Matilde si trovava a bordo del luminoso e sfrecciante jet diretto a Città del Messico, insieme a Gunther, il suo cane dalmata, abilmente nascosto in una coloratissima cesta di vimini addobbata a festa. Era Natale e nessuno avrebbe mai pensato che sotto quella piccola piramide di profumati cibi italiani, dono per una famiglia messicana che avrebbe ospitato quella bella e bionda turista straniera, si nascondesse un cucciolo.
Certo il lungo volo non avrebbe aiutato quella bestiola, che doveva pur mangiare e uscire da quel nascondiglio segreto. Ma durante la proiezione dell'ennesimo rocambolesco film americano, nel corso di una sparatoria fra i buoni e i cattivi, Matilde avrebbe fatto uscire per un poco l'animale. Anche se l'impresa si sarebbe rivelata tutt'altro che semplice, vista la presenza, nel sedile accanto a lei, di un altero colonnello super-decorato accompagnato dalla sua grassa e profumatissima moglie dalle collane di prezioso e lussuoso corallo rosa.
Una simpatica finta biondina di provincia, che, in verità, assomigliava un poco alla sua parrucchiera tatuata, continuava a masticare patatine bisunte accompagnate da bicchieri di Coca-Cola. Non pareva curarsi delle turbolenze che cominciavano a shakerare l'aereo, figuriamoci se poteva occuparsi di lei e del suo piccolo e irrequieto Gunther.
Una ballerina di un quartiere parigino periferico chiamava ad alta voce una certa Elisabeth per informarla che l'hostess le aveva portato il pranzo, una fettina di roastbeef con un po’ di asparagi. Liz, così si faceva chiamare, arrivava di corsa con accanto un bimbo di pochi anni che sventolava il suo bicchierino di plastica con l'immagine in rilievo di Titty e di Gatto Silvestro.
Una giovane giornalista di guerra, con i capelli lisci divisi da una linea centrale marcata, preparava le sue nuove apparecchiature fotografiche per il servizio sul Comandante Marcos, uno dei tanti servizi che avrebbe occupato le pagine patinate di una rivista d’attualità alla moda. Matilde sapeva poco di quell'uomo mascherato che, come un eroe d'altri tempi, si nascondeva fra le montagne. Pensava solo che fosse un po’ strumentalizzato dalla stampa straniera e che giovani ragazzini, che spesso non conoscevano nemmeno la storia del loro Paese, scrivessero sui muri cittadini frasi di sostegno all'EZLN senza sapere di cosa si trattasse. Ma lei non si occupava di politica e voleva fare la scrittrice. Per questo aveva scelto il Messico, Paese dai mille contrasti e dalle intense passioni. D’altra parte, aveva immaginato la passione a partire dalle lunghe ciglia di un messicano.
Matilde continuava a osservare i personaggi che popolavano quel velivolo diretto a quello che sarebbe stato il suo Paese per parecchi mesi, in cerca di ispirazione. Così vide un uomo d'affari che cercava di utilizzare il suo computer portatile, nonostante il divieto di accensione in volo, mangiando qualche cioccolatino al latte, probabilmente svizzero. Forse, troppo stressato, non riusciva a riposare la mente nemmeno per pochi minuti, incapace di fantasticare sulle nuvole e sulla pioggia che iniziava a cadere dolcemente. Nessuna ispirazione poteva arrivare da un tipo simile. Rivide allora Elisabeth, o Liz, e la giornalista di guerra, ma il suo sguardo si posò su un giovane che estraeva da uno zaino un paio di ciabatte Dockstep di colore nero pece. Si infilava quelle orribili calzature e ricominciava a frugare nel suo zaino variopinto e rappezzato, estraendovi subito dopo la scatola del gioco del domino.
Matilde non pensava a Gunther, che scalpitava per uscire da tutta quella paglia punzecchiante che lo ricopriva, e continuava a fissare quel giovane, già visto, ma dove? Lui la guardava e tutto era immobile come in un'inquadratura fissa di un film muto in bianco e nero un poco sbiadito.
