Non ho molti ricordi della mia infanzia, tutto è come immerso in un limbo sfumato di ansiosa curiosità, di gioiose scoperte e di cocenti delusioni.
Qualche punto fermo nella mia memoria però c’è, qualche episodio che a prescindere dalla sua effettiva importanza, ha significato tanto per me da rimanere impresso nel percorso della mia giovane vita come una rivelazione, dopo la quale non fui più lo stesso bambino che ero stato fino a quel momento.
Avrò avuto sei o sette anni e come tutte le estati, con la mia famiglia, si andava in villeggiatura. Mio padre aveva una casetta sulle colline che fanno da spartiacque tra l’Emilia e la Toscana, non era un granché però aveva un bellissimo prato circondato da una bassa siepe di ligustro, al centro del quale cresceva una grande rovere, sicuramente molto più antica e venerabile delle villette anni sessanta, come la nostra, che caratterizzarono il ripopolamento di quelle montagne i cui i vetusti casali e villaggi erano stati distrutti dalla Seconda guerra mondiale che era finita da appena vent’anni.
Quel prato luminoso si affacciava sulla valle del Reno con la cupa mole di Montovolo e i bastioni del Corno a chiudere la vallata verso sud, ed era il palcoscenico delle mie scorrerie. Ero un bambino piuttosto chiuso e solitario, non perché avessi un cattivo carattere ma perché io soltanto amavo vagare per campi e boschi piuttosto che giocare a pallone e a nascondino come invece piaceva fare a tutti gli altri.
Provavo una attrazione per la natura che mi pareva misteriosa e seducente ammaliatrice, dispensatrice di gioie segrete e di promesse fatte a me soltanto, nell’arcano silenzio del verde smaltato di fiori. Alla sera tornavo stanco e graffiato dai rovi al centro del prato sotto la grande quercia e avrei potuto dirmi felice se una sottile inquietudine non avesse cominciato ad adombrare la mia felicità di bambino: cominciava, infatti, a insinuarsi in me il sospetto che il prezzo da pagare per godere di tanta delizia fosse la solitudine.
La cosa avvenne durante una di quelle sere al ritorno da una delle tante esplorazioni solitarie mentre sedevo sotto la grande quercia pregustando dal suo profumo, la cena che mia madre stava preparando in cucina. Stavo lì assorto guardando la valle, quando un tonfo metallico mi fece trasalire: mi voltai e al centro del tavolo bianco c’era un gigantesco scarabeo nero, un maschio di cervo volante, forse caduto dai rami là in alto probabilmente durante un aspro duello con un rivale, che rimessosi in equilibrio sulle quattro zampe posteriori e spingendosi baldanzosamente in avanti sul lungo paio di zampe anteriori, puntava verso di me il suo gran paio di corna con aria di sfida. Rimasi come ipnotizzato, ricordo benissimo quel momento perché non ebbi alcuna paura, osservavo rapito, mentre caracollava verso di me, quella che allora, come ora, mi parve una creatura fiabesca, il piccolo messaggero di un universo fantastico giunto in gran parata per schiudermi, se lo avessi voluto, le porte di quel mondo e fu allora, in quel preciso momento, che compresi che se avessi varcato quella soglia, non sarei mai più stato veramente solo, nemmeno nelle forre delle più scure e solitarie foreste.
Mezzogiorno di un maggio lontano, molti anni dopo, mi trovo tra le colline toscane, ai bordi di un campo di rape in fiore di un giallo abbagliante, nel caldo sole primaverile. Nel silenzio, solo un brusio danzante: legioni di api alla raccolta di nettare... forse è così, penso, che in primavera il mondo al risveglio saluta il suo Artefice. Ma poi penso che siamo veramente creature ingrate e lo siamo specialmente nei confronti degli insetti.
Fin da bambini ci insegnano a temere tutte le piccole creature che strisciano corrono o si arrampicano attorno a noi, come se da esse scaturisse una minaccia o un pericolo mortale. In realtà ciò è vero solo in parte poiché di quegli esseri, quelli che più temiamo, in realtà non sono nemmeno insetti: ragni e scorpioni, infatti, appartengono a un altro gruppo di animali e la loro effettiva pericolosità getta su tutti gli artropodi un risentimento e un timore immeritati.
Perché insetti sono le farfalle, simbolo dell'anima e della bellezza stessa e donano il bagliore dei loro splendidi colori sia nell'ombra misteriosa delle foreste primordiali che nei giardini e negli orti domestici.
Insetti sono le api, che insieme agli altri impollinatori compiono la più stupefacente opera di rinnovamento biologico ed eugenetico da ere immemorabili: l'impollinazione entomofila delle angiosperme senza le quali il mondo non avrebbe il volto che conosciamo e la nostra stessa ingrata specie, come diceva Einstein, si estinguerebbe in un lustro.
Insetti sono anche gli eserciti di piccoli esseri, apparentemente insignificanti, che forniscono però cibo a miriadi di creature che volano nei cieli e corrono sulla terra, costituendo gli anelli principali della catena alimentare del nostro pianeta.
Sembrano apparire dal nulla in primavera e nel nostro immaginario sono intimamente connessi al ritmo delle stagioni, il canto dei grilli in estate, le cicale che bruciano la loro vita nel frinire della calura estiva, le lucciole, credute spiriti in molte tradizioni orientali, che evocano reminiscenze ultramondane. In realtà gli insetti sono esseri così fantastici che sembrano appartenere davvero a un altro mondo. Essi annoverano tutte le strutture possibili e immaginabili, esprimono tutta la bellezza, la complessità strutturale e la fantasia del Creato. Comparvero più di 350 milioni di anni fa, durante l'era Paleozoica, quando le grandi piante verdi cominciarono a popolare la terra e alcuni di loro, sorprendentemente simili a quelli odierni, sono giunti fino a noi in splendidi sarcofagi di resina fossile: l'ambra.
Compiono, nel corso della loro esistenza, un incredibile processo di trasformazione chiamato metamorfosi che muta un piccolo bruco strisciante in quella creatura di indescrivibile bellezza che è la farfalla. Alcuni di essi, durante le più oscure fasi di questa trasformazione, assumono forme e colori incredibili senza che però possano in alcun modo manifestarsi, occultati come sono nelle profondità della terra o reclusi nel buio cavo di enormi alberi, quale mistero nel Mistero!
Sono dovunque, li troviamo nelle più sperdute regioni polari come nel più arido dei deserti. Chi sa amarli e apprezzarli come meritano resta affascinato dalla loro apparizione, come accadde a me tanti anni fa sotto quella grande quercia, poiché scopre un universo intero dietro le pietre e i tronchi, tra l'erba e nelle sabbie, un universo tanto magico e stupefacente quanto meravigliosamente reale.