Quest'anno è arrivato nella mia cucina un cappone ruspante, allevato come natura comanda. A un primo sguardo distratto ho pensato che la pentola grande potesse contenerlo. Mi sono sbagliata. Lo desideravo intero perché volevo realizzare ciò che a mia mamma riusciva facilmente: farcirlo. Ma tutto quello che mia mamma in cucina faceva facilmente a me inevitabilmente si complica. Ormai dovrei averlo compreso, ma ancora non mi conosco perché "io, siamo molte persone" e con la vecchiaia alcune di queste donne che condividono un corpo solo, il mio, non le riconosco più.
Non solo mia mamma, ma anche mia sorella Antonietta e mia cognata Patrizia hanno il dono dell'arte culinaria. Da anni chiedo loro ricette solo per il piacere di sentirle descrivere. Mi sono letta e riletta l'Artusi. Libro geniale. Se l'istruzione ricevuta a scuola non fosse pericolosa, potrebbe essere un testo scolastico. Nella libreria dove risiedono i libri che consulto maggiormente, quattro ripiani sono carichi di libri di cucina. E quando dico carichi, intendo quel che anche ora sto vedendo: occupano tutto lo spazio e dove è possibile sono sovrapposti, inclinati, sporgenti. Sembrano pieni di vita e anche dispettosi. Si nascondono. Li guardo e penso che dalla quantità, non certo per l'ordine, potrei aprire una libreria: dalla macrobiotica alle ricette vegetariane, vegane, dalla cucina cinese o giapponese a quella delle nostre regioni. Ci sono poi i testi delle diete dimagranti di ogni ordine e grado e dei cibi che guariscono il diabete B, il mio, che abbassano pressione, colesterolo e innalzano le difese immunitarie. E ora, che l'artrosi mi sta distruggendo, consulto Guarire l'artrosi con il cibo. Non solo. Nel Venerdì de La Repubblica vado subito a pagina 68 dove regolarmente viene pubblicato l'articolo sui ristoranti dove si mangia e si beve particolarmente bene.
Leggo e ascolto attentamente, prendo perfino appunti, ma mi è estremamente complicato poi, realizzare le ricette e continuare le diete. Perché del cibo io ho paura. Tra me e il cibo circola una strana diffidenza. Non ci fidiamo reciprocamente. Il cibo mi nasconde la sua scadenza, a volte fa un lifting che pare giovane e fresco ma è solo apparenza, spesso contiene zuccheri e grassi nascosti.
Se i cibi che acquisto nei mercatini bio a chilometro zero e a NaturaSì potessero parlare direbbero che sono capitati a casa di una donna strana. Direbbero che vengono tutti da ottima famiglia e nonostante ciò, spesso e volentieri, questa padrona di casa, non gli fa mai concludere il loro ciclo naturale. Apre vasetti di tonno di origine controllata, di quelli non di allevamento, ma neanche divoratori di plastica d'altura, controlla il colore, ne sente l'odore e ne sente un minimo pezzetto poi sputa e getta la polpa nell'umido della differenziata e il vasetto pare le servirà per gli acquarelli. Ci sono poi i vasetti di marmellata di mirtilli bio, merce rara e ricca di virtù benefiche. Se, quando li apre, nota che la composta non ha la consistenza, per lei, giusta, ma è leggermente liquida, li getta. Non rispetta le scadenze, soprattutto nelle uova, quelle che nascono da galline che ancora scorrazzano nell'aia. Anche quelle finiscono prima del tempo, "nell'umido". Per non parlare poi della frutta e della verdura: taglia, spezzetta, scarta. È per tutti loro una vera sofferenza.
Proprio questa mattina, su un quotidiano, c'erano due paginoni sulla cucina degli scarti. È più abbondante quello che butto rispetto a ciò che rimane. Come ecologista e ambientalista accanita faccio proprio schifo. Per fortuna c'è l'Ida che applica le regole scientificamente più avanzate della sostenibilità per cui nulla va buttato: le eccedenze vanno tutte riciclate. Anche le mie. Se le prende e le porta a casa sua, in campagna.
Tra i cibi - tra poco anche la scienza dimostrerà che hanno un'anima, la loro intelligenza è già stata individuata - deve essersi sparsa la voce che eccedo negli scarti perché quando entro a NaturaSì avverto una specie di ritirata, non trovo più quello che cerco e, dopo aver chiesto indicazioni alla commessa, arrivo nel reparto precedentemente individuato, vasetti di tonno, di alici, di marmellata, di salse miste, sacchetti di pasta, frutta secca, semi, latte di soia, di riso, di avena, si ritraggono tutti in ultima fila, protetti al mio sguardo da alimenti sicuri di non essere acquistati.
