Architetto, scrittrice, giornalista, e docente di Storia dell’architettura contemporanea al Politecnico di Milano e di Storia e documentazione dei beni architettonici all’Accademia di Brera, collabora con quotidiani (ha curato tre collane sull’architettura contemporanea per il Corriere della Sera), siti e testate specializzate. Tra i suoi saggi, le monografie di Aldolf Loos, Mario Botta, Vittorio Gregotti, Zaha Hadid e Grattanuvole. Un secolo di grattacieli a Milano, frutto di una ricerca con gli studenti del suo corso universitario.
Ho iniziato a scrivere, per il quotidiano La Provincia di Como, di architettura e di arte già da quando frequentavo il liceo classico a Como. Mi ricordo che dopo una conferenza di Mario Botta alla Casa del Fascio di Terragni a Como, l’architetto mi aveva chiesto cosa avrei voluto fare da grande, senza dubbi gli ho risposto che avrei voluto scrivere del suo lavoro, e così è stato! Mi sono laureata al Politecnico di Milano con una tesi sull’architettura militare del Cinquecento attribuendo un manoscritto inedito a Galeazzo Alessi, poi il dottorato al Politecnico di Torino e ho passato qualche anno a insegnare storia dell’architettura del Rinascimento. Purtroppo i corsi di architettura antica erano poco richiesti, allora ho iniziato a insegnare storia dell’architettura contemporanea.
Una delusione è stata quella della situazione dei concorsi universitari in Italia (pochi e non sempre trasparenti), per cui ho iniziato a collaborare con Federico Motta Editore nel settore libri e riviste di architettura (continuando a insegnare come professore a contratto fino a oggi). Tuttora sono docente all’Accademia di Brera di Storia e documentazione dei beni architettonici. Stare con gli studenti mi rende felice. Ho lavorato anche per Il Sole 24 Ore Cultura e una bella esperienza è stata quella della ideazione e curatela delle collane di architettura per il Corriere della Sera, circa 140 libri in tre anni. Ho curato diverse mostre tra le quali due collaterali ufficiali alla Biennale di Venezia e due alla Triennale di Milano. Ho in progetto una collana sui grattacieli e un libro-guida di architettura per bambini su Milano.
Quale “valore aggiunto” può dare l’architetto-donna?
Gae Aulenti, in una delle sue ultime conferenze che abbiamo fatto insieme all’Accademia di Mendrisio, ha raccontato un aneddoto significativo: aveva appena vinto il concorso per il Museo d’Orsay di Parigi e al telefono quando la chiamavano per fare le congratulazioni, sentendo una voce di donna, chiedevano: “Mi può passare Monsieur Aulenti?”. Per fortuna oggi le cose sono un po’ cambiate anche se ci sono ancora dei preconcetti in un mondo come quello della progettazione ancora a maggioranza maschile; sono ancora poche le donne che dirigono importanti studi di progettazione e che non si occupano solo di interni. Si pensi a Zaha Hadid, Kazuyo Sejima, a Patricia Urquiola, a Benedetta Tagliabue oppure a Karen Cook, dello studio PLP Architecture che nel 2016 a Londra ha ridisegnato un grattacielo, The Pinnacle. La sensibilità femminile in un gruppo di progettazione integrata può fornire un punto di vista diverso e completare, riuscendo (forse più degli uomini) a mediare e a evitare gli eccessi.
Il fenomeno dell’urbanesimo sta assumendo proporzioni globali preoccupanti, come potrà essere la megalopoli del futuro?
La città del futuro dovrà essere per forza densa e compatta poiché c’è una stretta relazione tra densità e consumo di energia. Credo che questa sia la chiave che renda una città veramente sostenibile. Una città del futuro dove non avrà più senso parlare di centro e di periferia, ma che sarà fatta di molte centralità in grado di integrare nuove forme, iconiche o discrete, e che avrà la capacità di accogliere lingue e linguaggi diversi.
Al di là del mito degli “archistar”, quale funzione pubblica e sociale riveste oggi la figura e l’attività dell’architetto?
Il declino del mito dell’archistar e la necessità di integrare i saperi disciplinari è un dato significativo in contrasto con l’antropocentrismo arrogante che ha compromesso la biodiversità e l’equilibrio delle specie. Cambio climatico e sostenibilità sono i temi che l’architetto deve necessariamente affrontare oggi nel progetto e lo si è visto nella bella mostra di Paola Antonelli Broken Nature alla Triennale di Milano. Tuttavia, credo che sia necessario riflettere sui molti esempi di “progettazione verde” che spinti da una convinzione utopistica tentano di “rappezzare la natura” ancora fiduciosi che la tecnologia possa aggiustare tutto. L’architetto deve, invece, interrogarsi su quali siano le pratiche progettuali che si propongono di fungere da sensori della complessità del presente e dovrebbe avere il coraggio di “non costruire” quando non è strettamente necessario.
