Tardo Cretaceo, regione meridionale del Laramidia, corrispondente all’odierno Texas, fine della grande stagione delle piogge. Il predatore alfa del subcontinente, 65 milioni di anni fa era un teropode gigante appartenente al gruppo dei dinosauri saurischi noto oggi col nome di Tyrannosaurus Rex e, a parte le ossa fossilizzate, gli odierni scienziati di lui non hanno capito nulla.
Il razionalismo, l’anti sensazionalismo e un assurdo timore di abbandonarsi al meraviglioso hanno impedito loro di cogliere l’essenza di quella creatura portentosa ritenendo, sulla base di congetture offuscate dal riduzionismo tipico degli uomini di scienza, che fosse solo un goffo, solitario e lento mangiacarogne. Invece era un cacciatore formidabile capace, grazie ai potentissimi muscoli caudofemorali, di correre fino a 60 km all’ora, di girarsi su se stesso piegando collo e coda e avvicinando gli arti al corpo come un pattinatore per vincere il momento inerziale che la sua massa corporea gli imponeva.
Aveva una vista più acuta delle aquile, capace di distinguere particolari del paesaggio fino a 6 km di distanza, una visione binoculare, un udito finissimo esteso agli infrasuoni e un olfatto da segugio perché in effetti, come i grandi predatori odierni, non disdegnava di mangiarsi una carogna quando gli capitasse l’occasione, ed era capace di fiutarla a km di distanza; inoltre non aveva certo bisogno di scaldare al sole ogni mattina le sue 8 tonnellate per entrare in attività perché era un animale omeotermico e per di più, come i suoi attuali eredi, gli uccelli, era coperto di piume che lo aiutavano a non disperdere calore. Non era affatto un solitario, cacciava in piccoli gruppi familiari e i giovani spingevano con inseguimenti plateali le veloci e terribili prede in fughe disordinate fino nelle fauci della madre in agguato perché erano le femmine i veri giganti della specie.
Ebbene in quella pianura alluvionale del tardo Cretaceo una grande femmina di Trex aveva appena abbattuto con un attacco fulmineo un adrosauro e si accingeva a divorarlo con calma, riprendendo fiato dopo il breve inseguimento perché nulla di questo mondo avrebbe potuto frapporsi tra lei e la sua preda... nulla di QUESTO mondo.
Luglio 1986, gole di Frasassi, Italia centrale.
In quell’anno, giovane medico specializzando, ero stato inviato dall’Alma Mater Studiorum: vale a dire l’Università di Bologna, a svolgere un incarico di grandissimo prestigio e responsabilità: il medico termalista presso uno sgangherato stabilimento termale della zona che aveva l’unico pregio di trovarsi a poca distanza dalle gole di Frasassi, una meraviglia geologica che era stata scoperta pochi anni prima e a cui avevo libero accesso poiché la cassiera era una mia paziente e mi faceva entrare quando volevo. Come sa bene chi mi conosce, io sono sempre stato un appassionato di scienze naturali e allora mi interessavo particolarmente di geologia e di paleontologia. In particolare i fossili di ammonite mi hanno sempre affascinato con la loro perfetta spirale antidiluviana disegnata dalla Natura secondo la regola della Sezione Aurea.
Sapevo che quella regione era ricca di affioramenti fossiliferi oltre che di meraviglie naturali, paesaggistiche e storiche, per cui avevo accettato volentieri un incarico che altrimenti sarebbe stato ben poco allettante, ma mi serviva una soffiata per sapere dove indirizzare la mia ricerca. Nel piazzale antistante l’ingresso delle grotte stazionavano alcuni venditori ambulanti con cianfrusaglie e paccottiglia varia da rifilare ai turisti, ne notai uno in particolare che aveva attirato la mia curiosità perché invece di souvenir o di panini alla porchetta, vendeva fossili e minerali.
Come ho già detto passavo di lì tutti i giorni al ritorno dal lavoro e mi fermavo sempre alla bancarella dei fossili così dopo un po’ ho fatto amicizia con l’ambulante, anche perché aveva bellissimi reperti e soprattutto perché se li andava a cercare lui stesso nelle montagne lì attorno, e speravo quindi che potesse essere una preziosa fonte di suggerimenti... come ero ingenuo! Ancora non avevo capito che i cacciatori di fossili sono peggio dei cercatori di funghi o di tartufi in quanto a reticenza a condividere i terreni di ricerca.
Alla fine, dopo l’acquisto di alcuni costosi reperti e la promessa solenne di non rivelarlo ad anima viva, ottenni faticosamente la soffiata che cercavo: le ammoniti più belle venivano da una gola vicino a Gubbio che distava poche decine di bellissimi, verdeggianti, deliziosi km di strada da lì. Mi disegnò addirittura una mappa per indicarmi il punto esatto dove scavare.
