Apro lo sportello del forno e un’ondata di aromi mi pervade. Cannella, chiodi di garofano, pepe, noce moscata. Devo chiudere gli occhi per assaporare prima di tutto col cervello. I miei sensori si sono allertati, sono stati sedotti, hanno perso ogni resistenza. Apro gli occhi e guardo il parmigiano leggermente imbrunito che sfrigola ancora sulla bechamel che si è combinata col ragù. Mi fermo, affascinata, dinanzi a quella che teoricamente è una semplice teglia con sfoglie sottili di pasta alternate a strati di ragù di carne alla bolognese, bechamel e parmigiano grattuggiato. Per me è invece un libro di storia e di avventure, un romanzo che narra di secoli e popoli, corti e poeti, tradizioni e luoghi. Il mio pensiero va a Orazio, il poeta romano del I secolo a.C. che scrisse della “lagana”, una sfoglia sottile fritta e infornata, molto diversa da quanto è sotto i miei occhi, eppure sua antenata.
Tiro fuori la teglia dal forno con delicatezza per non guastare l’architettura dei condimenti, affinché ogni strato mantenga la sua individualità e non diventi un pasticcio come quello che descrisse Apicio, il ricco mercante romano autore del De Re Coquinaria che visse a Roma nel I secolo d.C. e scrisse del piatto preferito di Cicerone, le “lagana” il cui nome derivava dal latino “laganum” e dal Greco “laganon”, un impasto di acqua e farina di grano duro, tirato e tagliato a strisce. Queste strisce di pasta venivano poi condite con un ripieno di carne e poi cucinate direttamente sul fuoco o infornate ottenendo qualcosa di più simile a un pasticcio di pasta e carne che alle lasagne come le conosciamo oggi.
Mentre il pensiero va agli antichi Romani, gli ingredienti nella teglia si sono quietati e sono lì che vorrei prenderne una porzione ma la bellezza e il profumo che continua ad emanare mi hanno rapita e rimango a guardare persa nei miei pensieri. Ricordo quell’Isidoro di Siviglia, Santo e teologo, autore di Etymologiae, che verso il VI-VII secolo scrisse della “laganum”, una sottile striscia di pasta prima cotta in acqua e poi fritta nell’olio, immagino quest’altra antenata della lasagna consumata in Andalusia, a quell’epoca conquistata dai visigoti dalle chiome fluenti ma dai costumi arretrati.
Devo attendere una mezz’ora prima di affondare la paletta nelle lasagne e ricavarne una porzione; questo è un piatto corposo, fatto di almeno 4 o 5 strati di pasta, una costruzione attenta che se fosse suddivisa in porzioni quando è ancora calda si sfalderebbe miseramente. Quella mezz’ora mi lascia il tempo per continuare a ripercorrerne la storia e i poeti che le cantarono nel Medio Evo. “Granel di pepe vince per virtù la lasagna” cantava Jacopone da Todi, e Cecco Angiolieri, quello del “s’io fossi foco arderei lo mondo”, nello stesso stato d’animo scrisse “Chi de l’altrui farina fa lasagne, il su’ castello non ha né muso né fosso”. Più divertente fra’ Salimbene da Parma, monaco della famiglia borghese degli Adam, appassionato dei piaceri e delle bellezze della vita ma anche giudice severo di uomini e istituti della chiesa, che nelle sue croniche, descrivendo un altro corpulento monaco, scrisse: “Non vidi mai nessuno che come lui si abbuffasse tanto volentieri di lasagne con formaggio”. Correva l’anno 1284 e a me basta questa testimonianza per rinnegare le affermazioni di certi inglesi che sostengono, solo perché hanno un ricettario che parla di “loseyns”, create da un gruppo di cuochi per re Riccardo II, di avere la paternità delle lasagne. Anche perché, a parte l’epoca romana, sul famoso ricettario dell’Anonimo Meridionale del 1238-39 si può leggere la ricetta “Affare lasagne”e sul Liber de Coquina, un ricettario napoletano della corte Angioina della prima decade del ‘300, il “De lasanis”: “Se vuoi fare la torta di lasagne, prendi uova fritte o lesse o sciolte e ravioli tagliati o interi, formaggio grasso grattato o tagliato a pezzi, lardo a sufficienza e metti insieme, ciò facendo uno strato, aggiungendo spezie, e su queste cose forma un serpente di pasta che combatte con una colomba o qualunque altro animale vorrai; indi intestini riempiti di buon ripieno e si componga in giro una specie di muro, poi si coloriscano gli strati a volontà e si ponga nel forno; infine si porti alla presenza del signore in gran pompa”.
Il serpente e la colomba stuzzicano l’immaginario. Le lasagne sono un piatto di grande sensualità, proprio per questo susseguirsi di strati, di sapori e aromi contrastanti, di dolce e salato. Penso a grandi amori, parola anagramma di aromi, e forti emozioni, ma quelle sono altre storie. Le lasagne continuano ad emanare il loro profumo. Voglio prepararmi a gustarle, cerco un vino da abbinare. La presenza della bechamel con un pizzico di noce moscata dà una tendenza dolce che si mescola con il ragù salato e saporito; opto per un vino rosso non troppo carico e strutturato, morbido e fruttato, scarto il Lambrusco e mi dirigo verso un Pinot Nero che stappo con anticipazione. Ne verso un bicchiere in religioso silenzio sapendo che il momento di assaporare le lasagne si avvicina. Ricordo di aver letto che solo nel Rinascimento all’impasto vennero aggiunte le uova che conferiscono tenacia alla sfoglia, ma da originaria di quel che era il Regno delle due Sicilie io preferisco la sfoglia alla napoletana, fatta di acqua, sale e farina di grano duro.