Scavalcando una vecchia signora vietnamita che leggeva un libro su come curarsi con l'agopuntura, Matilde, come narcotizzata, si avvicinava a quel giovane che la invitava a giocare a domino. A un domino dall’aria vissuta. Senza presentazioni, iniziavano una partita che si sarebbe protratta per tutto il volo, una partita dopo l'altra, con una musica argentina in sottofondo. I due, concentrati sulle pedine del domino, ogni tanto si sorridevano, sembrava un vero tango, dolce, impetuoso ed estremamente passionale. Non una parola che facesse intuire le rispettive nazionalità, le loro destinazioni. Certo volavano entrambi su Città del Messico, ma forse le loro strade si sarebbero da lì divise. Matilde sperò che ciò non avvenisse, senza sapere né domandarsi il perché. Sembrava di scorgere un fuoco d'artificio illusorio e pericoloso al di là delle solite nuvole. Il sorriso rapido di quel vicino inaspettato attraversò il buio dei suoi pensieri e si andò a posare sulle mani di Matilde che prendevano nota del nome e dell'indirizzo dello sconosciuto, che ancora non aveva aperto bocca. Eppure lei scriveva. Si sarebbero rivisti. Molto presto.
Aveva dimenticato Gunther, era ora di tornare da lui, e si alzò di scatto. La povera bestiola reclamava la sua aria. Annotò sul suo taccuino a fiori rosa e azzurri tutti i passeggeri che più l'avevano colpita, nell'intento di trasformarli presto in tanti piccoli e simpatici personaggi. Voleva fare la scrittrice. Come la bella addormentata voleva riprendere il timone della sua esistenza, fino al quel momento rinchiusa in un piccolo ufficio di provincia a guardia di un telefono grigiastro che non squillava quasi mai. Poi il salto improvviso e liberatorio. Il volo. E tanti ricordi sarebbero volati via con lei. Dall'alto cominciava a scorgere l'immensa città che l'aveva catturata fin dalle cartoline, dai racconti dei suoi amici messicani e dalle pagine di Fuentes. Mille luci e colori, tante strade brulicanti di puntini in movimento ed automobili. Man mano che l'aereo scendeva aumentava il caos, il rumore, la paura di quello che molti definivano un mostro, la difficoltà a respirare. Non poteva aver paura, non ora che era così vicina. Non ora.
Scendendo dalla scaletta dell'aereo, l'aria mancava, i 2200 metri si facevano sentire. Soffocava. Fu sorretta dal giocatore di domino che avrebbe rincontrato e che, aveva deciso, sarebbe stata la sua principale ispirazione. A occhi bendati. Senza domandarsi nemmeno perché.
Mi ricordo, certo che mi ricordo di Matilde. Ero un poco anche io e il Messico che aveva sfiorato la mia giovane vita. Passando come un soffio leggero sulle mie spalle. Un alito leggiadro di ricordi. Dalla finestra sui tetti bagnati di quella città sempre più familiare che oramai Parigi era divenuta per lui, Marc ascoltava Strangers in the night e quella radio con le pile oramai scariche che suonava vecchie canzoni, ma pur sempre belle e romantiche. Aveva deciso di essere libero e aveva lasciato alle spalle, per qualche ora, quello che credeva il grande amore della sua vita. Era realmente la donna per lui, ma come capita a tutti gli uomini che, come lui, a 40 anni sono ancora single, una ragione c’era, non voleva legarsi.
