Se tutto ciò che abbiamo affermato nei precedenti dialoghi è vero, come mai molti per un verso affermano che le organizzazioni si basano sulle relazioni e per l’altro non affrontano in nessun modo le tematiche connesse alla complessità? E come mai non si affronta il tema dell'identità aziendale come identità relazionale?
Io penso che ci sia un vero e proprio blocco al cambiamento di modello interpretativo delle dinamiche relazionali. La resistenza nasce dal fatto che l'analisi organizzativa continua a concentrarsi su una visione ‘lineare’ della singola relazione e non sulla ‘dinamica complessa’ del sistema di relazioni che configurano e caratterizzano nel tempo e nello spazio l'universo dei comportamenti organizzativi.
Ma qual è precisamente la differenza tra dinamica ‘lineare’ e dinamica ‘non lineare’ delle relazioni? Perché mi sembra che la differenza tra visione complessa e non complessa stia proprio lì...
Eh sì, direi che questo è uno dei punti fondamentali per poter passare da un'analisi separativa a un'altra di tipo complesso. Potrei farti un esempio, che è ormai divenuto un classico, fatto da uno dei padri fondatori dell'approccio cibernetico, Gregory Bateson, da cui è nata poi anche la teoria della complessità; l'esempio è stato ripreso da Paul Watzlawick, per spiegare il concetto di interazione tra individuo e ambiente:
Se il piede di un uomo che sta camminando colpisce un sasso l'energia viene trasferita dal piede al sasso. Il sasso verrà messo in movimento e spostato finché non si fermerà in una posizione che è determinata esclusivamente da fattori come la quantità di energia trasmessa, la forma e il peso del sasso, la natura della superficie su cui è rotolato. Se l'uomo dà un calcio a un cane anziché a un sasso, il cane può saltare su a morderlo. In questo caso il rapporto tra il calcio e il morso è assai diverso.
Ecco la differenza tra approccio lineare e approccio non lineare; in un caso, la reazione del sasso è determinabile, basta conoscere le variabili in gioco, e quindi è prevedibile. Nel secondo caso, la reazione del cane non è più determinabile a priori, poiché anch'esso è un essere vivente, e come tale non solo reagisce – come farebbe anche il sasso – all'energia ricevuta, ma comunica a proprio modo con l'uomo che gli ha dato il calcio. Non solo: la comunicazione del cane influenza certamente anche l'uomo - nel bene o nel male! - modificandone a sua volta il comportamento. È quello che, in cibernetica, è stato chiamato il feedback loop, o, in italiano, anello di retroazione. Ecco che la separazione tra comportamento dell'uomo e comportamento del cane non è più possibile, mentre occorre spostarsi a una visione di interazione dinamica tra l'uno e l'altro. Ciò è naturalmente valido non solo tra due persone, ma ancor più nell'interazione tra gruppi di persone.
Dunque, se ho capito bene, avere quale frame il paradigma della complessità è per noi il presupposto fondamentale a qualunque discussione in tema di identità e quindi di etica. Ne consegue che affrontare le tematiche organizzative con un approccio relazionale è necessario ma non sufficiente; l'analisi organizzativa deve mirare allo studio e alla comprensione dei risultati di processo via via connessi allo svolgersi temporale e spaziale della dinamica delle relazioni, ossia allo studio e alla comprensione del funzionamento dei sistemi dinamici complessi.
Pertanto, quando nelle organizzazioni si predilige un approccio all'analisi dei comportamenti organizzativi per la gestione delle risorse umane centrato sull'individuo, sulla sua specificità e sulla sua diversità, ciò comporta che si indirizzi l'attenzione alla dinamica della persona, alle sue potenzialità ancorché inserite in un contesto organizzativo, senza però porre la giusta attenzione a una visione della dinamica delle relazioni e alla sua qualità.
L'incentivazione del potenziale, del talento e delle competenze personali, il cosiddetto empowerment - pur essendo ovviamente una fondamentale attività di sostegno allo sviluppo della persona nelle sue attività di lavoro - risponde in tal caso all'idea assai diffusa che l'efficacia e l'efficienza dell'organizzazione aziendale siano figlie del perseguimento del successo dell'individuo e non delle relazioni organizzative a cui egli partecipa incessantemente.
Se, invece, l'organizzazione sposta il suo focus dalla dinamica dell’individuo alla dinamica delle relazioni - all'interno, per esempio, della relazione tra due persone, oppure in un team, in un gruppo, o in un'azienda in generale - si passa, di necessità, a un approccio di dinamica e di manifestazione di rete, cioè al paradigma della complessità; ed è così possibile discutere del tema dell’identità nelle organizzazioni in modo diverso. In altri termini, quando noi parliamo di organizzazioni il nostro presupposto è che le organizzazioni siano sistemi caratterizzati dalle proprietà del paradigma della complessità: siano cioè ‘organizzazioni complesse’. È così?
Sì, in questo caso è possibile parlare di identità relazionale nell'organizzazione complessa; altrimenti, focalizzando l'attenzione sul singolo individuo e sulle capacità e competenze personali, si potrebbe parlare di individualità, che è tutto un altro concetto.
