Ughetto e il vecchio Demetrio tornavano verso riva dopo una lunga mattinata di pesca. Avevano cominciato alle cinque del mattino perché Demetrio aveva quella fissazione di partire per primo in modo da non far vedere agli altri pescatori i suoi posti segreti. E infatti era andata bene: la barca era colma di orate e di paraghi, e inoltre sotto Cala Barroccia avevano tirato su molti polpi. Si era agli inizi di luglio e il sole era già caldo alle otto del mattino.
“Sono sbarcati altri soldati”, disse Demetrio sottovoce indicando il porto con un cenno della mano. Ughetto lasciò i remi e guardò il nereggiare delle figure in uniforme. I moschetti dettero un improvviso riverbero al sole, e Ughetto sentì un brivido di paura. Non lo diede a vedere e ricominciò a remare. Rimase pensoso per qualche tempo senza dire più niente. Il vecchio Demetrio ora aveva cominciato a disbrigare i fili degli ultimi bollentini. Muoveva le mani lentamente, ma riusciva a mettere in ordine tutti quei fili in poco tempo, sembrava che i nodi si aprissero da soli al contatto delle sue dita secche. Ughetto aspettò il momento in cui incontrò gli occhi del vecchio e chiese:
“E poi lo sciopero finirà presto, no, Demetrio? Sono già dieci giorni … E senti, Demetrio…”
“Che c’è?”
“Ma... chi vincerà”?
Il vecchio, cui non piaceva parlare, guardò il giovane al di là di quei remi più grossi di lui. “È una guerra, una guerra tra ricchi e poveri. Chi vuoi che vinca? Guarda un po’ in su!”.
I soldati erano allineati sul pontile, e così tutti vestiti uguali e immobili sembravano manichini metallici. Ughetto ebbe di nuovo un brivido, lasciò andare i remi e la barca sbandò. “Ma che fai, tonto!” - esclamò il vecchio stizzito, e andò lui ai remi, remando in piedi, come faceva sempre. Attraccò la barca nel solito posto. Alzando lo sguardo, Ughetto vide Giovanni che era venuto ad aspettarlo e ne fu contento. Giovanni li aiutò a scaricare le ceste dei pesci. Vennero subito dei compratori: al solito, Demetrio avrebbe venduto tutti i suoi pesci in pochi minuti, anche se oramai in paese c’era tanta miseria. Ughetto e Giovanni s’incamminarono verso il paese, era tanto tempo che non passeggiavano insieme, e ora n’erano entrambi contenti. Trovarono però la via bloccata da un capannello di persone radunate intorno a un grosso manifesto affisso al muro. C’era Sergino il Molle che tentava di leggere ad alta voce, ma ci vedeva poco, e gli altri non sapevano leggere.
“Ecco il giovincello segretario del partito! Giovanni in persona!”, disse uno del gruppo.
“Giovanni, leggilo tu, questo manifesto! È roba che viene anche dalla penna del tu’ babbo, ci metterei la mano sul fuoco!”
“Va bene, va bene!”, disse Giovanni. La gente attorno a lui si zittì, e la sua voce forte echeggiò per il molo:
Camera del Lavoro Piombino Elba e Maremma, 21 luglio 1911.
Lavoratori del ferro, lavoratori del mare!
Circa 10.000 operai oggi hanno accettata la provocata lotta, e come un’onda elettrica che si propaga rapida come il baleno nello spazio infinito, così la parola sciopero, rapidamente volando da Portoferraio, fu salutata dai vostri rossi vessilli su per i ferrigni monti di Rio Elba, come nella conca verdeggiante di Portolongone, su per l’alpestre colle di Rio Marina: e passando il mare, sferzò le ripide coste della Piombino nuova. Né la potenza padronale, né quella statale valsero ad arrestare quest’onda vigorosa di volontà...
