Vito Michele non lasciò passare troppo tempo prima di metter su una bottega di calzoleria. Agli inizi era solo uno stambugio sotto gli archi, verso il Sasso. Era bravo a fare scarpe, Giovanni non era dammeno e in breve ebbero il monopolio nel paese. Quella calzoleria arrivò in paese proprio al punto giusto: sebbene le scarpe fossero ancora una cosa per ricchi, anche la gente del popolo cominciava a comprarsele per la domenica e per certe occasioni particolari, per esempio per sposarsi o per metterle ai morti per la sepoltura. Michele riuscì a comprarsi un nuovo cappello nero senza buchi, che non abbandonò più per il resto della sua vita. Quando Vito Michele andò a vivere con Maria Isolina tutto il paese ne fu contento, anche la Maria Isolina. Si trovarono una casa in paese, vecchia e grande, che aveva la comodità di essere vicina a una fontana d’acqua e a un cesso sistemato in un orto lì vicino. Nessuno chiese notizie della moglie di Michele in Calabria. In effetti, non è molto importante per la nostra storia e poi può essere perfino vero quello che raccontava Michele, che la sua prima moglie Rosa era morta di peste bubbonica laggiù in Calabria...
Si dice che la Maria Isolina non fosse mai stata veramente innamorata di Michele. Fu però una buona moglie, perché gli era sinceramente grata di averla tolta dalla strada e di averle dato una vera casa, lei che amava così tanto sferruzzare in famiglia e far le faccende. Si sposarono però solo nel 1896, molti anni dopo il loro primo incontro, quando le autorità diedero a Michele il permesso di farlo (questa almeno era la sua versione, i maligni dicevano che lui, quel permesso di sposarsi, non l’aveva mai richiesto con particolare fervore). Da questa moglie elbana bionda e bella Michele ebbe delle figlie di leggendaria bellezza, tra cui Assuntina, di cui non è rimasta traccia, e Rosina, di cui parleremo in seguito.
Passò qualche anno. Maria Isolina aveva quindi solo femmine per la casa e spendeva molte ore del giorno a insegnar loro a cucinare, a lavorare a maglia, a cantare le arie delle opere. Infine, quando cominciarono a essere più grandicelle, insegnò loro a ballare il valzer e la mazurca. Rosina era l’unica cui non piaceva ballare e cantare, aveva un carattere chiuso e pensoso.
Invecchiando, Michele rimase il gran burbero che era sempre stato, continuava però a essere molto popolare in paese. Le sue sfuriate contro i preti erano proverbiali, e la gente se le raccontava la sera a veglia tra grandi risate. Rimase famosa quella domenica di Pasqua con don Filippo che faceva il suo consueto giro di benedizione per il paese. Lui, tranquillo e beato, entrava di casa in casa, cospargendo d’incenso ogni stanza e borbottando delle preghiere rapide. Capitò nella casa di Michele in un momento che non c’era nessuno. Michele ritornò d’improvviso e lo sorprese mentre a tradimento cospargeva di incenso clericale i suoi libri anarchici. Fu preso da un tale accesso di furia, che tutto il vicinato corse alle sue grida temendo un assassinio. E si vide infatti il povero don Filippo bianco in viso scappar via dalla casa di Michele cercando di salvare l’incensiere che Michele voleva carpirgli. I due tuttavia non ce la fecero a diventare nemici, e qualche volta li si vide perfino giocare a bocce insieme.
Michele partecipò come poté alla educazione delle figlie. Lo fece, poverette, cercando di inculcar loro idee anarchiche, e insegnando loro truculente canzoni anticlericali. Lo si vedeva spesso col cappellaccio nero, seduto sugli scalini fuori dell’uscio di casa circondato dalle sue piccine e dai maschietti più grandi del vicinato, mentre li incitava a cantare, e si sentiva il suo vocione stonato contro lo sfondo tenero delle voci dei fanciulli: “Il Vaticano brucerà il Vaticano brucerà il Vaticano brucerà con dentro i preti! E se il governo non vorrà e se il governo non vorrà - rivoluzione!”. La canzone anarchica che le bambine impararono a canticchiare ancora prima di imparare a parlare, diceva così: “E con la pelle degli signori farem le scarpe ai lavoratori...” il che gli piaceva forse perché aveva una diretta attinenza con il suo mestiere di calzolaio.
