Se, come abbiamo affermato nel dialogo precedente, più ho un’identità relazionale e più applico i principi etici e viceversa in una sorta di circuito virtuoso, allora mi chiedo: i sistemi complessi per definizione sono etici? La vita è etica?
Intuitivamente mi verrebbe da dire di sì… Se un organismo è vivo, è complesso; se è complesso, rispetta i principi etici, i principi della complessità. Altrimenti si avrebbe disgregazione, cioè crollerebbero tutti i livelli gerarchici superiori fino alla disintegrazione, fino a ciò che possiamo chiamare la morte. L’etica, in questo assunto, è qualcosa di connaturato alla vita stessa, senza che vi sia necessariamente all’opera la consapevolezza di tutto ciò. Un essere vivente è di per sé in relazione con l’ambiente che lo circonda, è di per sé inserito in una rete di relazioni che lo mantengono in vita e, attraverso il suo vivere quotidiano, assicura il mantenimento di questa rete.
Non sappiamo, tuttavia, se ciascun essere vivente è consapevole della rete che lo unisce a tutto l’universo e se agisce intenzionalmente per assicurarne il mantenimento. Possiamo tuttavia dire che il suo operare è etico, poiché agisce attraverso la vita per il mantenimento della vita. È un know how etico istintivo, naturale.
E per l’uomo, che invece sappiamo essere in grado di agire con consapevolezza?
In questo caso, direi proprio che l’etica diviene una scelta consapevole. Possiamo chiederci se l’operare dell’uomo sia etico, osservando se il suo agire è attraverso la vita per il mantenimento della vita, e provare a darci una risposta… Credo che cadrebbe un profondo silenzio, poiché non ci sono parole adeguate per descrivere quello che abbiamo fatto fino ad oggi, e quello che continuiamo a fare.
Si è cercato di dimostrare, a giustificazione di ciò, che l’uomo è naturalmente aggressivo, poiché l’aggressività appartiene alla genesi della nostra specie, ai mammiferi dai quali proveniamo. Si sono tuttavia riscontrati i limiti di questo approccio, non solo considerando le peculiarità dell’uomo – di cui sappiamo esistere una coscienza di sé e delle proprie azioni, la consapevolezza appunto – ma esaminando anche gli stessi comportamenti animali, la cui aggressività è spesso solo una via per assicurare il mantenimento della vita propria o del gruppo cui si appartiene, e sempre in alternativa alla via di fuga in caso di pericolo.
Si tratta, quindi, mi pare di capire, di una scelta etica da fare tra l’agire per il mantenimento della vita nelle sue diverse relazioni a tutti i livelli e il perpetuare distruzioni e separazioni?
Certamente sì, e, come vedi, ritorniamo sempre alla scelta fondamentale di considerare l'uomo come 'essere tra gli esseri', inserito in una rete di relazioni di cui è partecipe con umiltà e direi quasi con devozione. La consapevolezza di appartenere ognuno di noi l’uno all’altro e, contemporaneamente, a ogni essere, vivente e non vivente, consente il mantenimento della vita a livello globale. Mi piacerebbe a questo proposito richiamarmi al concetto di coscienza planetaria elaborato da Ervin Laszlo insieme al Dalai Lama ne Il Manifesto sulla coscienza planetaria adottato dal Club di Budapest il 26 ottobre 1996, in cui si afferma che:
Avere una coscienza planetaria significa capire, e così pure sentire, la vitale interdipendenza e l’essenziale unione dell’umanità. Coltivare una coscienza planetaria comporta la cosciente adozione dell’etica e della norma di vita che essa implica. La sua evoluzione è l’imperativo fondamentale per la sopravvivenza umana su questo pianeta.
La coscienza planetaria è ciò che noi intendiamo con complessità: avere una visione globale delle interrelazioni esistenti tra tutto ciò che esiste.
È veramente richiesto un capovolgimento di prospettiva…
Sì, si tratta proprio di un capovolgimento di prospettiva. Dal sentirsi investiti – per vie divine o per vie politiche – del potere di dominio sulla terra e su tutti gli esseri viventi e non viventi che vi abitano, a sentirsi come nodi di una rete che ci include pariteticamente con ogni altro essere, la strada da percorrere non è certo facile.