Giovanni si fermò per riprender fiato. “Leggi, leggi ...”. Ughetto e Giovanni erano emozionati per tutta quella attenzione intorno a loro. Giovanni ricominciò a leggere, e dopo un momento d’incertezza la sua voce divenne di nuovo chiara e forte:
La fanfara di guerra echeggiò e noi prolungheremo gli squilli finché gli uomini che vivono colle vostre fatiche e coi vostri sudori non si convinceranno che è vano dileggiare chi lascia sui loro campi e nelle loro officine stille di sudore e brandelli di carne. Anelanti un’era di pace vera e di civiltà nuova non vogliamo essere reietti. Se la vita ci fu ingrata e ci condannò al quotidiano lavoro per trangugiare un pane stentato, vogliamo anche che questa vita ci sia benefica di un sorriso, di una gioia, di un palpito profondo e di dignità umana che sentir non sanno gli schiavi. Lavoratori dell’Elba e del mondo! Decisi a vincere non indugeremo a strapparci dalle braccia i nostri vecchi, i bimbi nostri affinché il cuore di altri lavoratori renda loro insensibili le sofferenze della lunga lotta a cui siamo preparati. Come ad Argenta, come a Terni, come a Parma, le mamme Elbane e Piombinesi affideranno a voi, fratelli nostri, il frutto delle loro viscere, e noi rimanendo sul campo della lotta grideremo in faccia ai moderni negrieri: di qui non si passa.
Giovanni aveva le lacrime agli occhi dalla commozione. Si asciugò con la manica della camicia e guardò incerto tutte quelle facce tese, quegli occhi scuri e lucenti.
“È bello però!”, disse uno del gruppo alla fine. “Anche se non si capisce tutto, è proprio bello...”
S’ intromise allora, con violenza, la voce ostile del Capitano:
“Ecco, questo è proprio il problema. È bello: e come tutte le cose degli anarchici, bello e vano!”
Inosservato, si era avvicinato al gruppo, e ora troneggiava, con la sua gran mole bianca ed elegante che spiccava contro quel gruppo di uomini dimessi.
Quando parlava, la gente si scostava, come per non essere urtata dalla sua voce. Anche perché parlava usando parole difficili, che la gente non capiva bene. Non era uno del posto, veniva da Napoli, e ce l’aveva a morte con gli anarchici. Si diceva che prima di andare in pensione, in continente, fosse stato capitano dell’esercito e avesse ordinato il fuoco contro i cortei anarchici. Era venuto all’Elba cinque anni prima, perché in quel di Napoli si era beccato le febbre maltesi, e una maga gli aveva detto che per guarire doveva attraversare il Canale di Piombino in barca a vela e poi salire a piedi fino a Monte Capanne. Cosa che lui aveva fatto, ed era guarito davvero. Da allora, si era innamorato dell’Isola e non aveva più lasciato Rio Marina.
“Questo è il vostro problema!” - ripeté il Capitano agitando i pugni - “Avete dei poeti come capi! Ma o si è soldati o si è poeti, capite? Come possono gli autori di un testo così sentimentale capirne di cose pratiche, essere buoni combattenti? Questa bella letteratura è indice al tempo stesso di incapacità pratica”.
Si rese conto che quelle erano parole troppo difficili per quella gente, vide anche che Giovanni, rosso di collera, stava per rispondergli per le rime, e se ne andò scuotendo la testa con aria disgustata. Lo seguì un coro di mormorii e di improperi. Poi Sergino il Molle gridò:
“Leggilo di nuovo, Giovanni!”.
In quei giorni di sciopero, a Rio Marina c’era un misto d’eccitazione e di pesante rassegnazione. A volte si accendevano dei capannelli di gente e si parlava animatamente, gli occhi scintillavano, le voci erano altere. Poi, per lunghe ore, era come se tutto in Rio Marina si muovesse con il rallentatore: la gente camminava a testa china, come appesantita, e si procedeva in silenzio. Al mercato, la mattina, c’erano molti uomini, uno spettacolo insolito. Aiutavano le donne a far la spesa, poi però, alla prima occasione, si radunavano in piccoli gruppi e cominciavano a discutere sullo sciopero. Allora di nuovo gli animi si scaldavano, gli uomini rialzavano la testa e ritrovavano la loro forza. Infine, come quando il fuoco si spegne, prevaleva di nuovo un senso di pesantezza e di scoramento.
Era ormai più di un mese - pensava Ughetto - che suo padre non alzava gli occhi da terra quando parlava. In quei due mesi di sciopero era diventato un altro. Era dimagrito e sul volto sempre teso e irsuto era come se la barba ricrescesse subito dopo ogni rasatura.
“Lido, Lido!” - diceva spesso la mamma con la sua voce ansiosa che faceva innervosire tutti - Che novità ci sono? Quando finisce lo sciopero?”.