Maria Isolina si opponeva decisamente a questo tipo d’insegnamento canoro, lo proibì, e Vito Michele dovette adeguarsi, sebbene a malincuore. Giovanni intanto era già famoso per il suo gran sapere, e non solo a Rio Marina. Leggeva ogni libro che gli capitava sotto mano, e si ricordava sempre quello che aveva letto. Sapeva tutto di storia e di geografia, e particolarmente di legge e di politica. La sua eloquenza divenne proverbiale, e ben pochi osavano cimentarsi con lui su questioni politiche. A causa delle sue letture, si distaccò un po’ dal terreno anarchico del padre, e divenne socialista. Naturalmente, socialista di quei tempi, di quelli veri. Giovanissimo, fu eletto segretario del partito - a Rio Marina era stata fondata la prima sezione socialista dell’Isola - e i suoi comizi attiravano sempre tanta gente, anche a causa di quel suo buffo accento calabrese che non smise mai.
Erano però tempi duri, andare a scuola era un lusso, Giovanni doveva lavorare e dovette presto abbandonare la scuola per vendere scarpe. Vendeva le scarpe viaggiando per l’intera isola e fu presto conosciuto anche a Campo e a Portoferraio come Giovanni il Calzolaio, un epiteto che gli rimase tutta la vita. Quella di non potersi dedicare ai libri, come la sua anima avrebbe voluto, fu per lui una sofferenza che tinse di scuro tutta la sua vita. Fin da giovane si ammalò d’infelicità, una gran brutta malattia che lo accompagnò in tutti gli anni seguenti. Della sua infelicità si scordava solo quando teneva i comizi: allora, chissà per quale magico meccanismo, si accendeva di fuoco vero, e la sua piccola figura nera e nervosa sapeva allora trasmettere forza e calore.
I giochi con Pino e Ughetto erano finiti. Erano grandi, oramai. Pino se ne stava in mare per lungo tempo, era diventato alto e muscoloso. Ughetto continuava ad andare in mare con il vecchio Demetrio, che ora aveva ottant’anni. Ughetto non era interessato alle faccende politiche, tuttavia ascoltava tutti i comizi di Giovanni e lo ammirava senza capirlo. Invece al Maresciallo questo non piaceva per nulla, e in particolare non gli andava giù che Giovanni approfittasse dei suoi viaggi per tenere comizi a favore dei sindacati e del socialismo. A causa di questo, aveva problemi con i marescialli colleghi di tutti i paesi limitrofi, da Campo a Portoferraio, Marciana e Capoliveri.
“Io vi lascio viaggia’ da tutte le parti a vende scarpe, sentite a me. Ma la dovete smette di fare i comizi!” (gli dava del Voi, un po’ in segno di rispetto, ma anche per dimostrare la sua distanza da lui). “Andate a vende le vostre scarpe, non pensate ad altro, e io chiudo un occhio sulla bancarella che non ci avete nemmeno il permesso. Scarpe e basta, capite? Altrimenti mi obbligate ad essere cattivo, chiaro?”.
No, Giovanni non capiva, né lo capiva suo padre Michele, e anzi loro cercavano di convincere lui - pensate, il Maresciallo! - sulla giustezza della causa anarchica, e sul fatto che bisognava abolire il re, il papa, tutti i loro servi, inclusi naturalmente marescialli, poliziotti e tutti quelli che avevano un’uniforme (nel numero Vito Michele inseriva subito preti e monache, che indossavano uniformi a lui particolarmente invise). Giovanni aveva preso molti caratteri del padre, ma solo i più brutti. Mentre il padre era grande e grosso e rumoroso, Giovanni era piccino e musogeno, e non rideva mai. Aveva anche lui un gran senso degli affari, ma, a differenza di suo padre che era anche uno spendaccione, lui mostrò subito fin dalla giovinezza una grande avarizia che gli permise però in seguito di far soldi.
Fin dagli inizi, Giovanni aveva cominciato a interessarsi dei problemi degli operai in miniera. Lui, che fin dalla gioventù aveva problemi di insonnia, a volte li vedeva andare a lavoro al mattino che era ancora buio, con una lanterna in mano e una panierina col cibo nell’altra. Portavano tutti un cappello in testa. Quando Giovanni chiese a uno di loro quante ore lavorassero in miniera, la risposta, che dapprima lui non capì, fu “dalle stelle alle stelle”. Volevano dire che si alzavano così presto che c’erano ancora le stelle, e quando rientravano a casa si vedevano già le stelle nel buio della sera.