Ha pubblicato un pamphlet “sull’ossessione pop delle icone” del design…
Questo libretto semiserio Maledetto design che ho pubblicato per Centauria, è nato da un interrogativo che mi sono sempre posta: come è possibile che oggetti d’uso comune, di ogni genere, per lo più destinati alla produzione industriale in serie, sono diventati nel tempo oggetti di culto definiti da un'unica parola: “icone di design"? È curiosa l’espressione “di design" poiché assume, nel linguaggio comune, una cifra stilistica precisa, un modo di dire che sottende tuttavia anche la “maledizione” che lo “stile” si trasformi in “brand” diventando preponderante rispetto al “design”. Molti oggetti design, nel tempo hanno assunto il ruolo di “icone” nell’immaginario collettivo, o addirittura di “icone-pop” o oggetti di culto tale da giustificarne la loro presenza nell’ambiente domestico anche se scomode e non proprio funzionali: come per esempio lo spremiagrumi Juicy Salif di Philippe Starck, che resiste nel tempo non tanto per la sua funzionalità quanto per la sua capacità di comunicare creando addirittura dei legami di tipo affettivo con coloro che lo posseggono diventando un vero e proprio riferimento di un'epoca e di una comunità che ne riconosce il valore iconico.
Recentemente, si vocifera di abbattere lo stadio di San Siro, sarebbe l’ultima manifestazione di quella concezione di rinnovamento urbanistico, che ha significativi precedenti storici, dall’abbattimento degli edifici antistanti il Duomo, alla “Racchetta”, alla cancellazione della Fiera Campionaria: fino a quando e fino a quanto è lecito sostituire il passato con il presente o il futuro?
Milano è indubbiamente da sempre una città in movimento, un luogo di sperimentazione progettuale e forse proprio per questa sua caratteristica torna oggi a essere sulla mappa dei turisti. C’è la Milano sobria dei meravigliosi edifici dei “maestri milanesi” che convive accanto ai nuovi e scintillanti progetti di una Milano che negli ultimi vent’anni non hanno solo cambiato lo skyline, ma anche l’immaginario architettonico, le narrazioni. Si può discutere la qualità di questi progetti e solo il tempo decreterà la loro capacità di “fare città”, ma Milano è sempre stata capace di “ricucire” gli strappi e di metabolizzare il nuovo. Tuttavia credo che la traccia, la stratificazione del passato sia fondamentale per mantenere l’identità dei luoghi e per preservare la conservazione della memoria collettiva. Uno di questi luoghi che nel tempo è diventato un riferimento urbano è lo stadio San Siro. Qualcuno vorrebbe abbatterlo ma credo, come ho sottolineato prima, che in questo nuovo secolo non siano indispensabili nuove opere che consumino altre risorse e territorio, per cui sarebbe meglio recuperare, densificare e riusare quello che abbiamo. In questa ottica bisognerebbe valutare la possibilità di recuperare lo stadio storico con una nuova funzione mantenendo la traccia della memoria del luogo, costruendo accanto uno nuovo stadio che abbia prestazioni e caratteristiche più adeguate.
L’identità di una città è fatta anche dalla sua peculiarità architettonica, nel passato l’Eclettismo e il Liberty hanno tentato di conciliare storia e innovazione, oggi la tradizione architettonica milanese sembra non trovare più spazio in una progettazione sempre più internazionale…
Penso che in parte questa osservazione sia vera poiché appare evidente che, nel caso della costruzione dei nuovi grattacieli, la città abbia assorbito “in ritardo” i linguaggi internazionali, senza sviluppare prima un’adeguata riflessione critica riguardo la loro contestualizzazione o una visione d’insieme dell’immagine cittadina, è d’altro canto indubitabile che le nuove torri costituiscono già ora inattesi punti di riferimento e forse, un giorno, saranno i nuovi luoghi dell’identità urbana. Il problema è quello di riuscire a creare, come è stato in passato, delle “discontinuità consapevoli”: per esempio la Torre Rasini, realizzata da Gio Ponti ed Emilio Lancia nel 1932 sui Bastioni di Porta Venezia, è una “torre urbana” con un corpo bifronte in grado di dialogare con la terra e con il cielo e di legare la città che scorre alla natura che disegna i Giardini. Oppure come la Torre Velasca, progettata dai BBPR nel 1959, che si allarga nel cielo come un fungo nel rispetto del contesto urbano d’inserimento, esprimendo una modernità ricercata nel solco della storia, o l’edificio in corso Italia di Luigi Moretti, 1949-1955, una sorta di torre orizzontale bianca che spacca l’isolato come la prua di una nave.
