Anche i malvagi possono essere nostalgici e amare le antiche e belle forme! Questo il semiserio sottotitolo che potrei aggiungere a un tentativo di lettura esplicativa che mi accingo a proporre riguardo alle 9 figure del Libro delle nove porte del regno delle ombre di Aristide Torchia, Venezia, 1666.
Il “Libro” in questione per chi non lo sappia rappresenta un abile ed efficace invenzione romanzesca che debutta nel 1993 con il romanzo dello spagnolo Arturo Pérez-Reverte Il Club Dumas (o l’ombra di Richelieu) dal quale è stato tratto il celebre film dal titolo La nona porta, diretto da Roman Polanski e con Johnny Depp come convincente protagonista. Il romanzo contiene alcune pregevoli illustrazioni di Francisco Solé disegnate dietro indicazione dello stesso autore. Su queste illustrazioni concentro la mia attenzione in quanto mi sembrano interessanti dal punto di vista narrativo e anche in merito ai linguaggi simbolici tradizionali. Premetto che non ho ancora letto il libro e che non intendo commentare neppure l’ottimo film ma semplicemente attirare l’attenzione su alcuni aspetti significativi della struttura e delle specificità semantiche di queste immagini.
Il mio approccio, già sperimentato con soddisfazione con l’analisi innovativa di alcuni capolavori di arte antica, potrei definirla quale “sguardo di iconologia attiva”. Si tratta di leggere le immagini ragionando per immagini e con la mente vuota di tesi predefinite quanto priva di ansia da prestazione nella convinzione che in alcuni casi le rappresentazioni visive “parlino da sole” e vadano lette “tramite se stesse”. Se infatti non riusciamo ai primi colpi di lettura a riportare ad unità di senso una visione complessa allora dobbiamo adeguarci alla stessa visione in modo camaleontico e provare a ragionare sulla sua struttura, sui propri rapporti interni, ancor prima di lanciarci frettolosamente nel giungere a parziali conclusioni. Spesso sapersi porre delle buone domande è più utile che affannarsi a giungere a tutti a costi a trovare delle risposte. Questo è un paradosso verificabile; certe volte si può cogliere l’architettura anche se non capiamo le singole pietre! Il linguaggio è fatto così: reca sempre un senso! Siamo noi che ancora non ne possediamo consapevolmente tutte le chiavi. La soluzione c’è già: è dentro la visione. Bisogna aspettare che lo sguardo si “autoeduchi” e ci conduca dolcemente dentro… Non mi scervellerò quindi sul discorso delle variazioni fra le immagini e sul discorso se esista davvero il libro (magari ex post per un sapiente marketing… ) ma mi limiterò a ragionare su queste 9 immagini, anzi direi 10, considerato il frontespizio del “libro”. Dieci come le dieci case dell’albero sephirotico!
La tecnica di analisi è semplicissima e consta di tre fasi: a) notare le particolarità di queste icone in rapporto ad una tipologicamente omogenea iconografia antica b) individuare elementi tradizionali distinguendoli da elementi di invenzione moderna c) verificare i rapporti interni alle figure e i possibili nessi fra le nove/dieci figure d) verificare se vi siano tracce di una controiniziazione di sapore demonico. Certamente non spiegherò tutto, anzi nella maggior parte dei casi mi limiterò ad indicare scenari, a suggerire strade che altri più competenti potranno seguire, a spiegare solo singoli elementi della scena. Per me l’“iconologia” è una passione, un'abitudine a contemplare e a ragionare sugli immaginari, più che una disciplina precisa. Poniamoci quindi davanti a queste icone come di fronte a presenze assolute. Non ci interessa chi le ha fatte, o quando o perché. Ci interessa cosa possono dirci oggi. Partiamo dal frontespizio. L’immagine appare efficace e innovativa. Stilisticamente sembra un po’ troppo creativa per poter appartenere ad un immaginario seicentesco. Le allegorie barocche infatti, anche quelle più fantasiose, appaiono precise nelle loro matrici che sono mitologiche/religiose/letterarie/araldiche, o anche un mix di queste, mentre questa immagine del frontespizio mostra una creatività eccessivamente innovativa e spiccatamente sciolta da precedenti matrici narrative e perciò tipica di quel novecento occultistico che ama rievocare uno stile antico come nei tarocchi di Aleister Crowley.
