Attualmente non mi conosco.
(Alda Merini)
Arrivati alla tanto attesa Fase 2 stiamo scoprendo che quello che doveva essere un riavvicinamento alla “normalità” non ci ha restituito la sensazione di stabilità che ci aspettavamo. Nulla è come prima, lo spaesamento persiste e c’è la sensazione diffusa di non riuscire a capire cosa ci è successo.
Da questo punto di vista non è un epidemiologo che ci può fare da guida in questo stato di incertezza, non è la comprensione dei meccanismi di diffusione del virus che ci può dare sollievo, ma la comprensione dei nostri processi interiori.
Ho pensato quindi di parlarne con qualcuno in grado di fare un po’ di luce in questa situazione: il risultato è questa appassionante conversazione con la dottoressa Grazia di Giorgio, analista Junghiana e terapeuta del trauma, che ringrazio di cuore per il tempo che ha voluto dedicarci.
Cosa ci sta succedendo nell’affrontare questa fase di riapertura?
C’è una questione su cui secondo me è importante riflettere: il senso di ignoto di questi giorni, il non sapere che cosa succederà, la stessa invisibilità e le mille incognite di questo misterioso virus secondo me sono una caratteristica molto importante della situazione con cui ci stiamo confrontando. Siamo di fronte a una profonda frattura con la nostra storia recente, perché fino a forse centocinquant’anni fa la gente davvero non sapeva cosa stesse succedendo altrove: nel paese vicino poteva essere scoppiata una guerra, una epidemia, forse un fenomeno meteorologico improvviso avrebbe distrutto il raccolto. Non era dato saperlo, in qualche modo si conviveva con l’impossibilità di prevedere il futuro.
Da questo punto di vista possiamo quindi dire che la modernità corrisponde ad una visione che si espande sempre di più, sia in senso spaziale che in senso temporale, dandoci l’illusione di poter prevedere - e controllare - cosa succederà. L’orizzonte temporale è frutto della modernità.
In una recente intervista su La Repubblica Umberto Galimberti ha detto delle cose secondo me molto importanti proprio a proposito di questa idea tutta moderna di progresso come sviluppo rettilineo, continua crescita ed “evoluzione” che ci permette di poterci immaginare nel futuro senza troppe apparenti difficoltà.
L'arrivo di questa pandemia in qualche modo ci ha accecati, infrangendo il senso implicito di visibilità che sostiene il nostro rapporto con il mondo. Il contagio si insinua in modo invisibile, inafferrabile. Ci sono, per esempio, mille problemi e discussioni su chi e come testare per fermare il contagio, un conflitto che secondo me è psicologicamente molto interessante, perché cercare un riscontro oggettivo di chi è e chi non è contagiato significa in un certo senso cercare un confine, un limite definito, qualcosa di certo e concreto a cui aggrapparsi di fronte a tutta questa incertezza.
Quale è stata la reazione della gente a questo improvviso stato di incertezza e di mancanza di prospettive? Quali sono state le conseguenze di questo senso di enorme insicurezza?
Tollerare psicologicamente una tale incertezza è molto difficile, e penso che lo sia molto di più oggi che 150 anni fa. Una cosa è riconoscere intellettualmente il fatto che nella vita non ci sono garanzie, un’altra è viverne l’esperienza in modo così brutale e immediato. Per quanto preziosa, la consapevolezza della morte non fa parte del modo ordinario in cui noi viviamo, e questo atteggiamento si trasferisce alla nostra grande difficoltà di riconoscere un valore evolutivo alla sofferenza, alla perdita, e al non-sapere. Questa epidemia ha squarciato il velo protettivo della nostra illusione, la nostra scienza rimane temporaneamente senza risposte, si spera nel vaccino e intanto siamo tutti sotto il cielo...
Ecco, allora, quello di cui mi preme parlare è che da un punto di vista psicologico l’esperienza temporanea di cecità della coscienza è molto legata alla questione della proiezione, che è un meccanismo importantissimo, essenziale quando parliamo di sviluppo psichico, e che penso rappresenti una chiave di lettura preziosa per la gestione del fenomeno pandemico.