Come docente del Politecnico e come studiosa ha svolto un’importante ricerca sui grattacieli ambrosiani: dai grattanuvole ai grattacieli, cos’è cambiato nell’immaginario collettivo?
Il grattacielo finalmente è stato accettato nel tessuto urbano e dalla mentalità dei milanesi. Siamo ormai lontani dalla diffidenza degli esordi quando i grattacieli venivano definiti con disprezzo “gratta-nuvole” in contrapposizione ai “gratta-cieli” americani: nel 1910 Achille Manfredini, presentava alla commissione edilizia un progetto per un “grattanuvole” in piazza Missori, poi rifiutato per ragioni estetiche, aprendo così la polemica sull’edificio alto a Milano. Non verrà realizzato neanche Palazzo Korner, il grandioso fabbricato “ad uso di civile abitazione”, con una capienza di 220 locali e 15 piani, pensato da Giulio Ulisse Arata in via Leopardi, zona Cadorna nel 1923, che prevedeva una fascia terminale a terrazze digradanti dove si alternano tetti a falde e torrette-belvedere affacciate sul tetto-giardino, prefigurando una sorta di Bosco verticale. Mentre sempre negli stessi anni - in cui il tema dei grattacieli occupa e preoccupa la commissione consiliare incaricata di riformulare il regolamento edilizio milanese - Piero Portaluppi avanza una proposta che esula da commissioni professionali o da occasioni concorsuali, collocandosi nel segno dell’utopia e della burla. Il Grattacielo per la S.K.N.E. Company, pensato come landmark di una azienda inesistente costituisce una stroncatura ironica, ma non per questo meno polemica, del mito americano del grattacielo (stai lontano dai grattacieli SKappaNE!).
Il grattacielo è stato anche interpretato come simbolo fallico, in contrapposizione alla galleria, dalla valenza di accoglienza femminile. Che Milano sia oggi più caratterizzata da grattacieli più che da gallerie può avere un significato di genere?
Sposterei la sua osservazione sulla questione dell’alternanza della definizione negli edifici alti milanesi tra i “grattacieli” (maschi) e le “torri” (femmine)! La Torre Velasca, il Grattacielo Pirelli, la Torre Galfa, il Grattacielo Allianz, la Torre Solea… È curioso che il grattacielo Pirelli cambi sui cartigli nel corso della sua gestazione il nome da “torre” a “grattacielo”… in questo caso sarebbe un transgender!
Il Italia e in Europa al termine “grattacielo” in genere viene preferito “torre”. Secondo me la preferenza della definizione “torre” non è legata tanto a fattori dimensionali quanto invece a caratteri formali che ne definiscono le continuità o le rotture. Torre è un termine che rappresenta un modo emblematico un modo di pensare la modernità che si vuole sempre confrontare con la tradizione, la storia urbana, il contesto e suoi materiali. La “torre” predilige l’aspetto pieno della facciata rispetto alla diafana trasparenza international style della curtain wall dei grattacieli americani. A Milano il termine “torre”, dunque, rende omaggio alla storia e contrasta l’avanzare dei temuti “grattanuvole” americani. Classica è la contrapposizione Pirelli-grattacielo e Velasca-torre. La “torre” Velasca terminata nel 1958 diventa manifesto della possibilità dell’architettura moderna di inserirsi nelle “preesistenze ambientali”, mentre il Pirelli segue i modelli americani e si inserisce con la sua forma “moderna”, isolata dal contesto come una lama di lato al fronte neoegizio della Stazione Centrale.
Oggi i concorsi estesi in tutto il mondo a studi di architettura internazionali hanno portato a una omologazione della tipologia del grattacielo a scapito della capacità dell’edificio alto di misurarsi con il contesto locale, ovvero con le tematiche simboliche, identitarie e con le specificità urbane. Forse allora meglio le “torri”!
La verticalità dell’abitare in alto presenta implicazioni antropologiche e sociologiche: come si può conciliare con l’orizzontalità del radicamento con la terra?
