Il primo ricordo che ho del caffè, legato a un uomo, è lontano nel tempo; avevo, che so, tre o quattro anni, ricordo solo che arrivavo a stento al bordo del lavabo e ogni mattina era la stessa storia, o meglio, gli stessi odori: la schiuma da barba di mio papà, il suo dentifricio Iodosan, il fumo della sigaretta, il caffè, il biscotto Oro Saiwa, l’acqua di colonia 4711. Uno stesso rituale che si ripeteva ogni mattina e che osservavo attenta: si lavava il viso, spazzolava i denti forti e bianchi, si radeva con il rasoio pieghevole come nei film sulla Sicilia di mafia, si batteva il viso a piene mani con la colonia e ripeteva “Aaaahhh, aaaahhh, aaaahhhhhhh” per attenuare il bruciore, nel frattempo finiva la sigaretta e, infine, prendeva il caffè, in attesa di un’altra sigaretta. E io lo guardavo il mio papà, che mi sembrava un gigante, nonostante fosse alto solo un metro e sessantacinque, e sapevo che mi avrebbe permesso qualcosa di estremamente proibito, che la mamma non mi avrebbe mai lasciato fare: potevo intingere il biscotto nel suo caffè osservando il caffè risalirlo fino a bagnarlo quasi tutto e dovevo essere brava e veloce a tirarlo fuori dalla tazza prima che diventasse mollo e ci restasse dentro come pappetta. Riuscivo quasi sempre a estrarlo in tempo, veloce lo mettevo in bocca e lo assaporavo, il biscotto bagnato di caffè, benessere totale, per il caffè e soprattutto per il segreto prezioso fra me e mio papà.
Dopo furono anni di latte e Ovomaltina, latte e Nescafé, un po’ una bestemmia, ma questa è la vita. E quegli anni furono non solo senza caffè ma anche e soprattutto senza uomini. Qualche ragazzo qua e là, ma uomini, niente. Anzi, uno ci fu. Si chiamava Piero ed era il mio maestro di sci. Originario di Limone Piemonte, si era trasferito sull’Etna dove, a Linguaglossa, insieme ad altri due maestri piemontesi, aveva lanciato la scuola di sci. Non un maestro alto e bello come nell’immaginario collettivo, bensì un viso duro come fosse stato scolpito nella roccia, scuro di pelle, basso; ma credeva in me e mi faceva sentire importante, la sua allieva più promettente. Alla fine di una sciata particolarmente stancante in cui mi aveva insegnato il cristiania a monte rovesciato, un pomeriggio, e ricordo ancora il rumore degli scarponi sull’impiantito di legno, tornando allo chalet sede della scuola, si preparò un caffè come io non avevo visto mai: dopo aver messo i soliti cucchiaini di polvere di caffè ne aggiunse due di polvere di cacao. “Ne vuoi?”, mi chiese col suo accento di Topo Gigio. “Sì”, risposi esitante, come quasi mi avesse fatto un’offerta amorosa. E lo bevemmo, in due tazze bianche del bar, quelle col bordo e il manico spesso; il caffè era buonissimo, fluido, quasi pastoso, caldo del cacao, lo sentii scendere giù per la gola dandomi una sensazione di mollezza e onnipotenza. Tutto poteva succedere, tutto quello che a 17 anni si sogna: la conquista di ogni vetta.
