La fotografia porta la data del 1929: mia mamma ha dieci anni e sta seduta con mirabile serietà sopra uno sgabello intarsiato, un oggetto che non poteva mancare in ogni stimato studio per i ritratti in posa. Indossa un elegante abito di velluto di seta ornato da una balza di taffetà come il bel nastro che porta adagiato sui capelli ondulati, neri e lucenti. Ai piedi le corte calze bianche con il pizzo e le scarpine di vernice “alla bebè”.
Lo sguardo è malinconico o forse soltanto annoiato per il lungo tempo di preparativi prima dello scatto. Guarda lontano con l’espressione quasi severa di chi conosce “il proprio dovere” e accetta il compito che le assegna la vita. Forse se ne sta chiedendo il senso identificandola con questa noiosa cerimonia, ma sa che essere lì è un onore di cui essere fiera e allora alza bene le spalle come le è stato raccomandato e attende immobile il colpo di luce che la immortalerà: sarà per sempre una piccola donna.
Nella notte che suggella il passaggio al mese di novembre e che oggi segna il trionfo di una consumistica e macabra festa, gli antichi si preparavano ad accogliere le anime di coloro che ci hanno preceduto nel cammino e che hanno l’opportunità di tornare a rendersi visibili con il proprio corpo così da poter rinsaldare quella corrispondenza d’amorosi sensi che attraversa infiniti universi nella certezza dell’incontro.
Ogni anno, per onorare questa tradizione scelgo dagli album e dalla scatola rivestita di carta lucida alcune fotografie che funzionano un po’ come un richiamo, un invito ad incontrarci ancora una volta per guardare insieme i teneri reperti di un mondo che sorride delle nostre paure e ci racconta bellissime fiabe di un tempo senza storia, il tempo che l’eternità concede perché i nostri cuori possano comprendere, perché le nostre anime sappiano trovare la via.
È un veicolo prezioso quello della fotografia che, attraverso il tempo lento e dilatato dell’immagine ferma, si fa evocatrice di memorie depositate nel profondo e riporta alla luce come attraverso uno specchio la condivisione di emozioni affondate nelle nostre radici, di ricordi e visioni intrecciati indissolubilmente con il sapere del nostro cuore.
Stampato su raffinata carta semilucida con i bordi frastagliati che risuonano lievemente al tatto ecco il ritratto di mia nonna materna: un viso antico soffuso di malinconia. Gli occhi scuri perduti nell’infinito ad accarezzare un sogno. Una giovane ragazza che attende i doni che la vita promette ma che non le lascerà assaporare. Il mezzobusto lascia vedere il bell’abito di raso che dà risalto al collo affusolato, all’incarnato di porcellana. Mi torna al cuore il suo profumo di torta di rose, rivedo quel suo pallore di madreperla, sento la sua pelle sottile e levigata al tocco delle mie carezze. Indossa una catenina con appeso un piccolo medaglione d’argento che custodisce il ritratto del suo innamorato: più tardi lascerà il posto a quello dei suoi bambini “volati in cielo” come lei diceva. I capelli scuri sono raccolti come in un ritratto boldiniano.
Il marchio dello studio di posa è in rilievo e, toccando la fotografia, si percepisce il volume delle lettere: è un intreccio di sensazioni tra le quali non manca l’olfatto che si appaga dell’odore delle carte e dello sbiadito profumo di lavanda rimasto nel cassetto.
Mia nonna si chiamava Santuzza, anzi Santuzza Lola e veniva da una famiglia di donne dai nomi altisonanti: Teodolinda, Rosmunda, Nicea, Euterpe, Elodia, ma nel suo caso era stata la passione di suo padre per l’opera lirica a legare il suo destino al romantico e tragico personaggio della donna sedotta da compare Turiddu in “Cavalleria rusticana”. Il bisnonno Silvano che, a quanto si diceva, amava Mascagni ma era anche sensibile alle belle voci e soprattutto alle belle cantanti, aveva voluto esagerare: per non far torto né alla soprano né alla mezzosoprano aveva dato alla figlia il nome di entrambe le protagoniste.
Ecco la zia Camilla bambina. Sta appoggiata alla balaustra di legno, un altro immancabile elemento nel corredo del fotografo “in posa”. Sgrana i suoi grandi occhi fermi in un’attesa senza domande. Non sorride. I capelli tagliati con la frangetta ne incorniciano il volto lievemente appoggiato sulla sua manina affusolata.
Provo un’immensa tenerezza guardandola. Difficile ritrovare in questa immagine la donna che ho conosciuto, ma dolcissimo ripensarmi bambina insieme a lei, scambiare confidenze e sogni, tornare insieme nell’età dell’innocenza e scrivere un’altra storia, diversa da quella di una donna sola che vedeva in me il riscatto dalla sua condizione di non sposa e dunque, inesorabilmente, di zitella.
Le piaceva lo zucchero filato e non perdeva occasione per portarmi alla fiera in onore di qualche santo e rendermi complice del suo peccato di gola. Sento quel sapore dolce, quella consistenza strana come ovattata, rivedo quella nuvola rosa e mi immergo in una sensazione di infinita piacevolezza, me ne lascio avvolgere come da un abbraccio e sono grata per questo miracolo della memoria.
Quello che non manca mai nel mio rito di rinascita è la serie di piccoli ritratti delle mie antenate che, a turno, mi tengono tra le braccia infilata in un raffinatissimo porte- enfant di organza. Sono nata da poco e porto una cuffietta di lana perché l’inverno è molto freddo. Nel matriarcale consesso è stata data l’opportunità anche al nonno Enrico di mostrarmi con orgoglio, ma, pur nella piccola dimensione della foto, si vede una mano femminile che lo aiuta a sostenermi per non correre rischi. Mi hanno accolta come un dono inaspettato, forse ormai anche insperato, arrivato dopo una lunga attesa.