Lido non voleva che in casa si parlasse dello sciopero e quando sua moglie lo faceva comandava di cambiar discorso con un gesto stizzito. A casa c’erano allora interminabili silenzi che spaventavano Ughetto. E lui era quasi felice di andarsene a pescare col vecchio Demetrio. Anche perché il pesce che portava a casa era ormai l’unica fonte di cibo. La situazione era disperata, in casa dei minatori non c’erano più soldi. Ci si arrangiava un po’ con gli orti e la pesca. Era una vita stentata, soprattutto per i bimbi, e verso la fine dell’agosto si accettò l’invito di inviare un centinaio di bambini di scioperanti in continente. Sarebbero stati ospitati da famiglie di operai a Mirandola e a Cesena, paesi dell’Emilia-Romagna. Ci fu tanta commozione al porto quando partirono i velieri pieni di bambini, con tutte le mamme in lacrime. Queste donne, per lo più poco istruite o analfabete, avevano subito fino ad allora lo sciopero come una di quelle cose politiche degli uomini.
Con la partenza forzata dei bambini, però, lo sciopero era divenuto d’improvviso una cosa reale anche per loro, qualcosa che toccava le loro stesse viscere. Molte delle mamme elbane andarono fino a Piombino, alla stazione, per la partenza del treno dei bambini per la Romagna. Alla stazione di Piombino ci fu una grande festa, con tanti canti e bandiere, e tante lacrime di commozione, ma anche tante parole dure gridate dalle donne.
Quel giorno Lido tornò a casa con un taglio alla testa e un occhio pesto. Nessuno in casa osò chiederne la ragione, nemmeno Giuseppe, il fratello maggiore, che pure lavorava in miniera. Ma si sapeva che la Società Elba aveva fatto venire dei crumiri da Genova con un grosso battello, e che n’erano seguiti scontri che erano durati molte ore. I soldati, per difendere quelli di Genova, avevano attaccato con le baionette innestate.
Pochi giorni prima c’era stato un morto a Piombino, un dimostrante, e nell’Isola c’erano stati molti arresti, alcune dozzine di persone. Molti dei capi sindacalisti erano finiti in carcere, insieme ad alcuni anarchici e socialisti che erano venuti all’Isola a seguire lo sciopero. “La Direzione della Miniera” - disse a un tratto Lido prima di cena, e quel suo parlare fu una sorpresa, tutti si zittirono per ascoltarlo - “ha appeso un manifesto, con le sue condizioni per riprendere il lavoro. Sono condizioni che non si possono accettare...”.
“Perché?”, chiese la mamma.
Lido spiegò nervosamente che, negli intendimenti della Società, la condizione per riprendere il lavoro era di ridurre a metà la manodopera, diminuire il salario e la paga del cottimo di un quarto, aumentare le ore di lavoro, e sopprimere centocinquanta velieri elbani adibiti al trasporto del minerale. La Società voleva anche eliminare le “piazze”, l’antica facoltà dell’operaio di nominare un proprio sostituto al posto di lavoro, e volevano escludere i ragazzi e le persone anziane dal lavoro.
“Su quest’ultime due o tre cose si può discutere, ma sulle altre, no!”, concluse Lido.
“E allora?”, fece la mamma.
“E allora corni!” - gridò Lido – “Combatteremo ancora, fino a che staremo in piedi. Che vuoi che faccia?”
“Sono più di due mesi che non si vede un soldo. Sono due mesi che non c’è olio e che non faccio pane. Candele anche non ce n’è più... ”.
Lido si alzò di scatto dando un gran pugno sul tavolo e se ne andò sbattendo la porta. Ughetto, vincendo la paura, gli andò dietro. Lo seguì giù per la scalinata, tenendosi a qualche metro di distanza, poi piano piano gli si affiancò. Il padre fece finta di non vederlo, ma lo lasciò venire dietro di sé. Si era già agli inizi di settembre e tirava un forte vento di maestrale che faceva arricciare le onde al largo. Calava la sera, e la gente cominciava il passeggio serale prima di cena. Non era più il passeggio leggero e festivo di un tempo - la gente camminava con passi pesanti e a testa china. I due camminarono a fianco lungo il molo, tornarono indietro, e ricominciarono di nuovo a passeggiare sul molo. Lido mise una mano sulla spalla di Ughetto, cui vennero le lacrime agli occhi, e così camminarono ancora per una mezz’ora, senza dirsi niente, fino a che non venne l’ora di cena.
