Concedetevi una vacanza
intorno a un filo d’erba,
dove non c’è il troppo di ogni cosa,
dove il poco ancora ti festeggia
con il pane e la luce,
con la muta lussuria di una rosa.(Franco Arminio)
Da un po’ di tempo si sente parlare di shinrin-yoku, la teoria giapponese del bagno nella foresta per ritrovare il proprio equilibrio psicofisico che prevede una totale immersione nell’ambiente del bosco. Perdersi nel paesaggio, assimilare gli oli essenziali degli alberi, prendersi del tempo per farne propri i colori e gli intensi profumi ha numerosi effetti positivi.
Se in origine, negli anni ’80, il termine fu coniato a fini commerciali, perché si voleva fare in modo che sempre più persone riabitassero le splendide foreste, ben presto gli studi scientifici hanno confermato che i “bagni di natura” hanno la proprietà di ridurre i livelli di stress, migliorare l’umore e rinforzare il sistema immunitario. È nata così la “forest-therapy”, che non cura le malattie ma può avere un effetto medico preventivo, regolando in modo del tutto naturale la pressione arteriosa delle persone, e da allora un numero crescente di persone si sta interessando alla tematica, spesso arricchendo l’esperienza in natura con pratiche meditative o vere e proprie lezioni di yoga all’aperto.
La verità è che viviamo in contesti che ci sovrastimolano continuamente, il che rende anche il nostro organismo più vulnerabile alle patologie costringendo il nostro sistema nervoso simpatico in uno stato di continua allerta che tende a cronicizzare alcune espressioni del nostro malessere. Non solo le foreste ma anche i parchi, i fiori, la cura di un orticello hanno effetti benefici sul nostro organismo e sono pratiche di cui imparare lentamente a riappropriarsi, quasi fosse una rialfabetizzazione emotiva quella di cui si sente crescente necessità in un’epoca sempre più accelerata.
In Pennsylvania, alcuni scienziati hanno dimostrato che anche la vista da una finestra può avere effetti benefici sul processo di guarigione delle persone. Hanno osservato cioè che i pazienti che avevano finestre vista parco, avevano tempi di ripresa post operatoria più brevi di quelli ricoverati in stanze con finestre che affacciavano su un muro di mattoni. Il fiorire di questi studi e il crescente interesse per tutto ciò che riguarda i contesto naturale nel quale viviamo, sta portando a un risvegliarsi di attività legate alla natura che somiglia a un ritorno alle origini, o meglio al ritorno a casa del figliol prodigo. Ma c’è di più.
La forest-therapy è una pratica basata sul “vagare a lungo”, sentire i piedi che toccano la terra, le varie parti del corpo che si bilanciano, fare attenzione alle differenti parti irrigidite o contratte, in un continuo esercizio di attenzione e rilassamento che ha evidenti similitudini con la pratica meditativa formale. Durante l’esperienza, ci si rende conto degli stati emotivi del momento, di dove si trovi a vagare la nostra mente e tutto ciò ci aiuta a prendere consapevolezza dei processi interiori che ci abitano e della loro fisiologica impermanenza. Con questo esercizio fisico ma anche emotivo, ci si allena a lasciare che la nostra consapevolezza si muova lungo tutto il corpo, come se fluisse, morbidamente, appoggiandosi ora sul respiro, ora sulla caviglia, ora sul sentiero coperto di foglie, in un continuo “entrare e uscire” da sé in modo sempre più presente e consapevole.
Per me l’elemento interessante dello shinrin-yoku, resta il binomio natura-cammino perché è nel cammino che si compie il miracolo, che qualcosa si sposta, cambia forma, perde peso, acquista spessore, rifugge le categorie stereotipate per entrare in uno spazio insondabile fatto di esperienza e connessione profonda. Il viandante, come la sua ombra, non è del tutto maschio o del tutto femmina. È una creatura ibrida, sfuggente, che ricorda l’utrum (l’uno e l’altro) di cui parlava Raimon Pannikar nel suo libro La dimora della saggezza.
Chi cammina trascende le categorie, esige libertà, si defila, deambula nelle parti laminali, cerca la soglia, si partorisce di nuovo, porta alla luce parti sommerse di sé, va verso la sintesi di un nuovo modo di portarsi nel mondo e di farne esperienza. Spostarsi fisicamente, permette di farlo emotivamente, di esplorare parti disabitate di sé e di entrare in intimità con paesaggi interiori sconosciuti, impensabili l’attimo prima di muovere quel passo, in una geografia commossa che è anche educazione sentimentale, un dono agli attenti.
Sì, aveva ragione Agostino d’Ippona quando scriveva: “Gli uomini vanno ad ammirare le alte cime dei monti, le gigantesche onde del mare, le grandi rapide dei fiumi, la distesa sconfinata dell’oceano e le orbite delle stelle, e dimenticano invece di considerare se stessi”.