Il vero amore e la preghiera si apprendono nell’ora in cui l’amore diviene impossibile e il cuore si fa di pietra.
(Thomas Merton)
Viviamo immersi in un mondo che anela e invita al soddisfacimento pieno e ripetuto di bisogni che figliano, si moltiplicano, si autoalimentano in continuazione, senza mai offrirci un senso di appagamento, ingigantendo il nostro attaccamento ai desideri e la nostra compulsione alla loro illusoria soddisfazione. La soddisfazione è illusoria, come lo è il senso di realtà che ne deriva, sempre distorto dalle emozioni e dalle sensazioni del momento che turbano i nostri pensieri, rendendo torbide le acque della nostra consapevolezza.
Rabbia, desiderio, dubbio, indolenza, irrequietezza sono stati d’animo che abitano le nostre giornate, governandole in un andirivieni di sensazioni ora appaganti ora frustranti, che ostacolano la strada verso la liberazione. C’è chi ci convive, con adattamenti più o meno funzionali al proprio senso di equilibrio e questa è una via. In un certo senso mi vien da dire che questa è la via Maestra, quella con un maggior numero di segnaletica e di illuminazione stradale, con tanto di autogrill del desiderio, piazzole per l’avversione, svincoli di torpore, parcheggi per il dubbio e rampe per l’irrequietezza. Ah, ma da qualche parte, fidatevi, c’è pure il Fast Food delle emozioni frugali, per rimpinzarci di surrogati e scrollarci di dosso il vuoto che ci abita dietro l’ombelico e che si espande dentro di noi, come la nebbia scura, il Nulla de La storia infinita.
Eppure, c’è anche un altro Sentiero. Meno battuto e pure sconnesso, poco invitante di primo acchito, tortuoso, si inerpica nei boschi, a tratti sembra sparire nella macchia per poi riproporsi a distanza di giorni di cammino, quando meno ce lo aspettiamo e spesso quando abbiamo lasciato andare la pretesa di trovarlo: è il sentiero che conduce alla saggezza del cuore.
Lungo il suo sinuoso percorso capita a volte di incontrare qualche pellegrino, talvolta per il tempo di un breve cenno con il capo, altre per fare un tratto di strada assieme o per riposarsi un po’, seduti sulla stessa pietra assolata. L’imbocco di questo sentiero è fatto di frustrazione, (non che la si perda di vista durante il cammino, eh) di abbandono, ma soprattutto di impegno e di una meta che ci si propone di raggiungere e che ha a che fare con la liberazione dalla sofferenza alimentata dall’attaccamento in un mondo in continuo incessante cambiamento.
L’impegno, o retto sforzo, è quello che dedichiamo a coltivarci, coltivando il cammino della nostra crescita interiore. Si tratta ancora una volta di una pratica che mi piace pensare prenda in prestito le risorse del mondo contadino, nel quale si è abituati a lavorare sodo, senza alcuna garanzia riguardo al raccolto che dipenderà da favorevoli cause e condizioni, dispensando una grande cura anche nei piccoli gesti, senza lesinare gli sforzi, ma anche avendo la capacità di godere del riposo e dell’intensa gioia che questo offre, magari sedendosi sotto un albero frondoso a meditare, lasciare andare i pensieri, sentendosi parte di tutto ciò che ci circonda.
L’impegno potremmo anche intenderlo come la giusta dose di energia che serve a sostenerci lungo il cammino e a far fronte alle inevitabili prove che incontreremo. È ciò che produce il retto sforzo, capace di condurre la nostra mente verso una meta. La meta è il ‘verso dove andiamo’, la Terra che sogniamo di raggiungere e che colora e sostiene la nostra motivazione a liberarci dal ciclico infinito riproporsi di sofferenza in cui abita una mente che non riesce a vedere l’intima natura delle cose e che, quindi, vive di miraggi, allucinazioni, paure.
Se lo sforzo è sufficiente e la meta corretta, accresceremo la nostra presenza mentale e la nostra concentrazione, così da affinare una capacità di comprensione più approfondita e libera dai turbamenti delle illusioni. In questo sentiero di scoperta della saggezza del cuore, la meditazione è lo strumento di indagine per eccellenza, a patto che la ricerca sia alimentata da vivo interesse per la scoperta di ciò che è vero, con delicatezza, grazia e leggerezza. Se, al contrario, iniziamo a praticare la meditazione accompagnati da senso del dovere, la mente diventa ribelle e arcigna e sviluppa ancora di più gli impedimenti che vogliamo imparare a riconoscere e a lasciare andare, affidandoci alla saggezza del respiro.