Tracce demoniche sono individuabili nel serpente che sembra rivendicare il possesso dell’Albero edenico della Vita e nel fulmine che, spezzando un ramo le cui fronde ricordano la forma di un cuore, genera una luce stellare ad otto punte. Il fulmine poi appare ramificato similmente ai rami di un albero e rinvia facilmente dal punto di vista iconologico all’associazione folgore/Satana che il Vangelo stesso compie (Lc.10,18.19). La nuvola con il fulmine assomiglia ad un albero rovesciato che si unisce all’albero canonico in una sorta di inaudita coincidentia oppositorum dal sapore manicheo, drammatizzata infine dalla dialettica chiaroscurale fra la parte inferiore del tronco e quella superiore. Il serpente poi appare avvinto su se stesso in una postura simile a quella tipica dell’ouroboros alchemico. Questa postura viene innovativamente mixata con quella tipica del serpente edenico avvinto all’albero fatidico. Le tre spire con cui è avvinto indicano la rivendicazione luciferina di un potere divino, di un possesso sovrano.
Da queste considerazioni emerge già un'impressione non irrilevante nel senso che il frontespizio sia veramente l’Alfa e l’Omega del viaggio per immagini che le nove figure strutturano, la sua sintesi e la sua ricapitolazione come in un manifesto programmatico in cui si consuma un dramma che viene però celebrato in senso positivo. Passiamo ora alla prima immagine, sapientemente lasciata nella semplicità rispetto alla maggiore complessità delle altre. Ma proprio la sua semplicità la rende allusiva e inquietante. Qui la “stranezza” è duplice: un cavaliere senza armi e un cavaliere che fa il gesto iniziatico di Arpocrate, che nell’iconografia seicentesca di solito viene lasciato ad Hermes o a qualche satiro o putto o saggio orientale, ma non ho mai visto associato ad un cavaliere in viaggio!
L’incrocio del tema ermetico rinascimentale con il modello “alla Durer” del cavaliere medioevale errante genera un effetto di potente fascino. Siamo ai limiti della “psicomagia” in una sorta di persuasività subliminale. L’effetto narrativo è intensamente sollecitante generando una sottile tensione connessa all’aspettativa di prossime misteriose rivelazioni. L’ultimo dato che noto, ma a livello di mero stile, sono le due torri con copertura a cono che mi ricordano le magiche torricine rinascimentali del Palazzo Ducale di Urbino! Nella prima immagine non sembrano riscontrarsi tracce demoniche se non, forse, nell’assenza di croci o chiese nella città sul monte e nel motto in latino che richiama il “buon combattimento” della Fede citato da San Paolo (2Tm 4,6.8) ma in una versione invertita in quanto ritengo che_ leg(em)_ vada considerato quale complemento oggetto del verbo combattere (certare) ricavandone quindi una traduzione del tipo: “combattere la legge”, cioè “contro la legge”, e non “secondo legge”, come viene tradotto di solito. Un cavaliere mondano quindi, senza guanti e ricco di orgogliosi sei pennacchi, e che si ribella alla Legge di Dio.