Da lì al caffè dei giorni prima degli esami di maturità in un luglio bollente fine anni ’70 fu un balzo, ma quello era un caffè perlopiù solitario, se non per quelle interruzioni che mi prendevo con Giulio, il mio fidanzatino dell’epoca, un ragazzo pulito dagli occhi verdi che tradii malamente, ferendolo come solo da giovani si può fare. E lo tradii per Mike, un ibrido tedesco, olandese, americano e russo, figlio del signor Patzosoff, certo un uomo dei servizi, anche se non so di quali, perché altrimenti che ragione c’era, in quegli anni di guerra fredda, per fare la spola in continuazione fra Praga, gli Stati Uniti, la Germania Est e la Germania Ovest? E Mike, con cui amoreggiavo in francese, mi preparava un caffè assai simile a quello originale che a fine Ottocento il signor Kolschitzky preparava a Vienna con latte e miele. A differenza di questi però, nelle sere miti dell’inverno della California, Mike, col quale vivevamo nello stesso residence dell’Università, fra un corso e l’altro, prima o dopo l’amore, mi preparava il suo caffè ibrido: nel bollitore elettrico metteva del latte e quando era tiepido lo versava nelle tazzone americane aggiungendo qualche cucchiaino di caffè istantaneo Swiss Mocha Mint che sapeva di menta e cacao zuccherato. La General Foods produceva i suoi International Coffees in vari gusti così, come grandi artisti, attraversammo varie fasi che andarono di pari passo con la nostra relazione. All’inizio, fu tutto un Swiss Mocha Mint nel latte, eccitante come il cacao e la menta, oltre che il caffè, e dolce come il latte; poi, Vienna Mocha, al leggero aroma di cannella, pomeriggi passati a fare l’amore invece che in classe; Cafè Amaretto, il sesso era sovrano, la mandorla del caffè, della forma dei miei occhi e del simbolo arabo della femminilità; Dark Mayan Chocolate, il nostro amore e la nostra passione erano nel pieno, non esisteva altro; Cafè Français, e iniziammo a crescere, dopo tanti mesi, in direzioni diverse, a lui venne voglia di tornare sul lago di Costanza e ritrovare Yasmine, io invece ero incredibilmente attratta da Mike Takahashi, bellissimo figlio di un’attrice cinese e di un manager giapponese, esperto di teatro kabuki, calligrafo e pittore di uccelli e bambù in inchiostro di china. E fra i suoi pennelli, la pietra di Duanxi per l’inchiostro e le maschere del teatro, mi allontanò dal caffè per inebriarmi col tè e le sue citazioni cinesi. “Il principe dei calligrafi - mi disse un giorno – il generale Wang Xizhi, diceva che la carta è il campo di battaglia, il pennello la spada, l'inchiostro la cotta di maglia, il calamaio il lago che circonda la piazzaforte, l'intuizione è il generale e il talento il suo capo di stato maggiore” e io lo ascoltai rapita. Ma fu una passione breve e amara, e il suo tè nero non mi seguì.
In una lunga serie di “M”, i due Mike furono seguiti da Marco, tipico siculo non alto, peloso, con barba e baffi neri, un lupo, io una pecorella al suo confronto. Con lui il caffè veniva in granite con panna accompagnate da brioche ricoperte da granella di zucchero. Metodico, ogni mattina, al bar sotto casa, anche davanti ai miei occhi ansiosi, si intratteneva in amabili conversazioni con la proprietaria. Io guardavo la sua granita squagliarsi mentre lui chiacchierava senza pudore, coi suoi occhi marroni che scrutavano lei mentre a me non restava altro da fare che mangiare la granita e la brioche. Che sapore amaro! Marco non durò molto e lo lasciai, di punto in bianco, senza spiegazioni, per consolarmi tra le braccia di Francesco, parzialmente teutonico, amante della pesca subacquea. Con lui il caffè veniva preparato all’alba, prima di mettere il gommone sul portapacchi della Fiat 127 e il motore Johnson nel portabagagli vicino alla tanica arancione della benzina. I polpi agganciati e le murene finite a pugnalate sul gommone venivano messe in borse termiche, noi mangiavamo panini accompagnati da acqua fresca e caffè tiepido in torride giornate sul Canale di Sicilia che scintillava senza requie.
Dopo Francesco ci fu Matteo che mi invitava a casa sua alle tre del pomeriggio per prendere il caffè nel salotto borghese col divano a fiori e il lampadario di cristallo di rocca. Lo serviva in una caffettiera d’argento posta su un centrino ricamato posizionato esattamente a un terzo dal bordo di un vassoio d’argento, a lato la zuccheriera con i cubetti di zucchero e la pinza lucida, le tazzine color beige col bordo in oro zecchino, i tovagliolini ricamati con le cifre di sua nonna negli angoli. Mi sembrava una perfetta signorina d’altri tempi abituata ad andare in visita e a ricevere: cerimonioso, cortese, educato. Troppo educato. Ci versava il caffè e si sedeva su una poltrona mentre io sedevo ad angolo con lui sul divano e chiacchierava, del suo lavoro, del mare, di conoscenti, di un nostro eventuale matrimonio. Io lo guardavo esterefatta: che mi racconti? Abbracciami, baciami, respirami. Niente. E per giunta le labbra sul dorato del bordo delle tazze mi dava fastidio. Non era un genere di caffè che potevo bere a lungo.
