Nei precedenti dialoghi abbiamo chiarito che si parla di complessità quando si parla di etica e viceversa. E abbiamo convenuto che si può parlare di etica – intesa come ‘buon vivere’ e non come norme morali – solo se si presuppone l’esistenza di identità relazionali e non di identificazioni conflittuali. Che ne pensi di chiarire meglio questa differenza tra identità relazionale e identificazioni conflittuali?
Certo. C’è una grande differenza tra queste due forme organizzative che attraggono persone per il perseguimento di una finalità. Questa differenza nasce da due diversi presupposti all’azione perché si fondano su due schemi mentali estremamente differenti. Quando parliamo di identità relazionale, stiamo pensando a un'identità organizzata che si forma attraverso un processo emergente; due o più persone sono tra di loro connessi in una relazione attiva e generativa tra di loro e con ciò che le circonda. L’ambiente, e più in particolare le varie situazioni in cui le persone agiscono, non è qualcosa che ci è dato e a cui occorre necessariamente adattarsi; è piuttosto uno spazio aperto di possibilità di incontro con l'altro, con le altre persone, con le diverse organizzazioni a cui partecipiamo quotidianamente, come la coppia, la famiglia, l’azienda, la nostra squadra, il nostro gruppo di amici.
È vero che per poter vivere siamo tutti in relazione con l'ambiente che ci circonda, che ci piaccia o no, che lo si voglia o meno, e che ognuno di noi è in qualche modo coinvolto in numerose organizzazioni contemporaneamente. Ma è anche vero che spesso ne manca la consapevolezza, e anche l’accettazione. Essere consapevoli della trama che ci unisce e accettarla comporta un atteggiamento umile, rispettoso delle relazioni che ci connettono, aperto all'essere in contatto con ciò che ci circonda e, infine, disponibile ad apprendere da ciò che non è uguale a noi e a cambiare, lasciando che così possa emergere una nuova identità. E non mi sembra che questo avvenga così facilmente per noi uomini...
È evidente che, quando ci riferiamo a identità che emergono dall'essere in relazione con il proprio ambiente, siamo pienamente all'interno del paradigma della complessità. L'essere consapevoli delle relazioni che ci uniscono e accettarle con umiltà consente l'emergere di nuove possibili identità relazionali: nuove forme di condivisione di valori, di saperi, di emozioni, tra più identità che si uniscono formandone una nuova, di livello gerarchico superiore rispetto a quelle che vi aderiscono.
Mi sembra che qui la cosa si faccia più impegnativa! Mi spieghi cosa significa esattamente ‘di livello gerarchico superiore’? Fa pensare a qualcosa che governa qualcos'altro, a ordini impartiti dall’alto... non credo che tu voglia dire una cosa del genere, o mi sbaglio?
Infatti. Quando nella teoria della complessità si parla di ‘ordine gerarchico superiore’ non si sta facendo riferimento allo schema classico della gerarchia fondato sul presupposto del comando-controllo, dove chi sta sopra comanda i livelli inferiori e questi devono obbedire; in quest'ultimo caso, lo schema gerarchico è consono alla teoria classica meccanicista, in cui macchine e uomini funzionano allo stesso modo, con comandi, ordini e compiti ben specificati da eseguire.
Quando si parla di ordine gerarchico nella teoria della complessità, si abbraccia una visione di reti di relazioni che si interconnettono le une con le altre. Vi sono reti dentro altre reti, in un processo che pare proprio senza fine... Cambia solo il grado di osservazione: è come se usassimo lenti diverse che consentono di vedere dettagli diversi di relazioni, ed è il grado di osservazione che determina il livello gerarchico.
Provo a farti un esempio tratto dalla biologia: una cellula del nostro corpo è un'identità – è l'identità da cui è partito lo studio sull'autopoiesi di Maturana e Varela, così importante per la scienza della complessità – ed è possibile definirla come tale proprio separandola dall'ambiente in cui è inserita e verificandone la diversità da questo. Eppure, essa stessa è formata ed è generata da una rete di relazioni. Non solo. Pur essendo un'identità separata, partecipa con altre cellule - tramite le relazioni che interconnettono le une alle altre - a far emergere un'identità di ordine gerarchico superiore: l'organo cui pertiene, per esempio, il fegato. Anche il fegato è un'identità, separabile dall'ambiente in cui è inserito e diverso da questo, eppure, oltre ad essere formato da una rete di relazioni tra cellule, è a sua volta all'interno di una rete di relazioni di ordine superiore: il corpo. E così il corpo, oltre ad essere formato da una rete di relazioni tra organi, apparati, ecc., è a sua volta inserito in una rete più grande, in questo caso di relazioni sociali: la famiglia, poi via via fino allo Stato, alle corporazioni tra Stati, al mondo, all'universo...
