Si chiama proditoriamente Effetto Carsico (Auand), il disco d'esordio di Mirko Cisilino, un nome che se fosse circolato nella boxe americana di qualche decennio fa, sarebbe stato certamente definito come the next great white hope. Ma più che semplice speranza, il poli-strumentista friulano che mantiene come primo strumento una tromba a cilindri di derivazione classica, è già una splendida realtà e non solo per le lodi sperticate che convergono su di lui da parte di musicisti autorevoli come Franco D'Andrea e Francesco Bearzatti. C'è arditezza nell'elaborazione della struttura dei 14 brani originali che compongono l'album: raramente superano i 4 minuti e la musica abbina fasi preparatorie e progressioni toniche, basate su temi dal riff malandrino le cui radici sono anche popolari. Ci sono collettivi vorticosi, dai quali si elevano i notevoli spunti solistici del quintetto completato da Filippo Orefice (sax tenore), Beppe Scardino (sax baritono), Marzio Tomada (basso elettrico) e Marco D'Orlando (batteria). “In un paio d'anni – ribadisce - ho lasciato che questi pezzi si coagulassero dentro di me per distillarne il significato. Con questo debutto ho cercato di trovare un equilibrio tra il dentro ed il fuori, tra complesso e semplice, in altre parole tra i miei opposti. Però anche dalle sensazioni arrivate dall'osservazione di ciò che mi circonda. Scrivo da quando avevo undici anni, ma un’accelerata in questa mia maturazione la devo a Francesco Bearzatti: mi ha sempre spronato a fare un disco da solista, da leader”.
Come hai proceduto per quanto riguarda repertorio e formazione? E che sensazioni ti hanno accompagnato quando lo hai riascoltato?
I brani di questo album sono un compendio delle ricerche sulla musica jazz e leggera iniziate quando ancora ero adolescente. Ho però cominciato da idee messe a punto negli ultimi anni. Forse più appunti sparsi: per l'esattezza tra una melodia ed un contrappunto (basso). Ma anche il Carso è stato una fonte di grande ispirazione, direi una pietra miliare: la storia e la sua particolare natura, hanno impresso un netto cambio di passo nella mia vita.
Tornando al disco, mi sono posto l'obiettivo di ricercare un equilibrio in forma di quintetto, un organico ristretto che ha le potenzialità di un'orchestra. Ho pensato al basso elettrico perché volevo uscire dal suono classico e Marzio Tomada (che all'epoca era anche il mio coinquilino), rappresenta per me un ideale. Alla batteria non poteva che esserci Marco D'Orlando, perché la fiducia nei suoi confronti come uomo e musicista è tra le più alte che possiedo nella mia vita. Da qualche anno lavoro già con Beppe Scardino in altri gruppi (C'mon Tigre e Calibro 35), e la miscellanea tra tromba e baritono mi sembrava il connubio per il suono che avevo in mente. Come primo impatto, ascoltare questa musica senza Filippo Orefice mi faceva sembrare il tutto troppo scarno ed acido; aggiunto lui si è illuminato tutto. Per cui quando ho riascoltato il disco le prime volte mi riempivo di gioia. Adesso più lo ascolto e più ci trovo cose da sistemare, modificare: ciononostante sono felice dell'esito arrivato da una seduta lampo, che si è concretizzata in un solo giorno.
Dedichi molto tempo e cura alla composizione o lasci prevalere l'istinto?
Per questo disco ho lavorato con Marzio e Marco mettendo insieme appunti o lavorando su vere e proprie canzoni. Poi, prima con Beppe e a seguire anche con Filippo, abbiamo trovato tutte le voci. Avendo avuto poco tempo di mio, tante parti di arrangiamento le ho scritte un po' all'ultimo, per cui in questa fase mi sono affidato maggiormente all'istinto. A più largo spettro considero l'armonia come uno specchio delle emozioni e dell'uomo.
Quando hai iniziato a suonare? È corretto definirti jazzista?
Più che un jazzista, in realtà mi sento un musicista consapevole di improvvisare. Ho cominciato a suonare la melodica all'asilo con le suore. Avevamo due orchestrine, gli spartiti con le note colorate. Poi alle medie ho incontrato il mio primo maestro, Fabrizio Fontanot, compositore e direttore di banda, con cui ho cominciato a suonare la tromba e a fare i miei primi arrangiamenti per la big band interna ad essa. Appena iniziato, il mio patrigno mi regalò un cd di Louis Armstrong e due di Glenn Miller. Ad oggi questi due colori della musica che riporta alle atmosfere degli anni '30 e '40 con tanto di orchestra, mi sono molto cari.