Il termine “proiezione” è entrato a far parte del linguaggio comune, ma è un concetto vago a cui noi diamo interpretazioni personali e a volte molto diverse. Potresti chiarire che cosa significa esattamente questo termine?
In termini analitici, la proiezione è stata descritta inizialmente da Freud nel suo famoso libro L’Interpretazione dei sogni come un meccanismo di difesa, attraverso cui la persona sposta fuori di sé, su altre cose, situazioni o persone, delle emozioni o caratteristiche che le appartengono, ma di cui non vuole o non sa ancora essere consapevole. Ora, senza addentrarci troppo in una disquisizione sulle differenze tra la psicologia Junghiana e quella Freudiana, vorrei dire che seppure all’inizio Freud parlò di questo meccanismo in termini patologici, e in particolare come di una difesa legata alla paranoia, più avanti egli ne riconobbe il carattere di “normalità”.
In altri termini, la proiezione non è necessariamente un fenomeno patologico, ma è soprattutto - come dicevo prima - un aspetto essenziale e creativo dello sviluppo psichico. Il problema è ciò che succede una volta che i contenuti inconsci repressi vengono proiettati fuori: li lasciamo lì fuori, dissociati, o approfittiamo del fatto che li abbiamo resi visibili per poter cominciare ad assimilarli e quindi a crescere?
Prendiamo come esempio la nostra conversazione: il fatto di avere delle cose dentro e poi l’esprimerle in parole, metterle fuori per poi poterle guardare insieme, è un meccanismo essenziale per lo sviluppo della nostra reciproca consapevolezza. Solo quando un sentimento o un pensiero viene materializzato, rappresentato in qualche modo - attraverso immagini, parole, suoni, ecc. - esso può essere poi integrato. La proiezione è un istinto primario degli esseri umani, fa parte di quello che Jung chiamava l’istinto creativo, un istinto talmente vasto e potente che comprende e sovrasta anche l’istinto sessuale. Se ci pensi, la creatività e l’evoluzione sono profondamente connesse: la creatività è necessaria per l’apprendimento e per l’adattamento, che a loro volta sono necessari per la sopravvivenza. La creatività quindi non è un lusso, un capriccio che qualcuno si può permettere e altri no, ma è piuttosto un aspetto essenziale della nostra vita di ogni giorno. Ha un carattere istintuale, ed è necessaria alla sopravvivenza.
Appare quindi naturale che in una situazione come questa, in cui la nostra sopravvivenza individuale e collettiva è minacciata, l’istinto creativo si attivi in maniera molto potente, e questa attivazione della nostra “creatività quotidiana”, è legata a un intensificarsi dell’attività proiettiva.
Qual è la relazione tra proiezione e creatività?
Se consideriamo i primi esempi di arte primitiva, le impronte di mani o le figure umane tracciate sulla parete di una caverna, possiamo dire che queste rappresentazioni servissero ai nostri antenati per rappresentare se stessi, un po’ come guardarsi allo specchio è necessario per poter vedere la nostra faccia. Ecco, possiamo immaginare l’atto creativo come un sonar, come uno scandaglio che ci dà il senso della nostra forma e posizione, dei nostri confini, e dello spazio psichico e fisico in cui siamo immersi.
Di nuovo, però, se l’atto di proiezione da un lato apre la possibilità creativa di allargare ed evolvere la nostra personalità, allo tesso tempo può servire ad espellere dei contenuti che mi appartengono ma che per me sono inaccettabili o intollerabili, e che quindi così lascio fuori, ad inquinare, a contaminare il mondo. La sfida evolutiva allora diventa quella di riconoscere e iniziare a riappropriarmi di quello che ho buttato fuori ma che invece mi appartiene, di curarlo e dargli uno spazio dentro di me. Questo è quello che in termini analitici chiamiamo la cura dell’ombra.