Come vedi, cambia la scala di osservazione, eppure si tratta sempre di reti di connessioni all'interno di reti di connessioni, dove tutto è unito, tutto è in relazione… La cosa che rende distinguibili, riconoscibili e dotati di autonomia i singoli ordini è il possedere delle proprietà specifiche che regolano il proprio funzionamento. In altri termini, le caratteristiche di funzionamento della cellula sono diverse dalle caratteristiche di funzionamento dell’organo fegato; ogni livello assorbe le proprietà di funzionamento dei sistemi di ordine inferiore, le fa proprie e ne assume di nuove. Questo consente ai sistemi di ordine inferiore di mantenersi attivi e al contempo di prendere parte in modo creativo alla generazione di un sistema complesso di ordine superiore.
Dunque, mi stai dicendo che le identità di ordine gerarchico inferiore che entrano a far parte di un'altra identità di ordine superiore non spariscono all'interno dell'identità superiore cui partecipano?
Assolutamente così! Certo si possono verificare anche delle situazioni in cui non è più possibile riconoscere tutti gli elementi che hanno generato un sistema di ordine superiore. Resta il fatto che non spariscono e semmai si trasformano a vantaggio della emergenza di un nuovo sistema di ordine superiore. Ecco perché non spariscono ma partecipano attivamente a far emergere nuove identità complesse apportando la propria specificità, la propria diversità. Nascono nuovi sistemi con nuove qualità.
Direi che è piuttosto un problema di consapevolezza che non ci consente di percepire – almeno emotivamente – come ogni identità emerga dalla relazione tra identità di ordine inferiore e come a sua volta sia partecipe nel far emergere identità di ordine superiore. Se acquisissimo questa consapevolezza, anche i nostri comportamenti sarebbero ‘naturalmente’ etici, perché ci renderemmo conto di che grande responsabilità abbiamo per ogni piccola azione che compiamo...
Ecco il know-how per l'etica che sorge spontaneamente, nel momento in cui siamo consapevoli di essere parte della complessità e di come la generiamo in ogni scelta che compiamo. Forse, ci muoveremmo molto più in punta di piedi...
E l'identificazione conflittuale? Come si forma?
L'identificazione conflittuale scaturisce da un paradigma diverso di tipo separativo incentrato, anziché sulle relazioni, sulle parti che compongono le relazioni. È il paradigma classico, che fa parte della cultura tipicamente occidentale, su cui è fondata la scienza tradizionale così come formulata da Cartesio in poi. È l'approccio scientifico meccanicista o riduzionista in cui regna l'ordine e in cui l'organizzazione è di tipo gerarchico, fondata sul principio del dominio e del controllo.
In questo tipo di approccio, ciò che rileva sono le singole parti nella loro specificità e individualità; le relazioni tra le parti sono relazioni funzionali di controllo e di dominio. Il risultato delle interazioni che avvengono tra le parti è considerato prevedibile e, quindi, obiettivamente quantificabile e controllabile. L'intero processo, generato dalle relazioni, è anch'esso predeterminato e sotto controllo; nulla è lasciato al caso, tutto è in equilibrio perfetto.
È evidente che le convinzioni che sottendono a questo tipo di paradigma sono di tipo separativo: non vi è relazione tra le parti se non di dominio e di controllo, e, quindi, ciò che rileva nelle relazioni è il potere acquisito nel dominare l'ambiente e le organizzazioni in cui si opera: dal controllo sulla natura, al controllo e al dominio nelle relazioni di coppia e familiari, al controllo nell'azienda, al controllo e al dominio nelle relazioni internazionali, e così via, senza mai fermarsi...
Ciò in cui è possibile riconoscersi, in questo tipo di paradigma, è nell'essere parte separata da altre parti; è una sorta di destino comune cui non ci si può - o non si vuole - sottrarsi che ci rende omogenei l'uno all'altro. Se 'siamo sulla stessa barca', se possiamo coalizzarci contro un nemico comune da sconfiggere, allora 'siamo dalla stessa parte'. È un paradigma necessariamente di tipo separativo, basato su relazioni di dominio a loro volta fondate sul conflitto, ed è per questo motivo che preferiamo parlare di identificazione, piuttosto che di identità. Nell'identità vi sono relazioni generative, mentre nell'identificazione non si genera niente, la parte si rafforza ancor più come parte separata dalle altre...
Anche i termini a cui comunemente facciamo riferimento nelle nostre relazioni sociali hanno echi conflittuali: parliamo di alleati, di nemici, di schieramenti, di coalizioni... tutti aspetti poco fraterni, che sottolineano la separazione di chi è contro da chi è d'accordo, di chi sta da una parte e di chi sta dall'altra.
L'identificazione che abbiamo definito conflittuale si determina proprio nel trovare il nemico da combattere, e se questo dovesse alla fine sparire, o soccombere, ne sorgerebbe presto un altro contro cui battersi uniti... secondo uno schema che ormai conosciamo tutti fin troppo bene! Come vedi, siamo ben lontani da una condivisione di valori basati sul bene comune...
Quindi secondo noi si può parlare di etica solo se si parla di identità relazionale?
Sì, sono due concetti l’uno interrelato all’altro proprio per il principio della complessità, e si rafforzano l’un l’altro secondo lo schema classico dell’auto-rinforzo: più ho un’identità relazionale, più applico i principi etici; e più applico i principi etici, più rafforzo l’identità relazionale… È un circuito virtuoso!