Grazie sempre a Filippo Orefice, negli anni delle superiori, ho scoperto gli anni '50 e '60 del jazz e subito dopo ho cominciato le mie ricerche. In realtà da quasi dieci anni ascolto poco jazz: questo disco è una mia protesta nei confronti di una deriva cervellotica della musica dalla quale voglio prendere le distanze. Nel senso che bisogna ritornare di più alla semplicità, alle melodie: è la mia componente romantica che me lo suggerisce. In questo senso Ornette Coleman è stato insuperabile per la sua duttilità nel passare dal complesso a melodie capaci di stenderti.
Quali sono stati i tuoi altri riferimenti?
C'è giusto l'imbarazzo della scelta: Eric Dolphy, Booker Little, Don Cherry, Sonny Rollins, John Coltrane, Kenny Wheeler, il jazz inglese a partire da Keith Tippett, Chris McGregor, Mike Westbrook, ma anche la classica di Stravinsky, Tchaikovsky, Bartok, Bach, il rock dei Queens of the Stone Age. Renato Rinaldi, che è un attore e compositore originario delle mie parti, infine, il canto degli uccelli e la comunicazione all'interno degli elementi naturali in genere, non solo quella tra esseri umani: peraltro spesso insufficiente.
Come si sta a fare il musicista, con una lieve predilezione per il jazz, oggi in Italia?
Per come mi stanno andando le cose, direi che suonare jazz in Italia va bene se lavori con certe persone. Ultimamente mi sembra di vedere sempre più investimento su band giovani e questo credo sia molto lungimirante. Grazie al trio di D'Andrea sto vedendo un sacco di posti bellissimi. Ma il primo tour in Italia l'ho fatto con i C'mon Tigre, di cui faccio parte ormai da 4/5 anni. Però in questa fattispecie il jazz è solo sfiorato perché si tratta di un suono molto più complesso. Con i Maistah Aphrica, invece, facciamo un po' più di difficoltà a muoverci perché siamo in nove (esattamente otto + il fonico) e anche con loro non facciamo prettamente jazz. Ho la fortuna di suonare in contesti molto diversi, anche di fuori del circuito prettamente jazz, come i Fainas, grunge/turborock.
Anche la tua periodica militanza con la Zerorchestra, ragguardevole ensemble prossimo a festeggiare il suo venticinquennale, sta portando dei buoni frutti...
L’ensemble, che è un orgoglio friulano, si propone di coniugare il linguaggio jazzistico contemporaneo con le immagini del cinema delle origini. Ho collaborato con la Zerorchestra la prima volta quando avevo 19 anni circa. C'era questa figura del contrabbassista, Romano Todesco, che si aggirava nei miei pressi e mi osservava. Quando ho scoperto che era stato lui a farmi chiamare, mi sono presentato senza indugio, scoprendo una persona profondissima e di una ricchezza interiore notevole. Da allora siamo amici. Ho poi fatto parte del progetto sulla Grande Guerra, le cui musiche erano curate da Bearzatti e Angelo Comisso, mentre due anni fa ho musicato in improvvisazione un film muto insieme a Gunther Buchwall, violinista pianista tedesco.
Prova a definire il tuo di suono e come ci stai lavorando su...
Negli ultimi due anni ho messo in discussione il modo in cui pensavo il mio suono e attualmente sto lavorando nel modellarlo, per poter così pian piano espandere i miei enormi limiti. È un po' come se tutto quello che mi sta dentro e intorno facesse il mio suono. Negli alti e bassi della quotidianità e della vita. Mi mette di fronte ai miei limiti e mi aiuta ad affrontarli. Per cui in questi mesi la percezione del mio suono è così come mi sento, particolarmente sensibile. Forse fragile.
Un disco a proprio nome penso sia una bella soddisfazione, qual è però il tuo prossimo desiderio e cosa ti aspetta nelle prossime settimane?
La mia ambizione è quella di stare sempre un po' meglio, ovvero di migliorare sempre le mie condizioni di vita. Meglio sto, meglio mi ascolto e quindi meglio sto con gli altri. Non penso ai concerti come un successo dopo l'altro, ma come un'esperienza umana che mi lascia dei significati. La vita mi sta dando un sacco di bellissime opportunità e incontri. Ho dei concerti con i C'mon Tigre, poi con il quintetto di Bostjan Simon e la Tower Jazz Composer Orchestra, fino ad arrivare a marzo a Bergamo, dove sono stato lusingato dall'invito formulato da Maria Pia De Vito, per partecipare alla 42a edizione di uno dei più importanti festival europei.