Intorno a Vito Michele si erano intanto radunate una trentina di persone. Seduto sulle scale con il suo cappello nero calcato in testa, raccontava con voce di tuono dell’ultimo comizio di Pietro Gori che aveva avuto luogo a Rio Elba poco tempo prima. Più che un comizio, era stato un contraddittorio tra Pietro Gori e un canonico del continente, soprannominato “il Trombone di Dio”. “Lo chiamano cosi” - disse Vito Michele – “perché è grasso e pomposo, tutto lucido ed elegante, con le calze rosse e le fibbie d’argento, e poi quella pancia enorme. Perché è una buona forchetta, questo prete, forse il suo solo lato buono...”.
Prima aveva parlato il prete. Aveva detto che il lavoro del minatore era sacro, che nel medioevo gli arnesi del minatore erano addirittura forniti dalla chiesa, e dovevano essere conservati con grande cura e pietà. “Capite la perfidia?” - aggiungeva Michele - “Perché da questa millantata sacralità veniva di conseguenza l’invito a china’ il capo al papa e allo stato. Fariseo! Gesuita!...”. Qui Michele dette sfogo a qualche minuto di contumelie, brandendo il suo grosso bastone per l’aria, mentre tutti intorno a lui si contorcevano dalle risate.
“Ma quando parlò lui, Pietro Gori, quante gliene disse! Che parlatore! Che mente, quel Pietro!” - e Michele cominciò un lungo resoconto del discorso di Pietro Gori.
Anche il Capitano teneva i suoi piccoli comizi privati, e in quei giorni già pronosticava la disfatta degli anarchico-sindacalisti. Si riferiva spesso a quel manifesto del 21 luglio, che lui odiava a morte, trovando ogni pretesto per metterlo in ridicolo. Quel giorno, al mercato, s’intromise in un gruppo di operai che discutevano tra loro, e sentenziò beato:
“…Così, seguendo un processo inevitabile di invilimento, gli ‘squilli di tromba’ e le altre motivazioni auliche degli anarco-sindacalisti sono scomparse del tutto, lasciando posto a una realtà trita, in cui dominano la fame, il turpiloquio, la scazzottatura, la depressione, la paura per l’oggi e per il domani”.
Ebbe però la sventura, il Capitano, di dire questo di fronte a Vito Michele, che per caso si trovava lì dal vinaio per aiutare Maria Isolina a trasportare una damigiana vuota. Vito Michele, per cui il grasso ed elegante Capitano era come il fumo negli occhi, lasciò cadere a terra la damigiana, che si infranse con un tonfo, e si avventò con un urlo di furore contro la bianca mole del Capitano. Vito Michele era ancora molto forte, e riuscì a strappare quasi tutti i bottoni dell’abito bianco del Capitano, mangiandosene perfino uno. Ma il Capitano aveva ragione. C’era nell’aria tanta depressione e tristezza. I documenti redatti dalla Società Mineraria divennero più sicuri, quasi arroganti, e soffiavano nel fuoco della discordia. In uno si diceva:
Le agitazioni movimentate fra gli operai del Riese... non sono destinate al successo, perché i diversi sindacalisti delle miniere, opportunamente aumentati di paga dall’egregio direttore generale, hanno stabilito di resistere alla irrequietezza delle masse... Quando siano ben pasciuti coloro che invece di affaticarsi nel lavoro hanno dimostrato di essere e sapere fare gli irrequieti, a che pro occuparsi e preoccuparsi dei lamenti dei pezzenti che lavorano e producono?.
Solo raramente, oramai, gli spiriti ritornavano in alto: succedeva per esempio quando Pietro Gori teneva un comizio. Era come una sferzata d’energia, e gli squilli di tromba risuonavano ancora un po’ negli orecchi, la gente alzava di nuovo gli occhi in alto. Così, la morte di Pietro Gori, a Portoferraio, proprio durante lo sciopero, fu sentita da tutti come un brutto presentimento - e gli occhi dei minatori non si sollevarono più da terra.
Il 13 novembre la Società, sicura di tenere ormai in pugno la situazione, fece pubblicare un manifesto, che cominciava così:
La Società Elba a partire da oggi apre le iscrizioni del personale delle miniere... sulla base del proprio programma del 25 ottobre, e si riserva di riprendere il lavoro tosto che a suo giudizio le risulti iscritto al lavoro un numero sufficiente di personale... La Società avvisa altresì gli operai che alle ore l8 del giorno 6 Novembre chiuderà le iscrizioni.