Se ho capito bene si tratterebbe quindi di una specie di funzione a specchio, noi proiettiamo sull’altro qualcosa che di fatto ci appartiene, e che prima o poi venendo riflessa ci viene restituita.
Sì, ma mentre lo specchio non collabora a costruire l’immagine riflessa la proiezione è un fenomeno che influisce anche sull’esterno.
E qui veniamo alla questione misteriosa e meravigliosa del rapporto tra dentro e fuori, tra il mondo interiore e l’esperienza oggettiva. Perché se da un lato noi non possiamo dire che quello che esiste dentro di me è completamente separato e sconnesso da quello che esiste fuori, dall’altro non possiamo neanche dire che quello che c’è fuori è solo un riflesso di quello che c’è dentro. Anche a livello scientifico è ormai assodato che l’atto di osservare influisce sull’oggetto dell’osservazione e quindi in realtà non c’è una vera separazione tra me che guardo e ciò che guardo. La realtà esterna non è qualcosa di inerte, ma spazio, tempo e materia si organizzano in base a chi li esperisce. L’intera esperienza della psicoterapia e dell’analisi è proprio basata sul fatto che posso stare qui, in una stanza, a parlare del mio mondo con la terapeuta, ed effettivamente la mia vita al di fuori di questa stanza comincia a cambiare in un modo che per quanto possa spesso apparire misterioso è anche altrettanto innegabile.
Tornando alla nostra situazione presente e alla minaccia della pandemia, a questa esperienza scioccante di cecità della coscienza, del non riuscire a sapere come sarà il “nuovo normale” e a cosa stiamo andando incontro, direi nuovamente che la necessità di fare attenzione alle nostre proiezioni mi sembra essere un argomento particolarmente rilevante anche se trascurato dal dibattito ufficiale.
Ricordiamo, infatti, che la proiezione, sia psichica che fisica, ha bisogno di uno spazio che possa accoglierla, un vuoto, un buio, un non-sapere, una sorta di schermo riflettente di qualche tipo. Può essere la notte stellata in cui gli antichi leggevano il senso della propria vita e trovavano il divino, o all’interno di un gruppo può essere la persona che non parla, sul cui silenzio tutti proiettano la propria immaginazione di quello che questa persona sta pensando ma non dice. La comparsa “dell’altro”, del diverso da noi, in questo caso il virus, apre una finestra nei muri della nostra casa mentale, e così facendo accende la nostra lanterna magica: ciò che dentro di noi è vivo ma invisibile ci appare all’esterno e si mescola, contamina, contribuisce a dare forma a questa realtà che ci sforziamo di vedere.
Il problema delle proiezioni diventa poi ancora più importante oggi che siamo nella cosiddetta “Fase 2”, perché per quanto si profilasse già prima almeno fino a quando eravamo tutti chiusi in casa c’era una sorta di orizzonte concreto: bisognava abbassare la curva epidemica, la stessa Fase 2 era un orizzonte, ma ora che ci siamo arrivati siamo tutti delusi e arrabbiati, perché ancora una volta il nostro sipario si è sfondato, e siamo davanti al buio.
Non avendo la possibilità oggettiva di sapere cosa sta succedendo e cosa succederà, avendo vissuto la fine dell’illusione del fatto stesso che il futuro sia prevedibile e controllabile - visto che nessuno a gennaio poteva immaginare di trovarsi di fronte a una pandemia mondiale - ci siamo scontrati con il fatto che avere il controllo sulla realtà è un’illusione. Nel momento in cui la realtà sembra possedere delle variabili impossibili da immaginare, tentiamo di ritrovare un po’ di equilibrio e sicurezza in certezze di tipo probabilistiche: ogni giornalista, sociologo, antropologo ha dato una serie di interpretazioni possibili che spesso vengono presentate come l’unica lettura possibile. Forse questo riflette il bisogno di avere delle risposte univoche per ricreare il senso della realtà, che abbiamo perduto.
