realtà, e allora per difendersi dal terrore dell’impatto col reale che non sa fronteggiare, si rifugia in una bolla di incomunicabilità, che diventa sì la sua salvezza, ma anche la sua prigione.
Vagola nella vita un po’ come “Alice nel paese delle meraviglie” o, per come la immagina la sua teapeuta, ricorda la protagonista del film Il favoloso mondo di Amélie. Appare quindi più personaggio che persona.
Ne risulta che si trova sola e terrorizzata in questa sorta di clausura, non riuscendo a realizzare quale sia il suo bisogno né come cercare aiuto. Si sente persa in un disorientamento angosciante e immodificabile, niente le sembra possibile, né realizzabile.
Durante le sedute psicoterapeutiche, unico contesto dove invece riesce ad usare correttamente le parole, parla ininterrottamente lamentandosi, si srotola nel discorso una litania senza fine: non c’è scampo alla vita, non c’è via d’uscita, non c’è speranza, tanto meno il baluginare di una qualsivoglia soluzione.
In seduta Veronica manifesta il suo problema di parole attraverso un parlare parlare parlare piagnucoloso e riempiendo con foga tutto lo spazio e il tempo, tanto che la sua terapeuta si sente invasa e stordita da tutto questa sonorità lamentosa, monocorde, le sembra un disco, un disco rotto e non c’è possibilità di fermarlo o non vede come aggiustarlo, il disco va avanti incessantemente, all’infinito, non concedendole un minimo spazio di inserimento, né di pensiero.
Il disco non dà tregua, richiede con forza di essere ascoltato.
Appare evidente come nella relazione tra paziente e terapeuta si instauri un luogo pulsionale puro dove può riaccendersi l’originario: quali domande pregnanti della bambina Veronica sono rimaste inascoltate da sua madre e rivendicano qui il diritto di un ascolto?
Veronica lascia nella sua terapeuta una sorta di pesantezza digestiva e una stancante sensazione di impotenza tanto che è sentita irraggiungibile e immodificabile. Quale linguaggio potrebbe toccarla? Quale pensiero potrebbe suscitare risonanza e condivisione? Quale lingua speciale trovare per una donna che chiede aiuto per “problemi di parola” e che la frastorna con le parole? Come trasformare tutto quel fragore aggressivo in musica? Come dare sintonia alle stonature e agli stridori del suono lamentoso della sua voce?
Anche il corpo di Veronica comunica difficoltà di sintonizzazione interna ed esterna: nonostante sia potenzialmente carina, appare stramboide, lo sguardo è fissamente spalancato e stupefatto, i movimenti sono rigidi senza flessuosità, le parti del corpo risultano essere sconnesse, disarticolate, disarmoniche.
Manca la musica che dia al “corpomente” di Veronica la sua sinfonia, non c’è danza nel suo movimento, ma movimenti inceppati e stonati o una rigidità muta, senza suono. La musica come bisogno espressivo innato degli esseri viventi è silenziato, non ha accesso nel mondo di Veronica, forse la natura ultima, enigmatica, magica dei fenomeni musicali è inquietante per lei, potrebbe metterla al cospetto di una misteriosità che la spaventa o forse nelle relazioni primarie non è risuonata nessuna sonorità che la contenesse, che la consolasse, ma è rimbombato un silenzio spaventoso, facendola precipitare in un buio senza fine.
In questa circolarità di tempo lamentoso senza mutamento accade, però, un “accidente”: a causa del Coronavirus si verifica, inevitabilmente, un cambio di scenario imprevisto nella relazione terapeutica, non ci si potrà più incontrare di persona, ma le sedute si dovranno fare per via telematica.
Durante il primo mese Veronica è felice di questa prescrizione, viene sancito e addirittura raccomandato di stare in casa, al riparo da relazioni, la sua “bolla di ritiro sociale” è come “santificata”. Le sedute si riempiono, comunque, delle sue lamentele continue, senza fine, quelle non lasciano tregua, neanche il “lockdown” le chiude. Sono una nenia lamentosa. Paludosa? E allora come non essere travolte dal gorgo della palude?
Annaspando, cerchiamo di uscire dalla palude attingendo dall’immaginazione.
In realtà il lavoro dell’ascolto consiste non solo nel valorizzare il testo della comunicazione, ma anche il suono con cui è veicolato cercando di toccarlo, di vederlo, attribuendogli un’immagine, e quindi corredandolo di un senso tenendo quindi conto di cosa può suscitare nell’ascoltatore.
Le lamentele inondanti di Veronica suscitano nella sua terapeuta l’immagine dell’onda eterna del mare che arriva alla spiaggia col suo fruscio “sc sc sc sc” e lambisce i corpi incessantemente per poi all’improvviso, un movimento a tradimento, ecco un’onda più alta che colpisce il viso, si insinua bloccando bocca e naso e impedisce di respirare.
Anche nella loro relazione si verifica come un “accidente musicale”, il laconico e ritmico lambire delle onde/voce di Veronica si intensifica per una variazione di movimento verso l’alto che sorprende, inonda e blocca tanto da togliere il fiato.
E la reazione della terapeuta all’inondazione delle parole-lamenti di Veronica è un senso di soffocamento.