A Matteo successe Daniele, non un fidanzato, neanche un amico, diciamo un sostituto di tutto col quale era piacevole chiacchierare per interrompere la solitudine sentimentale. Certe volte è proprio la presenza di un uomo che manca e nella mia famiglia fatta di due persone, io e mia madre, era indispensabile interrompere la tensione di due donne. Così lo invitavo, per il caffè, un break poco impegnativo, consumato in cucina, due tazzine allegre a pois azzurri sul tavolo di marmo, il suo sguardo invitante e il mio assolutamente normale, da socievole amica. Piacevole. Solo piacevole. Ma importante, lui non aveva idea quanto. Perché in quei minuti riuscivo a dimenticare la presenza ingombrante di mia madre, non sentivo il suo fiato sul collo a ripetermi “Studia! Studia! Studia!”. E fu allora che presi l’abitudine di far durare il caffè per un tempo interminabile. Altro che i caffè-pillola che vedo consumare al bar. Il mio caffè durava almeno mezz’ora. E oltre alla durata, il mio caffè iniziò a essere caratterizzato da una filosofia del gusto che scaturì da una banale domanda: “Non metti lo zucchero?” chiese Daniele. Sorrisi: “No… Metti lo zucchero nel caffè e diventa una melassa, perde il suo aroma, il suo profumo, la sua scorrevolezza intorno all’ugola e poi giù nella gola, fino al cuore.” Lo guardavo morbida, in quel pomeriggio di fine giugno in cucina, dietro le persiane da cui filtrava una luce calda a strisce che cercavamo di evitare spostandoci fino a sfiorarci, così, solo per evitare il fascio di luce negli occhi. “Ma è troppo amaro così il caffè”, replicò. “No…guarda. Prova a fare come me. Prendi un biscotto zuccherato e lo mangi attento a stimolare ogni più piccola papilla, tutti i lati della lingua, l’interno delle gote, il palato; sii sicuro di avere zucchero e briciole e granelli dappertutto, ti verrà una sete incredibile e invece dell’acqua berrai il caffè, a sorsi piccoli prima in modo, poi, da svegliare di colpo le tue papille, provocar loro il sussulto dell’amaro, agognato a quel punto e allora, solo allora, gusterai il caffè nella sua pienezza. Prova…dai…”. E lo guardavo mentre lui, incredulo, non capiva se avevo parlato di caffè o di sesso. Io avevo parlato di caffè, anche se, io almeno, non so poi distinguere tanto i due.
No, non bacio le tazzine, anche se le labbra sono sensibili al materiale e non riuscirei mai, a meno che non dovessi trovarmi in situazioni estreme, a bere il caffè da una tazzina di plastica o di metallo e neanche di arcopal. È che io non so scindere il sesso dalla vita. Alcuni nascono pessimisti e vedono il male ovunque, io sono nata così, appassionata, molle come una notte d’Arabia che odora di gelsomino, e vedo il sesso, il piacere, ovunque. E cosa c’è di più sensuale del cibo o di una bevanda? Anche questi penetrano, inondano.