Nella seconda figura l’aspetto demonico si manifesta con chiarezza in un'inversione “perfetta” di temi mistici e religiosi cristiani. Il modello della figura barbuta che sta in piedi davanti ad una porta chiusa viene tratto direttamente dal celebre passo dell’Apocalisse nella lettera alla Chiesa di Laodicea dove Gesù bussa alla porta del cuore del fedele (Ap.3,20). Un bellissimo quadro visualizza il tema originario: si tratta di The light of the world di William Holman Hunt realizzato tra il 1853 e il 1854 ed esposto sulla parete della navata di destra della cattedrale di San Paolo di Londra. Nella nostra figura il protagonista appare invece demonico e non cristico. Lo accompagna un cane nero, chiaro segno infero, e la lanterna è posta dissacralmente a terra, ed è una lanterna che non spande luce ma ombra! Il personaggio misterioso tiene in mano due chiavi richiamando fortemente gli attributi di San Pietro. Un allusione ad un Papa eretico e satanico o semplicemente un'inversione rituale dei poteri ecclesiali in una sorta di “controsacerdozio”? Qui infatti le chiavi sono rivolte verso il basso, mentre nell’iconografia di San Pietro sono rivolte verso l’alto. Il batacchio richiama la postura del serpente del frontespizio e sembra percepirsi una numerologia sacra nella casa in cui si appresta ad entrare data dalle sei travi e dalle tre assi della porta stessa. Un elemento misterioso compare con la lettera ebraica Tet posta all’altezza del capo del personaggio. Questa lettera ha come valore numerico 9, reca un significato che associa il concetto di “cuore” ad una “scossa” o “colpo” e assomiglia ad un serpente attorcigliato. Notiamo come tutte le figure rechino la loro numerazione nelle tre lingue del titulus crucis: ebraico, latino e greco. Un altro segno che induce a ritenere che siamo in presenza di icone simili ai tarocchi a cui viene riconosciuto un valore sacrale anche se a fini non cristiani.
La terza figura appare generica come la prima, come una semplificazione di un immaginario antico più complesso. Abbiamo la giustapposizione, come in un rebus, del tema del pellegrino con il tema mistico e alchemico del “cupido”, già presente nei tarocchi, qui colto nell’atto di prepararsi a scoccare la freccia. Il tempo narrativo è preciso e allude all’approssimarsi del pellegrino alla bisettrice del ponte sulla cui verticale è fermo il misterioso arciere il quale non mostra stranamente le canoniche ali, altro esempio di inversione antitradizionale. Potrebbero riscontrarsi tracce numerologiche nei dieci merli del ponte e nella forma a tre merli posta sulle facciate della torre oltre il fiume. Il motto rinvia alla tradizione cabalistica della “Parola perduta” e successivamente adottata dalla massoneria.
Il topos del pellegrino/viandante che compare nella prima figura e nella terza continua nella quarta sotto la forma del folle/bagatto di fronte al labirinto. Anche in questo caso la notevole forza di fascinazione immaginale della rappresentazione sembra derivare dalla tecnica dell’incrocio di due immaginari differenti: il bagatto e il labirinto. Sul primo è stato scritto molto quale figura dal sapore ermetico, dionisiaco e alchemico, come una versione arlecchinesca di una sapienza antica. Per la prima volta al posto di Teseo o di una figura allegorica abbiamo il “saggio folle”. Non sembrano esserci tracce demoniche a meno di considerare il bastone retto dal personaggio quale pastorale vescovile e non un mero richiamo al lituo etrusco o allo scettro egizio. Il labirinto è un labirinto ambiguo in quanto presenta un centro raggiungibile ma pure un'uscita, anche se murata, simile a quella di entrata. Potrebbe esserci un senso numerologico nei numeri dei tre dadi che vediamo davanti alla porta. Stranamente tutte le tre facce visibili dei tre dadi presentano le medesime cifre: 1, 2, 3. Un dado però è ancora in movimento. Un rebus dentro il rebus. Una combinazione per orientarsi nel labirinto?