Quello del vivere in altezza è un tema abitativo completamente nuovo sia dal punto di vista dell’opinione pubblica generale, sia dal punto di vista dei target di riferimento di queste nuove proposte abitative. A Milano ci sono sempre stati dei pregiudizi rispetto all’abitare in un grattacielo solitamente sede del terziario e non destinato al residenziale, a parte la Torre Rasini di Emilio Lancia e la Torre al Parco di Vico Magistretti. Vivere da soli, lontano dal mondo, fa emergere un sentimento irrazionale di paura e l’elevato numero di piani porta a un senso di vertigine.
Oggi, tuttavia, a Milano le cose sono un po’ cambiate: prima di tutto perché il grattacielo è diventato un elemento di presenza abituale del panorama milanese e del suo skyline come soluzione abitativa dal forte respiro internazionale. Il desiderio di vivere il panorama urbano dall’alto porta con sé una sensazione di libertà e dominio (fisico e psicologico) sullo spazio circostante. Inoltre il grattacielo è visto come nuovo protagonista del vivere sostenibile, un posto dove è possibile vivere in misura maggiore la luce e l’aria pulita, un’opportunità che provoca una sensazione di benessere. È curioso invece - come è stato riscontrato da una ricerca del sociologo Mario Abis - che nonostante la forte spinta mediatica delle “archistar” che disegnano i grattacieli, l’autore sembra passare in secondo o terzo piano (è interessato solo il 3%): l’aspetto morfologico del grattacielo interessa molto poco. Il valore di brand del grattacielo in sé supera il valore di brand delle archistar.
La verticalità si concilia con l’orizzontalità attraverso l’attenzione progettuale per l’attacco a terra del grattacielo che deve essere pensato con dei criteri di permeabilità con la città: per esempio, con negozi, spazi commerciali, piazze.
A un centro sempre più attrattivo, Milano contrappone periferie che scontano decenni di abbandono ed emarginazione: che fare?
È un problema è davvero centrale per lo sviluppo della città. Credo che l’approccio giusto per affrontare il tema delle periferie sia quello di Renzo Piano con il progetto G124: un gruppo di lavoro che prende il nome dal numero dell’ufficio del senatore a Palazzo Giustiniani, trasformato in un laboratorio per progettare la riqualificazione delle periferie delle città italiane. Il gruppo G124 lavora su diversi temi che riguardano le periferie: l’adeguamento energetico, il consolidamento e il restauro degli edifici pubblici, i luoghi d’aggregazione, la funzione del verde, il trasporto pubblico e i processi partecipativi per coinvolgere gli abitanti nella riqualificazione del quartiere dove vivono. Questo progetto ha interessato anche il quartiere milanese del Giambellino. Il futuro delle periferie sta nella progettazione partecipata, nell’ascolto di chi ci vive per costruire insieme il senso della “cura del luogo”, cominciando da piccoli interventi di “agopuntura urbana”.
Ci potrebbe proporre un itinerario per scoprire o riscoprire gli edifici moderni e contemporanei meritevoli di maggiore visibilità?
Da quando ho iniziato a studiare i progetti di Giuseppe Terragni mi sono appassionata alle architetture del razionalismo italiano. A Milano ci sono cinque case da reddito progettate negli anni Trenta da Terragni con Pietro Lingeri. Progetti intelligenti per edifici residenziali previsti su lotti irregolari con la soluzione dell’ultimo piano arretrato detto a “villa sovrapposta”, ovvero un unico appartamento destinato al proprietario dell’abitazione. La più nota è Casa Rustici in corso Sempione 36 che rappresenta un interessante esempio di “discontinuità consapevole”, poiché rompe i codici tradizionali dell’architettura del tradizionale palazzo milanese - caratterizzato da facciate chiuse, dalle corti interne - con una facciata costituita, invece, da passerelle aeree.
Le altre quattro case, meno celebri, (e da valorizzare) sono invece collocate tutte nel quartiere Isola. Casa Toninello, in via Perasto 3, è la più piccola delle cinque, e presenta un fronte strada di soli dodici metri fortemente marcato. Casa Ghiringhelli, si affaccia su piazzale Lagosta con un prospetto movimentato da un gioco complesso di arretramenti e avanzamenti. Casa Lavezzari, in piazza Morbegno, 3, ottimizza la forma dell’isolato a forma di “V” che converge verso la piazza dove nel vertice sono collocati i balconi. Nel progetto di casa Rustici Comolli, sullo scalo ferroviario di Porta Garibaldi fra le vie Guglielmo Pepe e Cola Montano, che raccorda due edifici di altezze differenti, ritroviamo invece i balconi sospesi della casa in corso Sempione.