Ughetto era arrivato tardi al lavoro, ma Demetrio non lo rimproverò. Anzi, non disse nulla. Cominciarono a vogare in silenzio nel freddo del mattino. “Sai, in casa mia c’è stato un gran litigio l’altra sera. Tu lo sai, no?, Demetrio, che la Società ha deciso di aprire le iscrizioni. Tanti operai si sono già presentati. Il mio babbo non voleva anda’, e allora la mamma ha cominciato a strilla’. Non l’ho mai sentita così arrabbiata. Aveva il viso rosso e gli occhi fuori dalle orbite, e noi abbiamo avuto paura che lui e il babbo si picchiassero.
“E che ha fatto il tu’ babbo?”
“È uscito di casa bianco in viso e non è venuto a casa la sera. Credo che abbia dormito sotto gli archi... A me ha fatto così pena. Io ho pianto tutta la notte, Demetrio...”.
Ughetto era bianco in volto anche lui, sembrava quasi che cominciasse a piangere da un momento all’altro. Smise di remare. Demetrio non disse nulla e prese il suo posto remando lentamente. Arrivarono al posto delle nasse, e ne tirarono su quattro che erano piene: le aragoste rosse muovevano lentamente le grandi chele e sembravano come imbambolate.
“Se vuoi” - disse Demetrio - “ti invito a casa mia, ti cucino gli spaghetti all’aragosta”.
Era la prima volta che il vecchio faceva tale offerta e in altre occasioni Ughetto ne sarebbe stato molto contento.
“No, grazie” - disse - “Voglio un po’ vedere cosa fa babbo. Non so che succederà in casa...”.
Il Capitano era gongolante. Non poteva essere andata meglio. Il lavoro era ripreso con circa mille uomini. La Società aveva eliminato 1500 operai dal libro paga, e naturalmente tra questi tutte le teste calde; il salario era stato ridotto da sei a quattro lire e cinquanta; la paga del cottimo era stata ridotta del 15%; l’orario di lavoro era aumentato; gli operai venivano mandati via a sessant’anni, con un sussidio minimo; 57 velieri elbani erano stati soppressi senza indennizzo alcuno; e tutta una serie di richieste assurde fatte dai sindacalisti (edificazioni di case per gli operai, riconoscimento delle Commissioni Operaie, creazione di un ufficio reclami) erano state naturalmente ignorate. Si era però dato qualche contentino, con una cassa malattie e una piccola pensione ai vecchi che lasciavano il lavoro. Inoltre un centinaio di operai e sindacalisti dovevano ancora essere processati, e molti erano già in carcere o esiliati.
L’unico punto di cui il Capitano non era completamente soddisfatto era che non era riuscito a rimpiazzare il bottone bianco del panciotto che il padre di Giovanni il calzolaio gli aveva inghiottito. Allora, nella fila dritta dei bottoni bianchi, ne compariva uno grigio, un po’ più grande degli altri. Ma questo non gli impediva di tenere agitati concioni in piazza - ce l’aveva ora contro quei capi sindacalisti che avevano il coraggio di contrabbandare come vittoria le condizioni finali poste dalla Società.
Ughetto di Lido andò a cercare Demetrio al porto per l’ultima volta, e lo trovò che stava sbrogliando le reti. “Babbo non è stato ripreso a lavoro, sebbene si sia presentato con il cappello nelle mani…” - disse trafelato - “Hanno preso solo i più fidati, babbo no... E noi andiamo in Australia, con altri cinquanta di Capoliveri”.
Il vecchio lasciò cadere le reti e guardò in su, verso Ughetto, con due occhi diventati grossi e tristi.
“In Australia? Ma dov’è?”. E poi disse ancora senza aspettare la risposta: “Cioè, te ne vai?”
“Sì!...”, disse Ughetto e non ebbe la forza di dire altro. Si sedette vicino al vecchio e i due stettero in silenzio a guardare il mare in fronte a loro. Il vecchio prese la mano del giovane, era la prima volta che lo toccava così, con affetto. Ughetto si alzò, e se ne scappò senza nemmeno salutare Pino e Giovanni, correndo forte per ingoiare le lacrime che minacciavano di venir giù.