La quinta incisione introduce il tema della scacchiera che ritornerà nella settima. Il pavimento non a caso presenta otto caselle per lato come una vera scacchiera. Un altro numero domina la scena: l’apocalittico sette. Sette sono le pile di monete sullo sgabello e sette le pietre della volta della porta di ingresso. Se vogliamo poi la porta stessa ha quattro assi e il rinforzo metallico presenta una forma ternaria simile al tridente, da mietitura, brandito dalla Morte. La clessidra con la sabbia scura interagisce simbolicamente con il pavimento a scacchiera. Il motto di questa icona è stranamente quasi “devoto” ma è veramente un motto morale e pio? Certo è che la narrazione si incentra sul tema del calcolo. La Morte/Tempo calcola e l’uomo calcola. L’impressione è che i motti delle nostre figure presentino una doppia lettura, essoterica ed esoterica, una apparentemente morale e una sapienziale, celata magari in un anagramma. In alcune incisioni come la quarta, la quinta e la sesta il motto appare irrelato rispetto all’immagine; deve quindi esserci una lettura non letterale dei motti stessi.
Se passiamo al “tarocco” n° 6 troviamo veramente due temi presi fedelmente dai tarocchi: l’appeso e la torre. L’appeso di questa figura corrisponde perfettamente a quello dei tarocchi, con la gamba a squadra e le mani dietro la schiena. In alcuni tarocchi antichi l’appeso mostra anche sacchi pieni di monete o monete che cadono. Non a caso il motto di questa immagine riprende il tema della ricchezza collegandolo alla morte ma con un senso che sembra positivo, in apparente opposizione alla drammatizzazione apparentemente moralistica della figura precedente. La scena è perfettamente equilibrata: l’uomo appeso verso il basso e l’arbusto rampicante mezzo secco e la mano con la spada fiammante invece che “indicano” verso l’alto. L’arbusto ha rami nodosi che ricordano il fulmine dell’immagine del frontespizio mentre la spada di fuoco appare un’icona di grande fascino che ha un antico precedente in Genesi dove vengono citati degli angeli a guardia del Paradiso terrestre. Gli stessi cherubini che scacciano i progenitori dall’Eden dopo la caduta. Abbiamo un altro caso, questo assai recente, di spada fiammeggiante, nella terza parte del messaggio di Fatima, pubblicato dal Vaticano nel 2000, quando viene descritto un angelo che brandisce una spada sfavillante connessa con un azione di giustizia e di purificazione divina. La porta della torre, anch’essa chiusa, mostra due fermi di ferro che sembrano unire l’idea di una spada a quella del tridente. La figura sei appare quindi anch’essa frutto di una tecnica di composizione “a rebus” tramite la giustapposizione creativa ed innovativa di temi tradizionali estratti dal loro contesto originario. È la stessa tecnica mescolatoria usata da Dan Brown: incrociare temi eterogenei e shiftare da un'“enigma” all’altro. Cosa meglio di un altro mistero per veicolare/velare un mistero? Su questo ha ironizzato a sufficienza Umberto Eco con Il _Pendolo di Focault e nel suo saggio _I limiti dell’interpretazione.
La figura sette si rivela invece internamente più coerente e nel contempo ricca di concordanze con altre figure precedenti e seguenti. La prima stranezza che salta agli occhi è quella data da una scacchiera bianca, come se fosse stata imbiancata dal quarto di luna che si vede dalla finestra. Il motto ci indica che sta vincendo il giovane e questa dato sembra trovare corrispondenza nel cane bianco che sta per azzannare il cane nero. Notiamo come il giovane presenti un copricapo assai simile a quello del “pellegrino” protagonista della terza figura, mentre analogamente il vecchio re incoronato, e con un pesante e lungo mantello con ermellino, ricorda il protagonista barbuto della seconda figura, anch’esso accompagnato da un cane nero. Il re mostra le mani in un’anomala postura monacale con le braccia conserte e le mani sovrapposte e unite dentro le maniche. I suoi occhi sembrano chiusi o socchiusi. Indica lo “scacco matto”? La scacchiera abbiamo l’abbiamo vista nel pavimento della figura quinta e la luna comparirà nella seguente ultima nona figura. Se proprio vogliamo trovare una numerologia ce la offre la lunetta della porta che reca nove triangoli sulla linea orizzontale e un triangolo equilatero interno di base sette. La veste del re è stranamente ed esageratamente lunga, come lo è quella del personaggio della seconda figura, e come lo è la veste della donna dell’ottava figura. La scena della partita a scacchi ricorda il quadro di Karl Truppe Partita a scacchi con la morte (1942).