Appunto per questo io penso sia particolarmente importante renderci conto che nello sforzarci di immaginare ciò che succederà, ognuno di noi attiva le proprie proiezioni. Guardando la televisione o leggendo i giornali in questi giorni, mi sembra evidente che persone diverse sembrano descrivere realtà diverse e apparentemente inconciliabili. Essere consapevoli di questo meccanismo di proiezione non significa invalidare quello che diciamo o pensiamo, ma è piuttosto un lavoro di relativizzazione e di assunzione di responsabilità personale assolutamente necessario. Lo è sia per arrivare a poter prendere decisioni efficaci e collaborare meglio con gli altri a livello concreto (evitando distorsioni paranoiche), che per cogliere le numerose opportunità creative e di crescita individuale nascoste in questa terribile emergenza.
Il lockdown ha portato certe persone a poter coltivare finalmente il proprio giardino interiore, a nutrire le relazioni più intime, mentre per altri si è trattato di un’esperienza terribile, una specie di allagamento. In questa situazione sono affiorate cose sepolte e dimenticate, o a lungo ignorate. C’è chi ha riordinato gli armadi di casa ma anche gli armadi interiori, i cassetti del proprio cuore, chi ha trovato lo spazio per imparare cose che non aveva mai avuto il tempo di imparare, tempo per cucinare, dipingere, meditare. Per quanto mi riguarda, nonostante l’oggettiva difficoltà delle sedute in videoconferenza, quasi tutti i miei pazienti che hanno potuto e voluto continuare il percorso analitico durante il lockdown hanno lavorato a livelli di profondità e intensità per molti versi inaspettati. Se però questo è un modo creativo di gestire una regressione della libido, c’è anche un modo non creativo, e sinceramente piuttosto problematico, di affrontare un’esperienza del genere.
Questo secondo modo coincide con quella che in termini psicologici chiameremmo una regressione vera e propria, cioè un ritorno a uno stato di evoluzione precedente, più primitivo, che si cristallizza in un atteggiamento rigido di lotta o fuga, rabbia o diniego rispetto all’ostacolo. Ciò si allaccia a quello che dicevo prima a proposito del fatto che la proiezione può avere un esito patologico o uno creativo, perché la proiezione puramente difensiva (e quindi “patologica” e non creativa) serve proprio a gestire l’incontro con un ostacolo in modo involutivo piuttosto che adattivo. Ci si libera dell’energia in sovrappiù sbattendola fuori e chiudendo la finestra, per così dire, e il conflitto non è più interno ma è tra me e l’esterno.
Questo tipo non-adattivo di reazione alla sofferenza ha molto a che fare con il trauma. A livello del sistema nervoso, sappiamo che a livelli crescenti di attivazione le parti più primitive tendono a prevaricare le parti evolutivamente più recenti. Quando l’attivazione comincia a diventare troppo alta e non più gestibile, la parte del sistema nervoso che ha a che fare con la reazione non verbale di lotta e fuga rispetto a una minaccia prende il sopravvento sulla parte evolutivamente più recente, quella della corteccia prefrontale e del sistema ventrale vagale che hanno a che fare con il pensiero, la parola, con l’essere in relazione sia con gli altri che con noi stessi.
Quando anche questo sistema viene sopraffatto, prende il sopravvento la parte più antica che chiamiamo il cervello rettile, la quale attiva quello stato di congelamento in cui ci si trova quando siamo completamente sopraffatti, immobilizzati, in una situazione di terrore: quando non si può più parlare si prova a scappare o a lottare, e quando anche questo non è più possibile ci si blocca. Si resta senza parole e senza pensieri ma c’è una enorme energia trattenuta nel sistema psicofisico, che avrà bisogno di essere integrata.