La curiosità sostiene la nostra disponibilità a conoscere, a incontrare noi stessi e l’altro spogliandoci del giudizio e abitando un vivo e sincero interesse, ed è l’antidoto naturale della noia che è parente stessa dell’avversione. La delicatezza, la grazia e la leggerezza ci aiutano a muoverci con il dovuto rispetto e la necessaria sensibilità, nei meandri spesso dolorosi della nostra mente, specie quando questa si attiva in mille direzioni pur di farci desistere dall’intento di conoscerci al di là delle illusioni, con chiara e pacificata visione di noi stessi e degli altri.
Prendendo in prestito una metafora che trovo molto efficace, potremmo dire che la nostra vera natura somiglia a uno stagno e che la meditazione è la nostra capacità di vedere in profondità. Nel quotidiano la chiara visione delle acque è resa impossibile da tutta una serie di impedimenti nei quali viviamo immersi, che ci rendono schiavi delle illusioni che minano la nostra capacità di aprirci al Mistero della Vita e di attribuire un significato alla nostra esistenza. Per cui capita che il piacere dei sensi confonda le acque colorandole, facendoci abitare nel regno dell’illusione piuttosto che in quello della chiara visione.
La rabbia e tutti gli stati d’animo legati all’avversione, come lo sono anche la paura e la noia per fare un esempio, somigliano a soffioni bollenti che scuotono il fondo dello stagno e arrivano in superficie, mentre l’irrequietezza è come un vento forte che increspa la superficie dello stagno. La pigrizia riempie le acque di alghe e il dubbio le rende torbide con uno spesso strato di melma. Qualsiasi sia l’impedimento che ci ‘sequestra’, il risultato sarà una mistificazione delle acque e la nostra impossibilità a vederne chiaramente il fondo. Saremo, quindi, preda di distorsioni che in ogni caso ci condurranno per mano in direzione di frustrazioni, cocenti disillusioni, senso di isolamento, amarezza, rabbia e in genere sofferenza.
Uscirne si può, dicevo, e richiede una buona dose di coraggio, oltre che un retto sforzo e una meta chiara. Ci vuole coraggio a vedersi, al di là delle illusioni e del senso di noi che abbiamo costruito negli anni, il più delle volte proprio per farci forza, per sostenere l’insostenibile pesantezza del nostro vuoto, delle parti più disperate di noi. Ci vuole coraggio per riuscire a guardare in fondo allo stagno, vedere le parti di luce come quelle di ombra, accogliendole con equanimità. Ci vuole coraggio per immergersi pienamente in quelle acque, riappropriarsi di ogni sponda senza delegare alcunché ad altri. Perché gli altri, sia chiaro, siamo noi.
È ancora il coraggio che ci sostiene nel sostare nei muti vortici di tristezza, nel conoscere da vicino la nostra rabbia, nel familiarizzare con il senso di vuoto che a volte sembra volersi inghiottire tutto l’esistente, quasi fossimo delle moderne Alice nel Paese delle Meraviglie destinate a cadere in quel buco senza conoscerne mai il fondo. La cosa straordinaria è che a un certo punto del cammino mi sembra di poter dire che non ci vuole proprio niente e che l’abbandono, la resa incondizionata, l’offerta piena di sé alla Vita e al suo saggio fluire, siano le uniche risposte di senso che affiorano. Per fare questo, credo sia necessario conoscere il fondo.
È necessario toccarlo, il fondo, abitarlo, accucciarlo e quando sembra non sia abbastanza fondo, starci ancora un po’, scavarlo con le mani, con i denti, andare alla radice, al fittone che giù, scende ancora più giù, nel cuore buio della Terra e della nostra Ombra. Bisogna farsi radice, o seme, o polvere. Sentirsi Terra, tornare Terra, respirare Terra, masticarla, e aspettare con fiducia l’acqua che nutre, che amalgama e mette insieme. Diventare fango, impasto, potenziale di forme, creta che si fa materia, concreta appunto, e poi sole che feconda il seme, fissa, stabilizza, cuoce, compatta, incarna in una forma. E ancora, tappezzarsi di nuova linfa, sgorgarci dentro, sentirsi erba e poi a volte fiore, tenero germoglietto, ramo, fruscìo di foglia, seme che esplode miracolosamente in vita. Perché sì, il vero amore e la preghiera si apprendono nell’ora in cui l’amore diviene impossibile e il cuore si fa di pietra.
È un dischiudersi alla Fede, un lancio senza paracadute per scoprire che infondo sappiamo volare, da sempre ma lo abbiamo scordato.