Poi incontrai Raffaele che mi seguì in questa storia del caffè senza zucchero e iniziammo a sperimentare con vari tipi di biscotto per vedere quello che esaltava di più il gusto del caffè: buono il savoiardo zuccheroso ma è troppo grande e si imbeve troppo presto, croccanti anche se un po’ salati i Krumiri, meglio le lingue di gatto, sottili e dolci quanto basta. Provammo anche dolci, paste di mandorle, croissant farciti di marmellata, iris alla crema o alla cioccolata; grazie al cielo non presi neanche un etto e invece ci sposammo. Con lui i ricordi di caffè sono tanti, alcuni legati a momenti importanti della nostra storia: dal primo preso da sposati, un mattino d’aprile del giorno dopo le nozze, su una terrazza fiorita di azalee che dava sulla scalinata di Piazza di Spagna. Sotto un sole caldo, abbiamo fatto colazione con caffè e croissant, Roma ai nostri piedi, la certezza di conqistare il futuro nel cuore. A questo caffè, del quale conservo ogni sensazione, ne seguì un altro godurioso che fece impazzire i nostri compagni durante il viaggio di nozze in Egitto. Eravamo in un battello sul Nilo, tratto tipico, Luxor-Assuan, dieta di carote, piselli e cammello – ecco perché avevamo ricevuto un prezzo speciale – del caffè neanche l’ombra e tutti gli italiani in crisi di astinenza. Ma noi, previdenti, grazie al consiglio di una suocera amorevole nei confronti del figlio, avevamo il caffè della torrefazione artigianale, due tazzine con piattino, e la caffettiera elettrica. Ogni mattina, dalle fessure della nostra porta, usciva un aroma del quale tutti ci chiedevano la spiegazione: “Non abbiamo idea. Profumo di caffè? No, non sentiamo nulla” e l’unico a ricevere di tanto in tanto il nostro caffè era un compagno di viaggio più grande, un allenatore di basket famoso, col quale si era instaurato un rapporto genitore-figli.
Da lì al piacere del caffè a letto ogni mattina durante la nostra permanenza a Torino il passo fu breve. Infatti, dopo il viaggio di nozze ci trasferimmo al Residence Expo di Torino, a un passo dal Po, sulla famigerata via Ormea, nota per le prostitute delle quali però, nella nostra zona, cioè vicino a corso Bramante, non c’era neanche l’ombra. Di fronte al Residence, c’era invece un baretto gestito da due giovani sorelle, bastava telefonare perché una delle due, zelante come solo i piemontesi vecchio stampo sanno essere, portava in camera per poche lire croissant leggeri e fragranti e caffè forti al punto giusto. Poi nell’alcova del nostro appartamento, sotto le coperte, guardando gli scrosci di pioggia, ci perdevamo fra briciole e aromi dopo i quali era l’unica volta che si rifiutava un bacio: il piacere del sapore del caffè mischiato al burro del croissant era un orgasmo per le papille gustative e si voleva durasse il più a lungo possibile. Rientrati in Sicilia, e per lunghissimi anni, il rito del caffè con Raffaele fu sempre lo stesso: ogni mattina, estate e inverno, lui, ansioso per natura, si svegliava sempre prima di me e, avendo cura di non far rumore, andava in cucina e preparava il caffè nella moka, sempre con la stessa miscela artigianale che avevamo portato con noi in viaggio di nozze – lui era un tipo abitudinario. Prendeva un vassoio e mi portava a letto sempre la stessa certezza: un bicchiere d’acqua naturale a temperatura ambiente, il caffè nella tazzina del servizio giornaliero di turno (abbiamo iniziato con uno su cui era il disegno di un albero di limone con frutti e abbiamo finito con quello di una mongolfiera), e un biscotto secco spezzato in due in modo che non dovessi fare alcuno sforzo per intingerlo nel caffè e potessi svolgere questo rituale mezza sdraiata, a occhi semiaperti, con il vassoio poggiato sul petto. E come sempre, sin dall’inizio del mio bere il caffè, questo era rigorosamente senza zucchero ma non amaro, perché è amaro solo il caffè bruciato, quello di cattiva qualità, quello preparato da baristi improvvisati o da chi non ha idea di cosa sia l’edonismo, il piacere di alternare il colpo di frusta e la carezza, ma quella è un’altra storia.
