“Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona” (articolo 3 della Dichiarazione Universale dei diritti umani).
18 agosto 2018
Sono a Velika Kladuša, Bosnia, 240 chilometri da Trieste. A pochi chilometri dalle località balneari prese d’assalto dai turisti d’agosto, a pochi passi dalle nostre sicurezze e dal nostro benessere, migliaia di persone si stanno ammassando lungo il confine della Croazia. Mancano pochi chilometri a un traguardo sognato per un tempo infinito. Ci sono persone in viaggio da anni, oggi ho parlato con una ragazzina di 16 anni che ha lasciato la Siria 4 anni fa. Penso a mio nipote, che ha dodici anni, e rabbrividisco. Qui la gente si sta ancora abituando alla presenza crescente di questi uomini, donne e bambini in fuga, ma il ricordo della fame, della violenza, della paura è ancora impresso in modo nitido nella memoria delle persone del luogo, l’empatia è tanta.
La Bosnia è un paese povero e impreparato ad accogliere i rifugiati che percorrono la nuova rotta balcanica che dalla Grecia passa per l’Albania e il Montenegro per arrivare qui, alle porte dell’Europa. Ma l’Europa queste sue porte le ha chiuse, negando il diritto alla protezione internazionale, in aperta violazione dei diritti umani, rinnegando un concetto che da 3500 anni fa parte della nostra storia e della nostra cultura: il concetto dell’asilo.
MSF parla di 4000 di migranti e rifugiati bloccati al confine della Bosnia con la Croazia e se oggi le condizioni sono drammatiche, con l’arrivo delle piogge e dell’inverno saranno impossibili. C’è un campo improvvisato a ridosso di un torrente, dove al momento vivono circa 350 persone: il terreno è argilloso, impermeabile, qui basta un modesto acquazzone per allagare tutto. Ci sono tende fatte con teli di plastica, ripari di fortuna, parecchi bambini, famiglie, minori non accompagnati, c’è molto silenzio e molto dolore.
Dio mio... come vi sentireste ad essere catapultati fuori dalla vostra vita, scacciati dalle vostre case, come vi sentireste dopo aver percorso migliaia di chilometri circondati da pericoli, freddo e ancora violenza e morte? Come vi sentireste dopo un viaggio durato non mesi ma anni? Da qui, quando sei arrivato dall’Afghanistan, dal Pakistan, dall’Iran o dalla Siria, l’Europa è talmente vicina che ti sembra di poterla toccare. Ci sono persone che hanno tentato di attraversare la frontiera per 17 volte, i profughi vengono intercettati, bastonati, derubati, i telefoni cellulari distrutti: il cellulare è una zattera emotiva, l’unico contatto con il proprio paese, le proprie madri, i propri figli, e la sua perdita fa male più delle botte. Ti mostrano i telefoni distrutti e inutilizzabili con una espressione di incredulità negli occhi e ti chiedono “perché?”.
Le testimonianze crescono e si accumulano, la violenza della polizia croata di frontiera oramai non risparmia neanche le donne e i minori. Le storie sono terribili. Dopo essere fuggiti dall’inferno, persone inermi, bisognose di aiuto e protezione, vengono denudate e picchiate, tra le risate della polizia croata. Chi ne parla? Nessuno. Ma da qui i volontari stanno tentando di aprire una breccia nel silenzio e conquistare l’attenzione dell’opinione pubblica.
Stringo le mani a un padre che sta partendo per tentare di arrivare in Italia. Tra un’ora sarà buio, lui con la moglie e una bellissima bambina di 4 anni si stanno mettendo in marcia, con scarpe inadatte, un bagaglio inesistente, vestiti troppo leggeri e niente che li possa riparare dalla pioggia. La madre ha uno sguardo pieno di angoscia, lui ha occhi pieni di speranza, la bambina sorride: l’infanzia ha sogni potenti che ti proteggono dalla comprensione della realtà. Indossa una maglietta pulitissima con un delfino disegnato sopra, e ha un paio di infradito. Ma come si fa ad attraversare un mondo ostile con dei piedi così piccoli infilati in un paio di ciabattine di gomma?
È la speranza negli occhi di questo padre che mi apre una voragine nell’anima, li guardo partire e non riesco a pensare, ho solo voglia di piangere. È un’onda di dolore e vergogna e rabbia, è la misura della mia impotenza di fronte a questa enorme tragedia e a questa piccola famiglia, perché non posso dire loro “vi diamo un passaggio, fermatevi a cena, ma si figuri signora, con la creatura...”.
Perché devo guardarli partire da soli, con il buio che si avvicina, e all’orizzonte una linea di nuvole che promettono un acquazzone entro la prossima mezz’ora.