La domenica seguente, approfittando del giorno libero, andai alla ricerca della gola del Bottaccione, cosi si chiamava il luogo segreto dove affiorava la vena ammonitica. Dopo un paio d’ore di strada imboccai una stretta valle e mi fermai esattamente nel punto segreto indicatomi dal mio amico cercatore di fossili ma c’era decisamente qualcosa che non andava. Controllai nuovamente la mappa e non c’era dubbio, il posto era proprio quello però era pieno di gente che scavava. Alla faccia del segreto! Comunque mi avvicinai e notai subito che, anziché un gruppo di dilettanti quella sembrava una spedizione scientifica vera e propria con tanto di tenda del direttore delle ricerche. Erano quasi tutti ragazzi e chiesi a uno che mi pareva più alla mano cosa stessero facendo. Venni allora a sapere che erano studenti di geologia e che non stavano cercando fossili ma stavano studiando una particolare stratificazione geologica che affiorava proprio lì. Sempre più incuriosito per tanto spiegamento di forze, chiesi cosa avesse di così particolare quello strato di roccia e allora lui mi raccontò una storia fantastica e terribile.
Qualche anno prima una spedizione geologica guidata dal professor Walter Alvarez, un archegeologo e paleontologo americano, stava studiando le stratificazioni fossili in quella zona e notò che uno strato più antico di carbonato di calcio risalente al tardo cretaceo era ricco di fossili di microorganismi e conchiglie mentre lo strato successivo più recente, corrispondente al periodo terziario, ne era privo, anzi, era totalmente privo di tracce di vita fossili. I due strati erano separati nettamente da un sottile strato di sedimenti nerastri che, esaminati, si rivelarono composti prevalentemente da ceneri ma con una sorprendente particolarità: erano ricchi di iridio, un metallo estremamente raro sulla crosta terrestre ma presente in abbondanza sulle meteoriti provenienti dallo spazio profondo. Ancora più sorprendente fu la scoperta che quello strato ricopriva tutto il pianeta, separando quindi sedimenti precedenti ricchi di vita da sedimenti successivi totalmente sterili.
Lo scienziato ipotizzò che l’iridio presente in quel sottile strato non fosse di origine terrestre ma provenisse dalla esplosione di un colossale meteorite dopo l’impatto con la Terra e che aveva ricoperto per qualche anno l’intera superficie del globo con le sue polveri, che prima causarono un repentino abbassamento delle temperature, poi precipitarono al suolo in forma di letali piogge acide.
La datazione collocò lo strato dell’iridio in un breve lasso di tempo corrispondente a 65 milioni di anni fa, tra la fine del cretaceo e l’inizio del terziario, esattamente quando si verificò l’ultima grande estinzione di massa che portò alla scomparsa dei dinosauri che a quell’epoca dominavano la vita sulla Terra. Qualche anno dopo venne scoperto al largo della costa settentrionale della penisola dello Yucatan, l'odierno Messico, un enorme cratere del diametro di 180 km con epicentro in corrispondenza della città portuale di Chicxulub, e così si ebbe anche la collocazione dell’evento catastrofico ipotizzato da Alvarez. Era la pistola fumante, il tassello mancante per spiegare finalmente un mistero che aveva sempre dominato la paleontologia e le mie fantasie da bambino affascinato dai dinosauri.
Torniamo allora in quella pianura alluvionale del tardo cretaceo dove una grande femmina di Trex aveva appena abbattuto un adrosauro e si accingeva a divorarlo. Non era tranquilla, qualcosa nei suoi sensi primordiali ma acutissimi la rendeva inquieta e la spingeva spesso a guardare il cielo notturno, da qualche tempo bagliori e cupi boati laceravano le notti e non erano i tuoni e i fulmini dell’atmosfera terrestre, quelli li conosceva bene.
A un certo punto, nel silenzio assoluto, un lampo accecante, infinite volte più intenso del fulmine peggiore che la terra avesse mai conosciuto, le bruciò la retina rendendola cieca e forse lei ruggì cieca di terrore prima di venire spazzata via, vaporizzata dall’onda d’urto dell’impatto insieme a miliardi di creature e a una cospicua porzione di crosta terrestre perché un planetoide, un corpo celeste che gli scienziati, milioni di anni dopo calcolarono avesse le dimensioni dell’Everest, si era appena schiantato a centomila km all’ora ad appena mille miglia da lei.
Una serie di cataclismi seguì quell’evento portando sconvolgimenti climatici e geologici tali da causare la scomparsa non solo dei dinosauri ma di almeno il 75% delle specie animali e vegetali viventi a quel tempo sulla terra.
I mammiferi, che erano comparsi sul pianeta insieme ai grandi rettili, riuscirono a sopravvivere alla catastrofe probabilmente perché, piccoli come erano, poterono nascondersi. Dapprima timidamente poi sempre più baldanzosi presero possesso dei territori lasciati vuoti dai dinosauri, si differenziarono in numerosissime specie e infine riconquistarono i continenti e proprio grazie a quella montagna di iridio venuta dallo spazio a infrangersi sulla Terra noi, loro discendenti, ne siamo divenuti ora i padroni assoluti.