Tuttavia, sono esistite – c’è da chiedersi se esistano ancora – culture che avevano questa visione dell’uomo, e non credo che gli appartenenti a queste culture fossero per questo infelici o frustrati nel loro sentirsi vivi, anzi...
Ma, secondo te, è ancora possibile questo cambio di prospettiva?
Secondo me sì, specie considerando il malessere diffuso – non solo in senso spirituale, ma anche fisico e ambientale – di cui siamo tutti ormai consapevoli; c’è il desiderio di provare nuove strade, poiché le vecchie sono ormai insufficienti a comprendere il mondo in cui viviamo…
C’è una crisi di percezione generale, in cui i nostri schemi mentali sono ormai inadeguati per comprendere i fenomeni e affrontarli, poiché si tratta di problemi sistemici, interrelati e interdipendenti, che abbracciano non solo la persona, ma tutto il mondo cui essa partecipa; la visione separativa – pur se utile nell’analisi di dettaglio – è ormai totalmente inadeguata ad affrontare problemi globali, che travalicano le singole competenze e specializzazioni.
Il pensiero lineare, semplificatore, che ci ha guidato fino ad oggi mostra tutti i suoi limiti nel non riuscire più a soddisfare le nostre aspettative, non solo di riuscita ma anche di comprensione.
Siamo stati educati attraverso la nostra cultura a credere di poter controllare tutto; è una bolla piena di illusioni di cui ormai percepiamo i limiti, ma di cui ancora non riusciamo a fare a meno e all’interno della quale ancora pensiamo, agiamo, speriamo…
Sono tutte quelle convinzioni, quegli schemi mentali, di cui abbiamo già parlato in altre occasioni e di cui ci nutriamo per sopravvivere – e non certo per vivere!
Se ho ben capito, stiamo dicendo che il paradigma semplificativo meccanicista, basato sull’assunto di dover separare per poter conoscere, risponde a una cultura generale di dominio, fondata sul desiderio – consapevole o meno – di conquista, attraverso l’esercizio di un potere di controllo sul mondo circostante e sugli esseri che lo abitano, uomini compresi…
Sì, è il modello di pensiero e di comportamento che si basa sul dominio attraverso il controllo. È il Dividi et Impera degli antichi Romani che ancora pratichiamo nel nostro operare quotidiano!
Credo anche che il desiderio di conquista, di dominio sul mondo circostante, trova corrispondenza in un sentimento di paura, derivante dal sentirsi soli, isolati in un mondo estraneo e vasto: paura di ciò che non è conosciuto, di ciò che non è sé; e in una visione separata, tutto ciò che non è sé è diverso, sconosciuto, incomprensibile.
È un circolo vizioso che si auto-rinforza, in cui il sentirsi isolati rafforza la paura, la paura rafforza il cercare di dominare, il dominio rafforza la separazione, e la separazione rafforza l’isolamento…
L’approccio lineare di causa ed effetto è funzionale proprio al controllo: il poter predire gli eventi significa rimanere ancorati a un’ottica di linearità, in cui si può agire sulla causa per ottenere l’effetto desiderato. Per controllare è necessario separare da altri legami possibili; il controllo, per potersi esercitare, è necessario che riduca il più possibile le connessioni, le relazioni: si cerca di portare una situazione complessa a una situazione non complessa, semplificandola.
E come si fa di una situazione complessa a ridurne la complessità? Si tagliano le relazioni, si riducono le connessioni, si cerca di fare in modo che essa abbia meno relazioni possibili, meno connessioni possibili, in modo da poter mantenere il controllo sulla situazione.
Anche nell’approccio scientifico tradizionale l’analisi di un fenomeno avviene semplificandolo e trasformandolo in un modello generale, attraverso la riduzione delle variabili in gioco ed eliminando innanzi tutto proprio quelle non controllabili, e introducendo tutt’al più la variabile stocastica, che dovrebbe raggruppare tutto ciò che è definibile genericamente come 'caso'.
Si isola pertanto la situazione o il soggetto; è l’isolamento, ossia la riduzione di complessità, che consente il controllo.