Il tema del cammino, così spesso illustrato nelle varie discipline umane, viene oggi visto in due filoni che lo rendono più attuale che mai: il primo, più antico e di vastissimo riferimento temporale, ha valenza religiosa; il secondo, più recente, laica.
Fin dal primo Cristianesimo si pose la riflessione sull’homo viator: la vita umana valutata come un transito per quella ultraterrena, ben più importante. Il giorno in cui si festeggiano e si ricordano i martiri e i santi, nel calendario cristiano, è il dies natalis: ciò che aveva condotto a quel giorno niente era stato se non un passaggio, caduco e di minor rilievo. Quindi tutti gli uomini erano considerati in transito; il che naturalmente non escludeva che anche nella vita quotidiana si compissero viaggi.
Nella società medievale, contrassegnata da profonda staticità (nel luogo di residenza, nel lavoro e nello stato sociale), tuttavia si riscontrava un’elevata mobilità. Viaggiavano i mercanti, i soldati, i pellegrini, gli studenti, gli artisti e anche quelli che semplicemente volevano sottrarsi a un padrone, al duro lavoro, magari alla moglie bisbetica. Ma quest’ultimi non avevano – non dovevano avere – alcuna assistenza: se era meritorio aiutare un povero, uno che la durezza della vita aveva ridotto in povertà, non c’era alcun merito, anzi condanna, per chi era semplicemente vagabondo. Comunque con una certa frequenza alcuni si mettevano in viaggio anche per cercare di mutar vita e, pur nella relativa fissità medievale, migliorarla. Un detto comune di origine tedesca assicurava che “l’aria della città rende liberi”; e quindi dopo una carestia, un incendio, un cambio di proprietà, famiglie del contado si inurbavano e andavano ad arricchire quel ceto che in seguito sarebbe stato chiamato borghese: commercianti, artigiani, cambiavalute, banchieri, ecc.
C’erano anche i grandi viaggi: quello di Marco Polo, quelli che sarebbero stati indicati come crociate verso il Santo Sepolcro, quelli dei mercanti per le fiere dei paesi stranieri, quelli dei chierici vagantes, ecc. Le fonti che ci sono state tramandate in testi che potremmo definire di letteratura e iconografia del viaggio sono molteplici: cronache, biografie, diaristica, novellistica, agiografia, miniature, cartografia. Si ricorda, in quest’ultima la Tabula Peutingeriana, copia dell’XI sec. di una carta romana del IV sec. la cui riproduzione mostra su piani sovrapposti gli itinerari della penisola italica, con i luoghi di sosta distinti in mansiones (con alloggio e cambio dei cavalli) e stationes.
Si viaggiava anche – se così si può dire – per divagarsi: c’erano numerose feste paesane e cittadine, c’erano fiere con giochi (anche molto crudeli) che attiravano il pubblico. Per vedere, ad esempio, un gatto vivo ma inchiodato a un asse che veniva ucciso a capocciate da giovani ritenuti animosi, che così si facevano sconciare il volto (era il “gioco del gatto”); o un gruppo di cittadini che, in recinto chiuso, massacrava a bastonate un maiale (il “gioco del porco”). C’erano anche le giostre, le quintane, i tornei, i giochi con la palla, perfino le sassaiole dei ragazzi. Erano questi gli intrattenimenti del tempo libero; in un periodo in cui questo (cioè il tempo liberato dalla quotidianità lavorativa, dalla fame e dalla miseria) era molto scarso e generava appunto forme feroci di intrattenimento e richiamo.
Il viaggio per antonomasia era quello del pellegrino, a volte imposto come penitenza, di solito compiuto pro remedio animae. Le tre mete maggiori erano la Terrasanta, Roma e la tomba dell’apostolo Giacomo a Compostela: chi si metteva in uno di questi viaggi faceva prima testamento. Ne rimangono diversi fra cui uno (presso l’archivio di Stato di Firenze) in cui il pistoiese Urbano dispose dei suoi beni prima di partire per Compostela: è del XII sec. ed è stato pubblicato nei Regesta Chartarum Pistoriensium. Pellegrini e viaggiatori potevano contare, quando disponibile, su di una rete di ostelli, ospizi, spedali, xenodochi (nome che richiama l’ospite straniero), con assistenza religiosa e anche laica. La novellistica cita a questo proposito molti aneddoti curiosi come quello del Boccaccio, nel Decameron, relativo al birbante Fra’ Cipolla nell’importante magione di Altopascio. Il viaggio, e in particolare il pellegrinaggio, era anche produttore e divulgatore di cultura; non a caso si ripete che la diffusione del Romanico corresse lungo il corso della via Francigena percorsa dai pellegrini.
Tutto ciò è avvenuto per molti secoli, con costo di grandi sofferenze e pericoli, ma anche con memorie di miracoli, nascite di leggende, creazioni di paesi e migrazioni di genti. Le vie del cammino sono state per molto tempo i luoghi dell’integrazione fra popoli e culture diverse, mentre le città, spesso separate dalle campagne mediante mura o altre opere di difesa, erano luoghi di conservazione delle memorie e culture locali.
Possiamo dire che oggi questa opposizione si è invertita: le città sono meta privilegiata per migranti e crogiuolo di culture diverse, mentre le vie di comunicazione vengono percorse con veicoli di diverso tipo, dagli aerei più veloci ai barconi della speranza, e ai mezzi più disparati per fuggire dalla guerra e dalla miseria. Ma i concetti fondamentali del cammino non sono poi molto cambiati: chi si mette in viaggio segue una speranza, si pone di fronte al mondo con interesse e apertura al diverso, cambia profondamente il suo rapporto con l’altro perché sulla strada ognuno è più libero, ma allo stesso tempo non può fare a meno dell’altro. Si cammina per conoscere e per incontrarsi, due attività attraverso le quali riscoprire il nostro carattere più profondo di essere umani. “Nessun ragazzo, per la prima volta libero e con venti ghinee in tasca, si sente veramente triste. E Barry partì alla volta di Dublino senza tanto pensare alla cara mamma rimasta sola e al focolare lasciato alle sue spalle, quanto al domani, con tutte le meraviglie che gli avrebbe portato”, cita il narratore del Barry Lyndon di Stanley Kubrick; e ancora, nel bene e nel male, questo è lo spirito che coglie chiunque di noi si mette in cammino.