Della mia filosofia del piacere del caffè senza zucchero - non amaro, ribadisco, ma senza zucchero, perché il caffè buono non è mai amaro - preceduto da un biscotto, ne parlai al proprietario del bar sotto casa, l’unico al mondo senza giorno di riposo, aperto dall’alba a notte fonda, forse per essere certo di non dover mai restare a casa. Lui mi ascoltò credo per educazione senza apparentemente prendermi sul serio quando gli dissi che avrebbe fatto bene a tenere sul banco un piattino con delle pastine da dessert per esaltare il gusto del suo caffè: “Lei dà agli avventori la possibilità di scegliere la miscela, dovrebbe dare pure l’opportunità di gustarle in vario modo. Provi, accanto a dolcificante, zucchero raffinato e zucchero di canna, ad aggiungere le pastine secche”. “Sì, Signora, vedremo”, mi rispose. Ma dopo pochi giorni trovai quel che avevo suggerito: biscottini secchi semplici e ricoperti di cioccolata e anche la panna montata. “Lo sa che aveva ragione?”, mi disse. “Ai clienti ci piace questa storia del biscotto, soprattutto alle donne, forse perché sono sempre a dieta e un biscotto soddisfa la voglia di dolce con poche calorie”, mi rispose in siciliano. Sì, talvolta un biscotto basta, a estinguere quel languore che assale nei momenti più impensati e che si deve soddisfare, subito, immediatamente, perché altrimenti ci si sente male. E il caffè, per dare quella sferzata, al centro del cuore e dello stomaco, per ricordarsi che si è vivi, anche in quei momenti in cui a ricordarci questo è solo un flebile polso. E io iniziai a prendere sempre più caffè, con Raffaele, perché mi sentivo morta dentro, perché mi sentivo priva di anelito vitale. Depressione? No, no, molto peggio. Era il non volermi rendere conto di essermi poco a poco calata in una realtà che non era la mia, che non mi apparteneva. Inconsapevole. E il caffè col biscotto ogni mattina non mi rendeva più dolce il risveglio, era la gabbia di un’abitudine apparentemente dorata, la mia gabbia.
Fuggire, uscire. Ma come? Fu così che per caso, mentre ero in aeroporto, incontrai due occhi azzurri che mi sbucarono l’anima. Lo sguardo del diavolo. Non abbassai il mio sguardo e lo cercai nella fila al check in. Eravamo sullo stesso volo per Tel Aviv. Poche file di distanza e riuscivo a vederlo sempre perché era in diagonale rispetto a me. “Un caffè, grazie”, dissi alla hostess. E quella broda, accompagnata da biscottini al cocco, mi bruciò la lingua col suo sapore aspro. Percepii l’amaro scendermi in gola e non so come pensai che quel sapore fosse collegato agli occhi di quello sconosciuto. Scendemmo dal volo e senza lasciarmi respirare, quegli occhi mi presero e mi fecero entrare con loro nel taxi, ero inebetita, come un coniglio davanti a un serpente, ferma in attesa di essere inghiottita. E questo avvenne, mi mangiò, senza pietà, lasciandomi con l’amaro in bocca di un caffè di pessima miscela che viene dimenticato troppo a lungo sul fuoco. Provoca una nausea che dura giorni, il disgusto, il rifiuto. E vomitai. Vomitai l’anima, gli anni, i mocassini coi tacchi bassi, il filo di perle, le gonne al ginocchio, i capelli senza forma, i chili in più. Tutto mi uscì, sconquassandomi il petto, facendomi sussultare senza requie, temendo che ancora un conato e sarei morta.
Poi finì. Ed ebbi pace. Risorsi. E risorgendo mi tornò il gusto per la vita e così accettai altri caffè, tanti altri. Chiunque mi fermasse per strada poteva godere della mia conversazione davanti a una tazza di caffè. Ascoltai confessioni, amori respinti, insoddisfazioni. Io, il mio caffè e il mio biscotto ascoltavamo storie dipanarsi in mille bar di mille città; mille e mille cuori si aprirono e raccontarono ciascuno i propri affanni. Come fiumi in piena, parlavano. E a tutti, dalla calma del mio animo, ripetevo la stessa cosa: ieri è passato, non esiste; domani deve ancora venire, non esiste neanche quello; esiste solo oggi, adesso, quindi prendi il tuo biscotto, intigilo nel caffè, guarda il liquido penetrarlo ammorbidendolo fino a quasi farlo sciogliere, poi portalo alla bocca e percepiscine ogni dolcezza, ogni amertume, ogni granello, ogni tocco di cioccolata, di uvetta, di cocco, passalo su ogni papilla della tua lingua e godine; poi, con venerazione, prendi la tua tazza di caffè e lascia che il profumo ti penetri il naso arrivandoti al cervello iniziando così a goderne ancor prima che varchi le tue labbra, poi, proprio con quelle, sentine il primo calore, schiudile e lascia che tocchi la tua lingua, lascia che svegli ricordi primordiali, socchiudi gli occhi e ricorda il tuo nome, ricorda chi sei. È solo una questione di attimi. Come la vita.