7.646.621.565, questi siamo attualmente sulla terra ed è inevitabile pensare che per ciascuna unità si produca spazzatura in quantità indefinita; praticamente la spazzatura ci sommergerà se non mettiamo in atto stringenti misure per riciclare al massimo i nostri rifiuti.
La parola rifiuto è associata a una percezione negativa è ovvio se la pensiamo come scarto del quale liberarsene è un incubo ma ha anche un'accezione positiva se invece la intendiamo come possibile risorsa. Spesso assistiamo a immagini e video di realizzazioni di case con alcuni elementi recuperati dal rifiuto, fatte di bottiglie di plastica, di pneumatici e di tutto l'impensabile.
Uno dei primi prototipi edilizi che ha dimostrato che costruire utilizzando quasi esclusivamente i rifiuti è possibile, è la Waste House realizzata nel campus dell’Università di Brighton sulla base dell’idea dell’architetto e professore Duncan Baker-Brown dello studio BBM, che partendo dalle fondamenta a venire fino al tetto ha al suo interno granulato di scarto, assi di legno recuperate da edifici dismessi, spazzolini da denti, vecchi abiti, custodie DVD e videocassette VHS. Esiste poi una variabilità enorme di quello che viene definito il “greenbuilding”, come le case fatte di scarti agricoli (paglia, erba e alghe), c’è chi, come l’azienda canadese Jelinek Cork Group, realizza pannelli e pavimenti a partire dai tappi in sughero riciclati, come invece aziende che recuperando vecchi giornali che vengono trasformati in legno, per finire (?) con i mattoni in plastica riciclata RePlast, prodotti con plastiche varie, atossici poiché senza emissioni nocive. Inoltre pensiamo a quante opportunità di impianto di nuove industrie che nascono dalla ri-produzione dei materiali e alle nuove opportunità di lavoro connesse.
Da ciò si evince che riciclare è obbligatorio sia per la nostra sopravvivenza in termini di spazi, di inquinanti e di salute che per evitare di avere ulteriore produzione di nuovo materiale, anche perché ci stiamo impoverendo esponenzialmente di materie prime. Con l'approvazione in via definitiva avvenuta il 22 maggio 2018 delle quattro direttive sui rifiuti costituenti il cosiddetto «Pacchetto economia circolare» l'Unione europea ha dato il via al programma finalizzato alla costante rigenerazione delle risorse utilizzate. Nella logica della circolarità vengono infatti introdotti nuovi e ambiziosi target minimi per il riciclaggio dei rifiuti urbani: 55, 60 e 65% in peso rispettivamente entro il 2025, 2030 e 2035.
Per ottenere il massimo riciclo dai rifiuti è essenziale che il produttore differenzi al massimo e con attenzione i suoi scarti di casa, cosicché i comuni possano vendere agevolmente i vari materiali alle aziende che si occupano di trasformazione del materiale. Questo per coscienza civica deve essere introdotto nelle abitudini del cittadino, istruendolo a una corretta divisione e scelta dei materiali da separare, gli appositi bidoncini nelle nostre case poi fanno il resto. Ma in che modo nelle città devono essere raccolti i nostri rifiuti differenziati?
Qua la questione divide l'opinione pubblica tra chi inneggia il sistema porta a porta (pap) come risolutivo e massimo di efficacia e chi lo vede come un ulteriore elemento di degenerazione urbana. Ebbene, l'idea che differenziare per un sistema pap sia più efficace rispetto a quello che prevede la raccolta nei cassonetti differenziati, è da capire. Nel momento in cui nelle case si decide di differenziare, lo si fa con lo stesso scrupolo a prescindere da come e dove verranno collocati i vari sacchetti.
Il pap può funzionare nei piccoli centri, nei paesi come proposta di cortesia della Amministrazione ma non nelle grandi città. Le città aumentano di densità, si pensi agli standard abitativi di un tempo che adesso vengono nella maggior parte ridimensionati. In un condominio degli anni '70 potevano esserci dieci appartamenti, adesso si fraziona in unità più piccole e può essere che quei dieci appartamenti oggi siano sedici. La vita è più veloce, si compra ai supermercati e tutto ha un incarto, un contenitore, è ovvio che i rifiuti di un palazzo ammontino a diverse decine di sacchetti che vengono posti fuori dei portoni, sui marciapiedi, accatastati, accumulati come muri o montagne contribuendo a dare una visione sciatta e anacronistica di degrado urbano. Le montagne di sacchi invadono fino ai margini della strada, a volte rotolano e intralciano il parcheggio per le auto, Senza pensare al fatto che possono rompersi e aumentare l'effetto degrado. Possono essere oggetto di atti vandalici o essere casuali incidenti nel caso in cui si incendino diventando roghi pericolosi per l'incolumità delle persone e per gli effetti tossici se bruciano plastiche. Altro problema, l'orario di raccolta che obbliga il consumatore a esserne vincolato limitandone le abitudini o gli imprevisti. In più, se pensiamo ad esempio a una città come Roma, ci rendiamo conto di quanti palazzi e abitazioni e quindi porte ci siano? Sostenere un numero elevato di operatori che nell'arco di qualche ora pulisca dai sacchi tutta la città, che costi ha?
Allora non è meglio passare come fanno in molte città evolute a cassonetti differenziati interrati ad apertura con tessera? L'utente ogni volta che apre un cassonetto a differente contenuto, inserendo la tessera viene registrato, si conosce quindi quanto produce in termini di immondizia “pay as you throw” (paghi quanto sporchi) che già da moltissimi anni è in vigore a New York e in altri stati americani, così come nelle grandi città dell'Asia e in parte dell'Europa (la Svizzera è stata la prima). Allo stesso modo con il solito sistema di riconoscimento premiare chi differenzia di più con sconti sull'imposta dei rifiuti.
Insomma la tendenza generale è evolvere con sistemi tecnologici efficaci che consentano una vivibilità migliore e al contempo osservare le regole del decoro urbano e non certo quella di tornare indietro di 50 anni con montagne di sacchi di rifiuti che invadono città, che poi le nostre sono tutte città d'arte, ma che figure facciamo? Da Italietta.
Ricordando poi l'etimologia della parola immondizia: dal lat. immunditia, der. di immundus «immondo» (Treccani), non vogliamo certo che l'immondo dilaghi.