L’ottava figura ci stupisce anch’essa per l’avvicinamento creativo di due temi tradizionali anch’essi autonomi: il tema del martirio per decapitazione e il tema della “ruota della fortuna”, presente fra l’altro nei tarocchi. A bene vedere anche qui riscontriamo “stranezze” rispetto al modello iconografico originario. Sono anomali che veicolano sensi sapienziali o vere e proprie indicazioni iniziatiche di tipo demonico? La prima eccentricità la troviamo facilmente nell’immagine di un cavaliere che opera come un boia. Un cavaliere che veste un'armatura completa, tranne i guanti e l’elmo, e che rinvia al cavaliere della prima figura. In una variazione di questa figura compare l’aureola attorno alla sua testa in un'inversione totale in quanto per secoli l’iconografia pone l’aureola cristiana sul capo della vittima e non del carnefice. Il cavaliere aguzzino sembra aspettare un segnale prima di abbassare la lama della spada. L’impressione generale è che si tratti di un rito iniziatico e non di un martirio cristiano. Ne abbiamo un precedente antico nel romanzo medioevale Sir Gawain e il cavaliere verde. Altra anomalia è presente nella ruota della fortuna la quale è rappresentata in perfetta fedeltà rispetto all’iconografia medioevale, con sei raggi e le due figure analoghe in salita e discesa, ma offre qui un’innovazione nel personaggio centrale posto al culmine della ruota. Non abbiamo il tradizionale giudice o il cristico re o il beffardo asino o la sfinge ma un uomo inginocchiato sulla gamba sinistra. Omaggia il sole che sorge?
L’ultima mostra icona palesa apertamente il senso demonico e contro iniziatico di tutta la sequenza ponendosi quale adeguato Omega all’Alfa dell’immagine del frontespizio. Tutti vi possono riconoscere la Prostituta dell’Apocalisse, Babilonia, che cavalca la bestia anticristica con sette teste (Ap.17,3.5). Il tratto di disegno della donna è fumettistico, chiaramente moderno, mentre le teste del drago richiamano l’incisione di Durer sullo stesso celebre tema. Anche qui due variazioni: un libro aperto nella mano sinistra della donna, ad indicazione di una contro-rivelazione satanica, e una falce di luna sul grembo. Il tema luna/drago/fuoco rinvia a sensibilità alchemiche, pur deviate oppure la luna associata alla donna può essere un rafforzativo di una femminilità anarchica e selvaggia, guerresca. Simili sensi alchemici, qui in rapporto nuziale e dialettico con l’igneo drago, li ritroviamo all’interno dell’immaginario occultistico moderno nella celebre icona del caprone satanico, talvolta descritto in modo “ermetizzato” con il motto “solve et coagula”. Un esempio famoso è l’illustrazione del caprone alla p. 89 del libro Le Diable au XIX Siecle ou les mystere du spiritisme, Paris, 1896, Vol. I., ripresa nei Misteri della Framassoneria di Leo Taxil e presente anche in Dogma e rituale dell’alta magia di Eliphas Levi, 1861.