La terapeuta intanto, nelle sedute online, constata che Veronica col corpo si china in modo da uscire dal campo visivo della videocamera mostrando solo i capelli-onde del mare. Il viso, completamente nascosto, fa capolino solo alla fine della seduta, riemergendo dal suo nascondiglio per mostrare due enormi occhi sbarrati lampeggianti terrore, ma anche simili ad una voragine famelica e richiestiva di aggrappamento che inquietano la dottoressa.
Sembra proprio che per Veronica il guardare e l’essere guardata sia un contatto molto intenso, forse è addirittura ustionante per la sua pellicola mentale, sembra preferire la comunicazione acustica, questa è un’intimità che ricerca e che riesce tollerare. Ma non solo, Veronica sta comunicando il bisogno lancinante di essere ascoltata.
Riflettiamo insieme sull’importanza dell’ascolto nel lavoro clinico, ipotizziamo l’origine, forse prenatale, del suono o della musica, o dei precursori arcaici della parola riferendoci alla relazione primaria con la madre e col padre.
Il suono del lamento di Veronica quale comunicazione primitiva incarnerà? Cosa vorrà dire alla sua terapeuta con quel fruscio di onde penetrativo e monotono, logorante ed estenuante, ma tenace e, in un certo senso, autoassertivo?
D’altra parte, pur essendo fastidiosa, non è bloccando la lamentela senza chiedersene il senso, che si può comprendere il male a cui dà voce, occorre indugiare, darsi un tempo necessario per cogliere il ritmo e la musica del discorso, per farsi penetrare da quel rumore per conoscerlo prima di potersi avvicinare alla sua verità e poter arrivare a delle risposte adeguate.
Nell’ascolto: “Innanzitutto bisogna sospendere l’azione e privilegiare una propria posizione recettiva di osservatore… Chi ascolta veramente qualcosa deve tacere, e si richiede silenzio sia all’esterno, sia all’interno dell’esperienza soggettiva dell’ascoltante.”
È una posizione emotivamente scomoda quella di porsi in bilico tra l’aver fede che un significato si costituirà e la paura di non appoggiarsi a delle certezze precostituite, per esempio, senza fare ricorso alla teoria. Però lo scopo di questa astensione dal noto e dal sicuro è favorire il germinare qualcosa di nuovo, di imprevedibile, mai pensato prima, è favorire un incontro e la scoperta di nuovi significati, è giocarsi in quell’esperienza relazionale per poterla vivere e comprendere fino in fondo.
Eliminando il visivo Veronica ha ottenuto che si valorizzasse lo spazio acustico che, se esplorato, attiva le potenzialità immaginative e, attingere alla dimensione fantastica della mente, è un valido aiuto per potersi avvicinare all’aspetto misterioso ed enigmatico dell’esperienza. “Pensare, per esempio, che così si potrebbe comportare chi si è perduto in un bosco o in un luogo deserto, privo di altri riferimenti e dove solo dai suoni gli possono venire delle indicazioni per orientarsi, potrebbe essere un primo passo utile.”
In quale intricato bosco della mente Veronica ci vuole immettere, quali sassolini dovremo spargere per ritrovare la strada?
L’immaginazione come l’esperienza del sogno ci “risveglia” dalla solida e concreta esperienza dello stato di veglia, aprendo a nuovi significati, a tante combinazioni possibili, mai supposte prima, scoprendo la possibilità di andare oltre l’ostacolo stesso. La lamentela ingombrante e paralizzante di Veronica acquista, infatti, pensabilità e movimento quando si trasforma nella mente della sua terapeuta in onda del mare.
L’ascolto partecipato e perspicace sa cogliere la musica che sta dietro/dentro le parole, sente il tono, il ritmo, la prosodia, il timbro. “Questi aspetti musicali del discorso sono in rapporto con la voce, con una vocalità nella quale il corpo prende voce. La voce sta per la persona che si esprime attraverso essa… La sintesi del corpo nella voce con le parole e il gesto concorre all’evento comuncativo e al costituirsi del suo senso in modo determinante”.
La voce di Veronica vibra malessere, tocca e intacca la sua terapeuta, ma è l’unico strumento che ha per veicolare la sua sofferenza con la speranza che, questa volta, venga accolta, ospitata, condivisa e, in seguito, trasformata. E tale ascolto, attivato da un “udito immaginativo” arricchisce di funzioni sensoriali aggiuntive la possibilità di relazione, realizzando quel “common sense” bioniano per cui il senso comune è dato dalla compartecipazione di tutti i sensi in modo da realizzare un armonico contatto con la realtà.
L’essere umano ha bisogno sia di ascoltare, sia di percepire, e quindi di credere, di essere ascoltato e soprattutto capito. Come il bisogno di nutrimento e d’amore, anche essere ascoltato è un bisogno originario del bambino, che concorre a definirne l’essenza umana.
Nel loro non facile cammino Veronica e la sua dottoressa condivideranno l’esperienza dell’ascoltare e dell’essere ascoltate, attraversando rumorosità fastidiose, dolorosi non-sensi, ma anche creando musiche inaudite, risuonando del pianto inconsolabile del bambino e della voce cullante della madre, ripercorrendo la trama del narrare e ascoltare storie, in una danza relazionale dove poter trovare la propria musica, scrivendo quello spartito a quattro mani dove può trovare ospitalità finalmente una parola chiara e armoniosa, avendo vissuto l’esperienza di un buon ascolto e di un buon racconto per poter abitare il proprio posto nel pentagramma della vita.
Le citazioni sono tratte da: L’ascolto e l’ostacolo, di Fausto Petrella, Editoriale Jaca Book.