In una situazione di lockdown possiamo immaginare come per molte persone il fatto di trovarsi chiusi in casa, bloccati, mentre ci parlano di “guerra”, e della necessità di difenderci contro un nemico invisibile e inafferrabile, abbia portato a una regressione traumatica che in molti casi è sfociata in situazioni di violenza. Stiamo infatti assistendo all’esplodere di una emergenza globale rispetto alle situazioni di violenza domestica, di abuso sui minori, sugli anziani, sui più deboli. Questo chiaramente riguarda anche l’esperienza dei lavoratori essenziali come il personale dei supermercati, le forze dell’ordine, o gli operatori sanitari che hanno dovuto restare sul posto di lavoro, esposti ad un pericolo da cui tutti gli altri venivano ammoniti. Certo, per alcune e alcuni di loro c’è anche un aspetto diverso che è quello eroico, la consapevolezza di svolgere un ruolo essenziale e importante, vitale, meraviglioso, generoso. Ma non c’era la possibilità di scegliere, ci si sono trovati dentro e hanno dovuto combattere, e questo è di per sé traumatico, a prescindere dal fatto che molti probabilmente non fossero preparati a un tale sacrificio, o che - come è ormai ampiamente noto - queste nostre eroine ed eroi non siano stati adeguatamente sostenuti.
Ciò spiegherebbe l’aumento di reazioni aggressive, e il ritorno a forme autoritarie da parte dello Stato, perché non sono solo le persone ma anche le nostre strutture sociali sono cambiate.
Certo. Anche nel collettivo, che dopotutto è formato dall’insieme delle coscienze individuali, direi che stiamo assistendo in molti casi a delle reazioni di tipo regressivo da parte di governi che invece di collaborare si azzuffano per accaparrarsi risorse come un branco di lupi affamati, o che propongono una visione infantilistica dei cittadini come persone incoscienti e incapaci di gestirsi. Anche il tono spesso aggressivo o difensivo delle comunicazioni istituzionali e mediatiche e la difficoltà apparente di mantenere un senso di prospettiva, chiarezza, e di visione d’insieme, mi sembrano riflettere questa stessa difficoltà.
Cosa ci può aiutare ad affrontare questo processo?
Ormai è chiaro che questa situazione avrà una lunga evoluzione, sia a livello individuale che collettivo. Non sarà sufficiente iniziare una fase di riapertura delle attività per poter parlare di “ritorno alla normalità”, dato che la nostra “normalità” (che in realtà non è mai esistita) appare ormai frantumata, o almeno severamente compromessa.
Il fatto che il nostro equilibrio sia andato in crisi mostra il fatto che fosse disfunzionale, e quindi penso sia importante renderci conto che questa dolorosa emergenza ci offre anche una possibilità davvero preziosa - nel senso che la stiamo pagando a un prezzo davvero altissimo - di puntare ad un modello nuovo e più sostenibile invece di cercare di ricostruire un vecchio equilibrio che si è ormai spezzato. Si tratta di un momento molto delicato, che solleva appunto il problema della regressione: cerchiamo di ritornare alla normalità, ma la normalità non esiste, e il sogno di poter ritornare esattamente a quello che c’era prima non è utile in questo momento. Invece di rimpiangere il passato occorre adattarci, evolvere, e per far questo dobbiamo adottare una posizione progressiva, piuttosto che regressiva. Da questo punto di vista penso sia fondamentale, anche a un livello molto pratico, curare la nostra immaginazione con estrema attenzione: perché le nostre prossime scelte concrete vengano fatte al meglio è importante prenderci cura delle nostre proiezioni, che ci mettono in contatto con il mondo ma ci permettono anche di riappropriarci di qualcosa che avevamo perso e che ci appartiene.
In altri termini, anche se tutti sembrano concentrarsi soprattutto su come agire, io direi che in questo momento sia più importante che mai fare attenzione a come pensare, e questo significa dedicare tempo ed energia al proprio mondo interiore.
Grazia Di Giorgio è laureata in Scienza Politiche e Psicologia in Italia, ha un Master in Jazz Performance (Queens College, NY, USA) un Master in Psicologia Contemplativa (Naropa University, Boulder, CO, USA) e un Diploma come Analista Junghiana. È membro del C.G. Jung Institute of Colorado, del CIPA Meridionale, e dell’International Association for Analytical Psychology. È istruttrice di Meditazione e cintura nera in Aikido e Iaido.