Eppure quella bambina, come lui la definiva, gli era entrata nel sangue. Pronto a prendere il prossimo treno per vagare solo con la sua anima verso i prati verdi inglesi, la sua valigia pareva sempre più pesante, a ogni passo che faceva. Gli mancavano le lettere, le telefonate e le sue dolci lacrime, ma la pausa era necessaria. Si chiedeva perché di tanta stupidità e paura, ma continuava sulla strada che sapeva sbagliata. Se solo lei sapesse come in realtà l’amava, come le giornate non fossero le stesse senza la sua voce pur lontana e le sue scene di gelosia. In fondo al suo cuore Dio bussava piano per non rompere i vetri così fragili. Cercava di risparmiare le sue energie deboli per avere il coraggio di tornare da lei e ammettere di aver sbagliato. Ma la voglia di libertà era troppo forte, il desiderio di scrivere il suo romanzo da solo era voracemente presente, ovunque. Gli errori, gli errori.... In, out, down et out... tutto difficile e contraddittorio senza di lei. Ma come dirglielo, come ammetterlo???
Guardare una galleria di quadri e una collezione privata di un ricco americano non lo aiutava molto in quel momento, sognava di essere bianco e biondo, senza quella differenza culturale che marcava la loro concezione di fedeltà e di amore, senza quella diversa concezione della vita e del destino, senza quel pessimismo cosmico che li separava... Aveva dimenticato la lavatrice in funzione. Aveva lasciato l’acqua della vasca scorrere senza tempo e senza alcunissima fretta. Aveva chiuso la porta di casa con una chiave di plastica trovata nell’uovo di Pasqua di due anni prima e che curiosamente si trovava nella tasca destra dei suoi pantaloni neri un poco scoloriti e sdruciti. Aveva portato con sé un libro russo che non sapeva comprendere e un saggio sull’induismo che non gli interessava per nulla. Compiva azioni senza senso e fine. Ma si sentiva libero.
A quale scopo, tuttavia, se era così perso e triste? Avrebbe voluto accendere una candela in una chiesa, ma a quale scopo se non era credente? E con quali soldi? Di quale moneta fra tutte quelle che aveva in tasca da anni? Un real, un franco francese o una sterlina? Eppure avrebbe voluto intraprendere un viaggio nel mondo intero solo con lei, con un battello che attraversasse mari e montagne per il mondo intero e che volasse nel cielo più luminoso, solo con lei. Purché lei non lo lasciasse cadere. Non avrebbe sopportato una caduta libera, non sarebbe sopravvissuto a un salto nel vuoto, senza qualcuno giù ad aspettare. I libri cominciavano a soffocarlo, tutta quella massa di sapere ricadeva sui suoi capelli neri, sulle sue larghe spalle annoiate dal caldo. Il colore della Florida illuminata dal sole estivo di un poster dall’altro lato della strada e la sua pelle profumata stridevano con i colori grigi del cielo e le nuvole minacciose. Gli sembrava di vedere un raggio di luce passare per la calle dalle antiche fattezze di dama che avevano visto insieme a Venezia. Le immagini balneari del suo Paese si confondevano con i paesaggi italiani, parigini e londinesi. Tutto nell’aria ricordava lei, tutto girava intorno alle immagini che si confondevano con i suoi occhi. Era tempo di tornare. Mi ricordo, sì mi ricordo, mentre cercava di tornare da lei che però chiudeva la porta dei ricordi.
Una scrittrice forse inglese, forse americana aveva ben sintetizzato quello che era accaduto anni prima fra Serafina e Osvaldo: "todo y nada", ossia l’amore. Qualcosa ritornava alla mente. Si erano incontrati a Parigi, per caso, sulle scale di quella residenza universitaria così imponente, sulla quale troneggiava la scritta "Mexico". Prima di quel momento Serafina nulla o poco sapeva di quel lontano Paese meraviglioso. Forse qualche film o qualche cartone animato o la storia di un’amica che aveva trascorso alcune settimane di vacanza nel sud del Paese, alla ricerca di favolosi siti archeologici dove Jules Verne si sarebbe volentieri avventurato e perso. Al centro della terra e dei pensieri di ogni individuo non ragionevole e forse un poco scapestrato e fantasioso.