C’è tanta dolcezza, un sentore di pura felicità. È stato molto faticoso venire al mondo e ho anche tentato di sfuggire a questo oneroso compito, ma, alla fine, con la forza indomabile della volontà che accompagnerà la mia vita, ho accettato di nascere per la gioia di tutta la mia “tribù” ed è sempre forte la commozione nel ritrovare “le mie donne” come mi piace chiamarle per poter dire loro l’immenso bene che ci siamo donate, per parlare con loro e talora comprendere con altra indulgenza gli accadimenti del passato e rendere così più lieve il presente che ci appartiene.
È un momento di forte sacralità. Per loro accendo incensi e, qualche volta, come si usava allora, un lumino: la continuità della luce.
Riguardare queste fotografie è mettere ordine nelle stanze del cuore per accogliere e ritrovare sentimenti ed emozioni ripuliti e lucidati da ogni intromissione di realtà, lavati dai contorti pensieri della mente che sempre cerca ragioni, spiegazioni, chiarimenti. È un gesto di cura, come riordinare la casa per accogliere gli ospiti.
Ed è così che si faceva alla vigilia dei Santi in attesa dell’arrivo dei parenti per andare a far visita alle tombe della Certosa e ad onorare i propri morti con il dono dei crisantemi, “fiorenti d’oro” secondo l’etimologia del loro nome italiano e simbolo di immortalità nella tradizione giapponese che ne fa insegna della famiglia imperiale su abiti, porcellane e gioielli.
Era una ricorrenza particolare poiché il rimpianto, la tristezza per chi non c’era più si intrecciavano con la festa e c’erano i bambini da tenere allegri: per loro quelli erano giorni di vacanza dalla scuola e non dovevano essere caricati di cose più grandi di loro.
Il cibo assumeva un ruolo consolatorio: le donne di famiglia si adoperavano per preparare qualche speciale leccornia che servisse a tener lontane le ombre della vita. A metà pomeriggio si mangiavano “le favette dei morti” che erano state preparate con alcuni giorni d’anticipo affinché l’impasto a base di mandorle si facesse più morbido.
In una busta un po’ strappata arrivata per posta c’è la foto della zia Nettì, con l’accento alla francese anche se il suo nome era Antonietta. Il vezzoso diminutivo le era stato dato dal marito, piemontese di antica tradizione, amante dunque dei francesismi che facevano ricordare tempi di grandezza e di signore eleganti. Sta seduta accanto al tavolino di foggia arabeggiante che ancora fa mostra di sé dopo un secolo nel mio salotto. Porta rappresentato un albero della vita sul quale la zia che leggeva i tarocchi italiani distendeva e faceva muovere le carte in un misterioso gioco che osservavo rapita in quell’assoluto silenzio che mi veniva precedentemente fatto giurare come condizione per poter assistere alla magia. Il mio sguardo era attratto dalle sue unghie laccate: lei era l’unica donna della famiglia capace di permettersi una tale trasgressione e io la ammiravo immensamente.
Ritrovo la foto che mi rappresenta bambina con l’albero di Natale. Indosso un abito di panno Lenci, come allora si chiamava quel tipo di feltro che, oltre ad essere usato per gli abiti, era materia prima e originale per la creazione delle omonime bambole, le Lenci appunto, che erano il sogno di ogni bambina, ma anche di molti adulti divenuti collezionisti di queste vere e proprie opere d’arte apprezzate in tutta Europa che assumevano il volto di personaggi famosi come Rodolfo Valentino o Marlene Dietrich.
Rimasta nella vetrina del fotografo per molti anni, capitava che mia nonna passando mi indicasse a chi era con lei dicendo: “questa è mia nipote” incurante della perplessità dell’interlocutore che di recente mi aveva vista già studentessa del ginnasio.
Il fotografo “volante” che stava sul sagrato del Duomo ha ritratto i miei genitori. Stanno passeggiando, e sono bellissimi. Si sorridono, sorridono alla speranza. È da poco finita la guerra, sono innamorati e con amore guardano il mondo. Non sfuggo al desiderio di immaginarmi già nata mentre mi tengono per mano e mi comunicano la loro gioia di vivere, la certezza del loro bene.
Anche mio padre è bambino nella foto che lo ritrae in abito da marinaretto, sul volto l’espressione, seria e dolce ad un tempo, che so riconoscere. La nonna Enrichetta gli sta accanto orgogliosa. La guerra le ha portato via il sogno di una vita condivisa con il suo giovane marito. Forse il suo pensiero va a quel giorno nel quale aveva incontrato il nonno che, nella sua luminosa uniforme, dirigeva la banda del paese.
Per l’intero mese di novembre lascerò le loro immagini libere di vagare, curiosare, intrecciare altre storie, e so che continueranno ad arrivarmi suoni e profumi altrimenti inudibili e impercettibili fino a quando le loro vite torneranno ad adagiarsi in silenzio nelle scatole della memoria lasciando anche me in quel vagabondare tra festa e tristezza che ha a che fare con il divenire del tutto, con la precarietà del nostro essere creature dal molteplice accadere.
In questa ricerca del tempo perduto mi torna in mente la sera in cui Odette, scesa dalla carrozza di Swann, “colse precipitosamente nel giardinetto che precedeva la casa un ultimo crisantemo e glielo diede prima che ripartisse” e così faccio io: dono loro un fiore immortale prima di salutarle.
A cura di Save the Words ®