L'Italia è un paese ricco di ambienti e paesaggi stupendi e unici, con un patrimonio storico e architettonico invidiabile.
Siamo anche un paese in cui l’abusivismo edilizio più che altrove ha sminuito e distrutto intere aree urbane.
Ma non solo, siamo anche il paese che ha il privilegio di aver coniato la parola ‘ecomostro’ che non è traducibile, come mafia e come abusivismo: sembra che la parola sia stata introdotta da Legambiente dinnanzi alla struttura dell’Hotel Fuenti (abbattuto nel 1999) costruito a Vietri sul Mare, proprio sul mare!
Con la parola ecomostro si intende un edificio “gravemente incompatibile con la natura circostante”, una costruzione, quasi sempre frutto di abusi edilizi e corruzione, che non può e, mai potrà, inserirsi nel contesto ambientale.
Vorrei identificare come ecomostro anche la costruzione quei complessi residenziali “gravemente incompatibili con la persona, con la civiltà, con la società, con la dignità umana”.
Non voglio parlare dei ‘non finiti’ che sono rimasti li, come cattedrali nel deserto, ammassi ingiustificati di cemento a rovinare coste, prati e città. Voglio parlare di edifici abitati da persone, di palazzi e interi quartieri costruiti, con investimenti pubblici, che nel tempo si sono rivelati orrori dell’architettura moderna, incompatibili con un percorso di crescita e inclusione sociale.
Cosa hanno in comune queste grandi strutture:
- rientrano nell’edilizia pubblica, realizzati dunque con finanziamenti pubblici;
- sono realizzati da grandi architetti;
- sono state costruiti nello stesso periodo storico;
- avevano l’obiettivo di popolare le periferie cittadine;
- dovevano fornire anche in periferia servizi e buona qualità di vita.
E allora cosa è andato storto? Come mai oggi sono lascati a un degrado tale che l’unica soluzione sembra la demolizione?
Le tre realtà che più di altre mi interessa raccontare sono: lo Zen a Palermo, il Corviale a Roma e Scampia a Napoli.
Lo Zen a Palermo
Lo Zen di Palermo è un quartiere popolare sorto a partire dal 1969 suddiviso in due aree: Zen 1 e Zen 2.
Il primo ad essere edificato fu Zen 1: un insieme di case popolari con servizi e attività commerciali. Poi a partire dagli anni 1969 lo Iacp di Palermo stanzia i fondi per realizzare lo Zen 2: il progetto è dell'architetto Vittorio Gregotti e si caratterizza per la struttura a insulae (quella a nord, quella a sud e una terza fascia al centro). Il progetto redatto dal noto architetto prevedeva una ampia dotazione di servizi: un centro aggregativo, un albergo, la chiesa, biblioteche, supermercati, uffici pubblici e privati, un ampio parcheggio e anche una piazza sopraelevata. Le aree comuni dovevano coprire un’area di 16mila metri quadrati.
Tra i servizi anche quelli per l’infanzia: le scuole, dalla materna alle medie, con anche strutture destinate allo sport. Non poteva mancare il nido con area verde per il gioco.
In merito alle aree verdi, il progetto includeva all’interno delle insulae viali alberati e verde per 50mila metri quadrati oltre a ulteriori 110mila metri quadrati di verde fuori dal perimetro delle insulae: 10 metri quadrati circa di alberi per abitante (la previsione abitativa era di 14.300 abitanti).
Oggi il quartiere è praticamente privo di servizi. Cosa è accaduto al progetto iniziale?
Le varianti del progetto già in fase di approvazione persero molte quote di verde pubblico, di zone gioco e sport, di aree destinate alla collettività. A questo si aggiunsero ritardi burocratici e disattenzione politica che permise un’occupazione abusiva degli alloggi. E da qui, il degrado causato anche dalla mancata realizzazione di molte fondamentali opere di infrastrutturazione primaria e secondaria (in gran parte del quartiere mancano ancora le fognature).
Il quartiere è afflitto da gravi problemi di deterioramento architettonico a causa della mancata manutenzione ordinaria, di degrado sociale, criminalità elevata e alti tassi di dispersione scolastica. Difficile il recupero: ci hanno provato negli anni associazioni religiose, istituzioni di volontariato con piccoli, modesti successi.
In pieno spirito di rinnovo allo Zen 2 negli anni ’90 è stato dato un nuovo nome: adesso si chiama quartiere San Filippo Neri, dal nome della chiesa. Inoltre, è stata costruita una struttura sportiva: il velodromo Paolo Borsellino.
Ma nulla sembra cambiato. Per chi entra allo Zen lo spettacolo è ancora quello degli anni ‘90: auto abbandonate, ragazzini con i motorini che sfrecciano senza casco, immondizia, individui agli angoli, tanta dispersione scolastica, micro criminalità… e tante famiglie che vorrebbero crescere bene i propri figli anche se sono nati li… pensate: vivere in Sicilia e non vedere nemmeno un albero!