Se, dunque, come per lo più accade, il sistema di convinzioni che permea l'organizzazione e ne origina i comportamenti – individuali e di gruppo – aderisce e fa riferimento ai principi di funzionamento del paradigma meccanicistico, fondato come noto sul principio-base della separazione tra gli individui, risulta evidente che il concetto di identità assume un significato avulso dalla dinamica della realtà, non tenendosi in alcun conto il sistema delle interrelazioni che per definizione è origine e manifestazione della vita organizzativa.
L'identità in questo caso non è un evento che emerge dalla rete di relazioni dell’organizzazione. Le competenze personali vengono poste a disposizione dell’organizzazione, un costrutto che assume una esistenza di per sé, separata dall’individuo. La centratura sulla persona è un fattore strategico distintivo nel rappresentare le diversità e i potenziali delle risorse umane esprimendo il carattere unico e competitivo dell’organizzazione. Questo approccio ‘individualista’ alla gestione delle risorse umane è però poco efficacia nel perseguimento di obiettivi valoriali che spesso vengano definiti sulla carta dall'alta direzione e restano confinati al mondo delle belle parole.
Infatti, se nell'organizzazione rimangono diffuse le 'convinzioni separative', si possono scrivere, comunicare e far sottoscrivere la carta dei valori, il codice etico, il bilancio sociale... così come fare percorsi formativi anche importanti, come quelli di team building, ma nulla cambia nei comportamenti organizzativi e nella qualità delle relazioni tra le persone, che continuano a sentirsi separate l'una dall'altra se non, addirittura, una in competizione con l’altra. Sì, quando finiscono queste attività di formazione sono tutti contenti… il giorno dopo! E poi ritorna tutto come prima e peggio di prima.
A me sembra che il discorso fatto finora ruoti attorno a uno snodo centrale, come un pivot, un volano cui fare riferimento per operare in organizzazioni complesse: le convinzioni prevalenti operanti all'interno delle organizzazioni stesse. Perciò è importante parlare di etica della complessità: l’etica, rispetto alla complessità, è andare a verificare le convinzioni, gli schemi mentali che operano all'interno delle organizzazioni e agevolarne l'allineamento con i valori più alti per la persona e per le organizzazioni.
Quindi, riepilogando: tu dici che, se vogliamo parlare di identità, dobbiamo avere quale presupposto la teoria della complessità; ma, se vogliamo utilizzare la teoria della complessità, c’è ancora un altro presupposto: che è necessario, prima di parlare di teoria della complessità, fare una verifica di quello che è il sistema di convinzioni prevalente all’interno dell’azienda. Allora, ciò che si deve fare all’interno dell’azienda è lavorare sulle convinzioni prevalenti.
Certo, e così si chiude in qualche modo il cerchio! Siamo, infatti, partiti distinguendo tra etica intesa come know-how, appartenente all'identità dell'essere – individuo od organizzazione – ed etica intesa come know-what, ossia l'etica delle norme e dei comportamenti individuali e sociali corretti. Siamo poi arrivati a parlare di identità che emerge dall'allineamento dei valori più elevati e dalla condivisione di significati personali, ossia di condivisione dei propri saperi personali, incarnati in ciascuno di noi. Ciò comporta necessariamente - per poter apprendere e condividere - l'entrare in relazione con l'altro e accettarne la diversità; e, ovviamente, siamo arrivati a parlare di organizzazioni come reti complesse di relazioni, o, meglio, di inter-relazioni... ossia, di scienza della complessità. Infine, siamo tornati a parlare delle convinzioni prevalenti che operano all'interno della persona e, più in generale, all'interno delle organizzazioni, che influiscono sulla consapevolezza delle relazioni esistenti e sull'accettazione delle stesse. Ossia, siamo tornati a parlare di etica...
Ecco, quindi, che etica e complessità sono inscindibili, se per etica ci riferiamo al know-how; ecco anche perché non ha poi così importanza che le norme etiche e l’identità si formino dall’alto verso il basso o viceversa; quel che occorre è che contemporaneamente, su tutti i livelli, vi sia un cambio di paradigma. Certamente non può essere la carta dei valori e il codice etico che il dipendente firma quando viene assunto a rendere etica l'azienda! In questi casi, l'etica potrebbe dimostrarsi solo una moda, se non addirittura un modo dell'azienda per tutelarsi da comportamenti scorretti del singolo dipendente...
È un problema di consapevolezza di quali siano gli schemi mentali che operano nell’organizzazione; è importante comprendere quali siano le convinzioni profonde che stanno agendo all’interno dell’organizzazione nelle relazioni tra le persone che a vario titolo vi prendono parte, facendo così emergere l’organizzazione come un sistema integrato di valori, oppure lasciando che essa rimanga un aggregato di identificazioni separate le une dalle altre, che sfociano necessariamente nel conflitto. E perché questo avvenga è gioco forza che ognuno sia abile nel riconoscere i propri schemi mentali, le proprie convinzioni, quelle che gli dettano un ‘sì’ o un ‘no’ quando si agisce.