Anche nella nona figura, come in quella del frontespizio, lo scrittore spagnolo loro ideatore vuole comunicare un senso di una sapienza antica, completa, non cristiana, autosufficiente, e tendente al dominio. Una sorta di panismo/pantesimo luciferiano. La ripresa del tema apocalittico non è invece precisa nel numero delle corna: quattordici invece che le dieci della Rivelazione di Giovanni. Anche i migliori tradizionalisti (o meglio: controtradizionalisti) errano! Notiamo infine come la dicitura latina del numero nove segue la versione minoritaria che non contempla la X. Rigetto satanico di ogni tipo di croce? O mero caso? Il castello in fiamme sullo sfondo mi sembra un elemento di efficace drammatizzazione ma pure sconta l’afasia della propria ambiguità. Non sembra la Città di Dio distrutta dalla potenza del Nemico in quanto tutti gli edifici delle nostre immagini, a differenza delle iconografie tradizionali, non presentano croci o altri segni cristiani o religiosi. Non so perché ma lo sfondo drammatico di questa scena mi fa venire in mente il drammatico Paesaggio con Piramo e Tisbe di Nicola Poussin. Eppure il castello in fiamme sembra un elemento di rafforzamento rispetto ai personaggi protagonisti, come il segno di una loro vittoria. Abbiamo un’omogeneità simbolica fra donna/città e drago/fuoco che non è solo archetipica ma pure scritturale in quanto chiaramente descritta dalla stessa Apocalisse quando spiega l’immagine femminile di “Babilonia” quale allegoria di una potente città il cui potere si oppone a Cristo su tutta la terra e che domina su tutti i popoli (Ap. 17.18) e quando descrive il dragone come fatto “di fuoco” (Ap.12,3).
Il castello allora sarebbe l’equivalente allegorico della conquista satanica del potere umano e della terra in generale. Non a caso stilisticamente abbiamo un isomorfismo fra le fiamme al vento e le chiome al vento della donna. La donna quindi è dominata dal drago che la porta come il castello è posseduto dalle fiamme. Un’allegoria chiara e semplice dell’inversione satanica del concetto di fuoco e di distruzione in un classico ribaltamento semantico, rafforzato dal celebre motto ex tenebris lux, di per sé religioso/morale, che qui assume un senso pervertito. L’uso invertito del motto in senso satanico è semplice e di tipo dialettico/sofistico. Si fonda sulla confusione fra una successione temporale di elementi con una successione causale e gerarchica degli stessi. Siccome in Genesi la luce viene creata da Dio dopo la creazione di cielo e di terra (Gen.1,1.3) allora per capire il ribaltamento di senso bisogna ragionare sul libro della Genesi come se fosse letto dal diavolo che lo interpreterebbe al contrario come un passo scritturale indicante la superiorità della tenebra rispetto alla luce. Il motto stesso si presta a questo fraintendimento.
La derivazione della luce dalla tenebra viene quindi concepita lucifericamente come sudditanza della luce rispetto alle anteriori tenebre e la luce compare quale effetto e quale fase dialettica di un regno prevalente delle Ombre. In origine invece il motto aveva un semplice senso cristiano che indicava la nascita della luce ad opera di Dio nel suo farla comparire in un mondo ancora ottenebrato. Già Dante avvertiva che Satana è campione di logica e di sofistica (Inf. XXVII, 122-123). Hume era satanista con la sua teoria gnoseologica dell’evoluzione dell’“hoc post hoc” in un “hoc propter hoc” o ha solo filosofeggiato leggendo la Genesi? Concludendo non possiamo che complimentarci con lo scrittore spagnolo Arturo Pérez-Reverte per la bellezza delle immagini che ha ideato, per la geniale originalità con cui ha riformulato temi e modelli iconologici antichi e per l’efficacia comunicativa inquietante di certe indicazioni ed allusioni. Perfette per un romanzo di successo che sfrutta abilmente l’odierna morbosità di massa. Forse qualcuno ha anche creduto autentico il fantomatico libro non accorgendosi dello stile e delle tecniche moderne di disegno e di composizione e della forti differenze rispetto alle incisioni seicentesche!