Forse aveva ragione l’architetto Massimiliano Fuksas: l’unica via di fuga è riconoscere la sconfitta e demolire.
Il Corviale a Roma
Il Corviale si trova nella periferia sud-ovest di Roma, a due chilometri dal Raccordo anulare. Anche detto dai romani “Serpentone” è composto da due palazzi uno di fronte all’altro che si snodano per quasi un chilometro: ben 980 metri di cemento per 9 piani di altezza, a cui si aggiunge un edificio più piccolo raggiungibile con un ponte.
Il progetto viene affidato dallo Iacp a un team di architetti guidati dall’architetto Mario Fiorentino nel 1972, la costruzione inizia nel 1975.
Il Serpentone è costruito in acciaio, pannelli di cemento armato e pareti vetrate: composto da 6 lotti con 1200 abitazioni, è abitato da 6mila persone. Il progetto si ispira a quello realizzato da Le Corbusier a Marsiglia per l’Unità d’abitazione: doveva essere, dunque, un edificio destinato ad essere abitato da migliaia di persone, doveva essere autonomo, ed essere un quartiere in grado di offrire servizi all’intera collettività che lo abita.
Ai 1200 appartamenti ufficiali negli anni ’80 si sono aggiunti una serie di monolocali sorti abusivamente nel quarto piano: era il piano destinato ai servizi, ai negozi, alle aree comuni.
Corviale è oggi privo dei servizi previsti.
Decenni di incuria e di abbandono hanno contribuito a un avanzato degrado fisico dell’edificio. Il punto di inizio del declino di quel palazzo è identificabile con l’occupazione del quarto piano: a dicembre del 1982 ben 700 famiglie occuparono tutte insieme le aree destinate ai servizi e il quarto piano non è più stato riconsegnato allo Stato. In quel piano si concentra la microcriminalità e il deterioramento strutturale del palazzo perché non rientra in nessun progetto di manutenzione.
Nel 2009 un progetto di recupero denominato “Kilometro Verde” ha vinto un concorso di idee… adesso si aspettano i lavori.
Le Vele di Scampia
Costruite tra il 1962 e il 1975, le Vele di Scampia erano un insieme di sette palazzi dalla tipica forma a vela (triangolare) nel quartiere periferico napoletano omonimo.
Il progetto originale delle Vele è dell’architetto Franz Di Salvo, e rientrava in un ampio Piano di sviluppo della città di Napoli. Il progettista non era nuovo alla realizzazione di edilizia popolare già affrontata nel 1945 con la costruzione del Rione Cesare Battisti a Poggioreale (Na). Le Vele, commissionate dalla Cassa del Mezzogiorno, dovevano rappresentare il più grande complesso di edilizia economica e popolare del Sud.
Il progetto aveva l’idea nobile di creare un quartiere dove le famiglie avrebbero potuto integrarsi e creare una comunità: doveva essere un luogo di aggregazione e condivisione, collegata alla città da grandi vie di scorrimento e dotata di ampie aree verdi. In realtà l’abuso edilizio e la difficoltà di controllo da parte dello Stato, hanno reso questo quartiere un vero ghetto nelle mani di criminalità organizzata. Oggi lo stato di degrado sembra irrecuperabile.
Oggi le Vele versano in uno stato tale di degrado che l’unico modo per risolvere i problemi di spaccio di droga, di delinquenza singola e organizzata che si mescola con le tante famiglie alla ricerca vana di una collocazione nella società, sembra essere rimasto quello di abbatterle.
Le Vele erano sette: tre sono state abbattute tra il 1997 e il 2003. La prima a cadere fu la Vela allora denominata F, demolita nel 1998. La seconda ad essere demolita fu la Vela G nel 2000, mentre la Vela H è stata abbattuta nel 2003, anche se inizialmente si pensava di poterla riqualificare.
Restano ad oggi in piedi 4 edifici: tre verranno demoliti e uno solo resterà in vita e verrà riqualificato. Una delibera del Comune ha richiesto allo Stato, e ha ottenuto, lo stanziamento di 18 milioni di euro per procedere con questo intervento. Le opere di demolizione di questi tre edifici rientrano nel Patto per Napoli (308 milioni di euro che lo Stato ha stanziato per alcuni progetti di rigenerazione urbana nella città di Napoli).
Ecco cosa hanno in comune i nostri ecomostri
Dovevano rappresentare lo sviluppo urbanistico, la soluzione ai problemi abitativi, ma hanno incontrato la corruzione, i materiali edili scadenti, l’abusivismo, anni di incuria e abbandono dalle istituzioni. Il malaffare ha proliferato tra migliaia di famiglie oneste e tenaci che lottano tutti i giorni per restare nel loro quartiere senza perdere la dignità.
Sono stati piani di investimento enormi per la finanza pubblica di allora, ma non hanno avuto piani di gestione e manutenzione a lungo termine e oggi sono le cattedrali del fallimento delle intenzioni.