Ritorno al cappone e alla mattina di Natale. Sì, non preparo niente giorni prima per mettere poi in frigorifero o addirittura nel congelatore. Non mi fido della famiglia dei surgelati o dei congelati. Nego la scienza e i cibi che tolgo dal congelatore finiscono quasi sempre nell'umido della differenziata. Così mi trovo la mattina della festa, per molti, la più bella dell'anno - per me quasi una sciagura - in crisi nera. Nella mia testa transitano pensieri oscuri e mi dico che il prossimo Natale vado in vacanza. Poi cambio subito idea perché in queste feste c'è moltissima gente in giro e la folla non la sopporto più. In stato completamente confusionale e di pessimo umore inizio a preparare il ripieno e tento d'infilarlo all'interno del cappone, ma qualcosa impedisce il passaggio. Mi viene un dubbio che di lì a poco diventa certezza: il macellaio non ha tolto le interiora. Mi viene un attacco di bile misto a disperazione. Ho già i guanti da chirurgo, chiudo gli occhi e compio l'ulteriore operazione. Butto nell'umido il ripieno contaminato e scaravento quel che rimane del cappone nella pentola.
Non ho preso le misure giuste, il cappone deborda dalla pentola. Mi catapulto dalla vicina di appartamento, ma anche lei non ha pentole "da ristorante". Tiro fuori il cappone dalla pentola, cavo il ripieno e inizio a sezionare, a togliere con colpi di coltello sconclusionati, collo, ali, cosce e divido il tutto in due pentole. Questa carneficina mi ha psicologicamente disturbata. Sono una vegetariana fragile, disposta spesso a cadere in tentazione, soprattutto di fronte alle canocchie e al pesce in generale che mangio solo al ristorante perché non riuscirei mai a cucinare canocchie vive. Sono il prototipo del controsenso. Con fatica e innervosita riesco a mettere a tavola figlie, coniuge e nipoti reduci dalla cena della vigilia. L'unico cibo veramente eccellente sono i cappelletti ripieni di carne con abbondante noce moscata ordinati per tempo alla signora della pasta fresca. Ma non finisce qui. Dopo Natale arriva velocemente il 31 dicembre, la vigilia del sacrificio.
Il san Pietro
Il san Pietro è un pesce raro e costoso. Marcella lo ordina una settimana prima alla Coop. Quest'anno, il 30 dicembre, sul mio tavolo in cucina, ne arriva un prototipo enorme. Lo guardo, penso che mia figlia abbia speso un capitale, che con quella cifra avremmo potuto tutti quanti festeggiare al ristorante e, infine, che molto probabilmente non riuscirò a cacciarlo nel frigorifero. Inoltre, quando lo avranno pescato? Perché non ne hanno fatto filetti? Lo cucino ora o aspetto domani quando l'Ida mi aiuterà? Un giorno e una notte in frigorifero è troppo tempo per un pesce? Intossico tutti i famigliari? Cado in apnea. Sì, il mio rapporto con il cibo è ammalato. E mentre lo guardo diventa una balena, un essere impossibile da governare. Libero un ripiano del frigorifero e tento di piegarlo a "barchetta", porto la freccia al massimo e, quindi, la temperatura crolla al minimo e richiudo pensando che forse si congelerà. Esco, prendo la bicicletta, faccio dodici giri nella pista rossa del parco che corrispondono a 10 chilometri abbondanti, poi vado da Ceccolini, prendo lasagne vegane, ritorno a casa e proibisco a Manlio e a Marcella di aprire il frigorifero.
E così, tra dubbi, paure, frigorifero blindato, arriva il 31 mattina. L'alba vede me e Ida - più Ida che me - alle prese con la balena: il san Pietro. In effetti, come la balena sta all'oceano così questo pesce sta allo spazio vario, spesso agitato, della mia cucina. Coltelli che tagliano poco e male si accingono a sezionare quest'altra creatura. Anche questa finisce divisa in due pentole. La casa tutta, viene avvolta da un odore nauseante, di pesce lesso. Aggiungo cipolla, sedano, carota, poi una piccola quantità di aceto e molto pepe. Apro le finestre. Niente, ma il lavoro continua. E di questo piatto che ho visto fare da mia mamma e che mia mamma ha imparato a realizzare da sua mamma e così via fino alla zarina di tutte le Russie, sebbene malamente, io continuo a tramandarne la memoria.
Rappresenta un concentrato di pazienza, di sapienza, di amore per chi si è seduto e si siede alla nostra tavola. E tutto questo con la collaborazione di Ida alla quale do indicazioni parlando al plurale "adesso facciamo". In realtà è Ida, sola, che inizia a lavare, tagliare e ridurre in quadratini regolari una quantità enorme di carote, di patate, di fagiolini, di rape rosse, per poi …