Mai Serafina, così razionale, avrebbe pensato che quell’incontro avrebbe per sempre segnato la sua tranquilla esistenza. Mai avrebbe creduto che i contrasti e il superamento della misura tipici di quel Paese e dei suoi artisti l’avrebbero assalita e rivoltata come un povero vecchio guanto rattoppato. Ma questo accadde. La forza di Osvaldo e il suo calore la bruciarono. Il segno fu indelebile. Il sogno, di breve durata. Così la loro storia, "todo y nada", così la partenza. E la camera di Serafina si riempiva dei libri più svariati di autori latinoamericani. Libri acquistati ovunque, nelle librerie di Parigi, Londra, Madrid, Città del Messico, Rio de Janeiro e Roma. Quella cultura affascinante l’aveva travolta, coinvolgendola fino a farla sembrare la protagonista di ogni pagina che leggeva. Un’avventura, un mito, una filosofia particolare che le bruciava l’anima divenuta un poco ispida.
La musica delle strade parigine e le bande di ogni nazionalità che cercavano di comunicare la propria identità cominciavano un po’ a infastidirla. Osvaldo non era più accanto a lei, era così lontano. Dopo il cemento, la spiaggia, dopo il fumo e il sole. Oltre il cemento, la spiaggia, il fumo e il sole. E un aereo che volava così lontano. Il giardino di Lussemburgo con le sue fontane e i suoi fiori pareva solo polvere bianca che fastidiosamente si attaccava alle sue scarpe da tennis un tempo bianche. La rue de l’Opéra che aveva percorso di notte sulla macchina sportiva di Osvaldo, sembrava solo un groviglio di luci accese per i turisti romantici d’oltreoceano e certo ignari di quel che stava avvenendo a Venezia.
Mi ricordo di tutto questo. Certamente che ricordo. Come dimenticare quell’alba dorata. Il ricordo del Messico che veniva vertiginosamente e improvvisamente soppiantato dal Brasile. Per ritornare, infine, in Italia in una città priva di nebbia ma che presto sarebbe stata immersa in una leggera foschia di nuovi ricordi altrettanto intensi e profumati. Quelli che sarebbero diventati il futuro. Mi ricordo, certo che mi ricordo quel profumo inebriante e quel bacio infinitamente bello...
I personaggi gentili di queste pagine non si incontreranno mai, né si dovranno mai incontrare. Nemmeno scorgere o intravvedersi l’un l’altro da lontano. Sarebbe un guaio. E i ricordi appartengono a una persona, che resta sola in questo, e se pur si incrociano vivono separatamente, come in un piccolo scompartimento a chiusura stagna temporaneamente ospitato dalla luna. D’altra parte tutti questi personaggi romantici e gentili rappresentano tappe che si susseguono, talora si incrociano, talaltra si sopprimono violentemente l’un l’altro. L’uno schiaccia l’altro. Il primo cancella il secondo. Il terzo annienta il primo. Il quarto completa il secondo. Tutti insieme non creano la persona e la situazione ideale. Se si incontrassero, anche per caso, ne uscirebbe un terribile guazzabuglio. Forse si picchierebbero, si prenderebbero a pugni, si sfiderebbero a duello (alcuni sono più all’antica di altri...) o a una partita di Playstation (altri sono più moderni...). Insieme lottano con e contro se stessi. La forza dei ricordi è incredibile. Dentro e fuori. Da soli consolano, con e contro gli altri. L’uno dà la forza, l’altro la toglie. L’uno arricchisce, l’altro deruba. L’uno innalza, l’altro ripudia. L’uno ricorda, l’altro dimentica. L’uno prende, l’altro abbandona. L’uno piange, l’altro ride. E, egoisticamente, si prendono tutto quello che si può. Ma poco importa. L’essenziale è essersi divertiti e ricordare solo il più bello.
Mi ricordo, sì mi ricordo di tutti voi che mi avete tanto amato, talora bene, talora male. Siete pur sempre un’aurora dietro questi palazzi grigi, una ballata sterminata fra campi dorati, una musica dolce e passionale di tutta una vita. Vi ricorderò, come non potrei. Ma ora lasciatemi un poco sola.