Che periodo unico al mondo il Rinascimento, anche per la cucina. Fu l’epoca di Bartolomeo Scappi, cuoco segreto, cioè privato, di Pio IV, che nella sua opera in sei volumi del 1570 espose una ricetta di lasagne al forno a base di “pasta reale” composta di farina, acqua di rose, burro e zucchero condita con strati di burro, provatura (formaggio simile alla mozzarella), parmigiano, zucchero, pepe e canella. Prima di essere servite erano spolverizzate di zucchero e canella celebrando il gusto dolce e speziato dell’epoca per me un ricordo della cucina araba della mia terra. Gli strati di pasta, scrisse Cristoforo Messibugo, cuoco rinascimentale alla corte estense nel XVI secolo, autore di Banchetti, composizioni di vivande e apparecchio generale, dovevano essere sottili come fogli di carta come se due persone tirassero in direzioni opposte una pasta tirata al mattarello. Immagino una cucina dal pavimento bianco di farina e questa pasta sottile che si allunga sotto l’occhio divertito di dame dal colletto con mille pieghe.
Bevo un sorso di vino, in una sorta di rituale di preparazione al gusto delle lasagne e del loro ragù. Un ragù che, seppur bolognese, è rosso del pomodoro di Napoli e sorrido solo al pensiero della contesa tra Napoli e Bologna circa la paternità di questo piatto. Nel 1634, a Napoli, Giovanni Battista Crisci pubblicò La lucerna de’ Corteggiani dove per la prima volta si trova una panoramica dei prodotti gastronomici meridionali nonché, tra le altre, una ricetta di “lasagne di monache stufate, mozzarella e cacio”. Mi scappa da ridere per il doppio senso, si tratta di lasagne stufate o fatte da monache annoiate? Tendo a prediligere la seconda. Erano lasagne con formaggio di pasta filata e infornate e questa ricetta si mantenne con poche variazioni fino al XVIII secolo quando i timballi presero il sopravvento.
Ammetto che il pensiero dei timballi mi distrae e mi induce in tentazione. I timballi sono per me come un pacco regalo a sorpresa in cui la pasta racchiude un ripieno di cui si ha contezza solo al momento in cui si incide la crosta. Le lasagne invece sono lì, come un libro apparentemente aperto, in realtà scrigno di sapori disseminati tra i fogli di pasta come frasi d’amore scritte su pagine chiare. Le lasagne, contese tra Bologna e Napoli quanto a paternità, come il figlio genio che tutti vorrebbero proprio. Napoli, patria di Ferdinando II di Borbone soprannominato Re Lasagna, apportò l’uso del pomodoro, sconosciuto in Emilia, ed è del 1881 la prima ricetta di lasagne al pomodoro, contenuta nel Principe dei cuochi o la vera cucina napolitana di Francesco Palma. D’altronde già cinquant’anni prima Ippolito Cavalcanti aveva descritto le lasagne napoletane: sottili strati di pasta alternate a strati di polpettine, mozzarella o provola e insaporite con formaggio grattuggiato, zucchero e cannella mentre il romagnolo Pellegrino Artusi, autore di Scienza in Cucina, ignorò la ricetta delle lasagne.
Ritorno alla teglia, affondo la paletta con ferma delicatezza e taglio il mio rettangolo di paradiso del palato. Mi seggo a tavola e con la forchetta ne taglio un boccone. Lo porto alla bocca mentre percepisco gli odori che si sprigionano. Le mie papille sono alle stelle mentre gusto ogni sfumatura. In fondo non mi importa che siano bolognesi o napoletane, tanto ognuna delle regioni italiane ne vanta una versione autentica, da quella veneta col radicchio a quella siciliana con ricotta e melanzane fritte. Alla fine del XVIII secolo Francesco Leonardi aveva già parlato di lasagne alla Milanese, con tartufi, burro, bechamel e parmigiano. Nel 1844 Il Cuciniere Italiano Moderno pubblicò la ricetta delle lasagne alla Genovese, col pesto, per altro già in uso dal XII secolo quando i marinai le portavano per mari perché piatto che si conservava facilmente, e di lasagne alla Bolognese fatte di pasta all’uovo con spinaci, lo stesso tipo di pasta che l’Accademia Italiana della Cucina ha depositato alla Camera di Commercio di Bologna nel 2003 come base delle lasagne alla Bolognese.
Nate come simbolo di opulenza per occasioni speciali come il Carnevale e la Pasqua, sono un perfetto terreno di sperimentazione e accostamenti talora inaspettati: ho letto di lasagne asiatiche allo zenzero e maiale, messicane a base di tortillas e nigeriane fatte con le banane platano.
Le lasagne sono un viaggio nei sapori, attraverso secoli e luoghi, sontuose testimoni della civiltà del convito. Ho altre porzioni di lasagne nella teglia, sorrido, mi sento come un marinaio genovese, so che le lasagne potrò mangiarle anche domani, sono un piatto speciale che sa di casa e di tempi in cui non si aveva fretta, la cucina è ancora impregnata del loro profumo, socchiudo gli occhi, sogno.