Potrebbe trattarsi di una svolta il recente esperimento messo a punto dalla NeuroEM Therapeutics in Arizona nel trattamento dell’Alzheimer, la più comune forma di demenza. Il team di questa società che sviluppa dispositivi elettromagnetici transcranici ha pubblicato i risultati sul Journal of Alzheimer's Disease, evidenziando i promettenti risultati di uno studio che ha coinvolto otto persone affette da forme lievi o moderate di questo disturbo degenerativo.
I pazienti hanno indossato due volte al giorno per un'ora una calotta cranica di magneti che hanno inviato impulsi elettrici per abbattere gli accumuli di proteine tossiche, note per il loro effetto di impedimento alla corretta funzione delle cellule nervose. Dopo due mesi sette pazienti su otto hanno mostrato un miglioramento di almeno quattro punti sulla scala ADAS-cog 0-70 (scala che misura la gravità dell’Alzheimer) e, considerando che solitamente avviene un peggioramento pari a quattro punti l’anno, la malattia è sembrata regredita allo stato dell’anno precedente.
Si è trattato di un miglioramento molto significativo nei test di memoria, linguaggio, attenzione, comportamento e stati d'animo. I ricercatori sperano che i risultati ottenuti possano essere l'inizio di una svolta nella ricerca che, nel suo iter, ha affrontato enormi blocchi nella scoperta di una cura efficace per una patologia che ha colpito circa i due terzi dei 50 milioni di pazienti affetti da demenza in tutto il mondo. I tentativi di affrontare questa malattia che distrugge il cervello si sono rivelati troppo spesso fallimentari. Il test in oggetto, sebbene ci sia ancora scetticismo per il ristretto numero di persone che si sono sottoposte al trattamento, è stato prolungato per 17 mesi perché i pazienti, traendone giovamento, non volevano restituire il dispositivo utilizzato.
Le cellule cerebrali precedentemente bloccate, in teoria, sarebbero state in grado di tornare al normale funzionamento, ma il team di NeuroEM non può ancora stabilire fino a che punto si possa essere in grado di invertire o prevenire il declino causato dall'Alzheimer e non può essere neppure escluso che i benefici riportati fossero dovuti a un effetto placebo. Sebbene non si siano verificati effetti collaterali dannosi, l’esperimento – sostiene il team – avrebbe bisogno di essere esteso a un gruppo molto più ampio di pazienti e per un periodo più lungo.
I farmaci, dunque, sembrano non essere più l’unica strada che i ricercatori stanno esplorando per migliorare la vita delle persone con forme di demenza come l’Alzheimer che colpisce almeno una persona su sei di età superiore agli 80 anni e una su 14 di età superiore ai 65 anni. Tra il 1998 e il 2017, secondo quanto riportato da BioSpace, i tentativi di sviluppare farmaci per l'Alzheimer sono stati ben 146, ma si sono rivelati tutti fallimentari. Gli esperti sostengono che una delle difficoltà nel testare i farmaci riguarderebbe proprio l’individuazione di pazienti adatti: l'Alzheimer viene infatti raramente diagnosticato prima che si manifesti e, a quel punto, è spesso troppo tardi o lo studio sui pazienti diventa eccessivamente complicato.
Per quanto riguarda i farmaci che cercano di modificare il decorso della malattia, gli studi spesso devono essere più lunghi e più approfonditi, ma nel contempo si fanno anche più difficili e costosi. Attualmente i trattamenti disponibili per l'Alzheimer sono pochi e possono alleviare alcuni sintomi solo per un periodo di tempo limitato.
Di recente, secondo una ricerca pubblicata sulla rivista Scientific Reports, un composto naturale avrebbe mostrato risultati promettenti durante un esperimento sui topi: iniettando quotidianamente una sostanza chiamata AC253 (stringhe di aminoacidi) per cinque settimane, i ricercatori dell'Università di Alberta hanno riscontrato un significativo miglioramento della memoria. L’AC253 sarebbe infatti riuscito a bloccare l'accumulo di beta-amiloide, mantenendo le cellule nervose del cervello libere da grumi tossici. Il composto, tuttavia, per essere efficace deve essere somministrato in grandi quantità e ciò potrebbe causare reazioni nel sistema immunitario. Il gruppo di studiosi coordinati dal professor Jack Jhamandas sembra comunque ottimista e auspica l’apertura di nuove frontiere per la cura dell’Alzheimer.