D’estate, quando le giornate erano lunghe, questi isolani, invece di riposarsi, cominciavano a lavorare per conto proprio. Per esempio, andavano a lavorare la propria campagna, che era in genere un piccolo terreno pieno d’uva vicino al mare, con magari un pollaio e un conigliaio. Quelli che non avevano la campagna andavano a pescare, con barche pesanti che spingevano al largo con grandi remi. Di notte, alcuni usavano pescare con una forte luce a pelo dell’acqua, che attirava i pesci, e allora uno tirava dalla barca la fiocina, un colpo forte e quasi silenzioso che trapassava il pesce. Giovanni si meravigliava di questo ritmo di vita così intenso e calmo al tempo stesso, e, ancora ragazzo, cercava di arringarli e di convincerli che, a causa di quelle bellezze naturali dell’Isola, loro non si accorgevano di essere sfruttati come animali dai padroni. No, Giovanni non poteva capire come molti di loro, così sfruttati e poveri com’erano, vivessero così, quasi come se fossero felici. Lui, quella quasi-felicità proprio non la capiva. Avrebbe voluto che sviluppassero una coscienza di classe più combattiva, che leggessero di più, invece di pescare e fare il vino.
Le sue arringhe politiche cominciarono a trovare un terreno fertile con gli inizi dei turbamenti politici che dovevano poi culminare nel grande sciopero del 1911. Fu questo, un avvenimento di grande importanza per tutta l’Isola e per Rio Marina in particolare.
“Questo non è uno sciopero, ma una serrata!” - diceva don Mario quando lo sciopero fu proclamato ufficialmente. Don Mario, il nuovo prete, era uno che aveva acume politico, e ogni tanto compariva nella bottega dei suoi avversari politici Vito Michele e Giovanni - che però lo stavano ad ascoltare.
“Credete d’aver avuto voi l’idea dello sciopero” - proseguiva don Mario rivolto agli operai radunati intorno a Giovanni – “ma la Società Elba non aspettava altro, capite? Gli affari con il ferro stanno andando in malora, la Società pensa da tempo a rimpicciolirsi a metà e voi che ti fate? Sciopero! Che coglioni! Alla Società non gli par vero, e lo sciopero diventerà una serrata...”.
Nella bottega di Giovanni, in quei giorni animati dello sciopero, ci capitava sempre più spesso anche Ughetto, il cui padre Lido era minatore. Ughetto era in ansia a causa del padre che stava per perdere il lavoro, e veniva a informarsi, portando sempre in bottega di Giovanni e Vito Michele un paio di pesci freschi. Da lui, durante i giorni dello sciopero, Giovanni s’informava sulla sua situazione di casa, se avessero ancora da mangiare, se il morale fosse ancora alto. Una volta, proprio agli inizi dello sciopero, Ughetto gli disse:
“Sai, Giovanni, che per colpa dello sciopero mio fratello Giuseppe ha perso l’amorosa?”
“Com’è successo?” – fece Giovanni.
“Te lo sai, no?, che i cattolici si sono ritirati dallo sciopero. Da allora, gli altri li chiamano ‘i vili’ e loro ci si arrabbiano e ci sono spesso scazzottate. Ora, Giuseppe era innamorato di Titina figlia d’Oreste. Però quelli della famiglia di Oreste vanno sempre in chiesa, anche suo fratello Pino. Pochi giorni fa Oreste, mentre Pino e altri minatori uscivano dal circolo, si sono incontrati con un gruppo di socialisti, in cui per caso c’era anche Giuseppe. Hanno cominciato a dirsene di tutti i colori - Giuseppe no, perché aveva visto Oreste e Pino, ma tutti i suoi compagni gridavano ‘Vili! Vili!’ e poi ci fu una sassaiola... E da quel giorno, Oreste e Pino non l’hanno più guardato, mio fratello, e hanno proibito a Titina di parlargli. Lo sai, Giovanni, che l’ho visto piangere?”.
Anche per Giovanni, quel tempo di sciopero politico a Rio Marina non fu piacevole, anzi lui e tutti i suoi compagni ne ebbero a lungo un ricordo amaro. Giovanni non ne parlava mai volentieri del grande sciopero, e quando doveva farlo, preferiva raccontare la storia d’Ughetto e di Demetrio.