Sempre più oggi ascoltiamo le parole “sostenibilità” o “sostenibile” riferite a prodotti, produzioni, a città, a società, ad aziende, al turismo, e altro. La sostenibilità è un concetto non facile da descrivere poiché si spalma su una miriade di concetti, nei quali comunque si può intravedere l'idea di un sistema, che coinvolge gli aspetti economici, sociali, ambientali e sopratutto etici.
Ma siamo veramente sicuri che il mercato si stia indirizzando verso la sostenibilità per il futuro del nostro pianeta e nel rispetto dei diritti umani o è dannatamente sempre ancorato al profitto? La parola “ambiente” è continuamente utilizzata ma in realtà credo molto poco osservata nel suo concetto reale. Ad esempio, riferiamoci ai prodotti, la loro sostenibilità va trovata in: materiali utilizzati; nel sistema di produzione; la modalità di smaltimento dopo l’uso; la possibilità di riciclo; un possibile riutilizzo e nel fornire gli avvertimenti sulle ricadute ambientali. In tutto ciò, aziende leader del mercato mondiale, che proclamano la loro attenzione verso la sostenibilità dei loro prodotti e della attività aziendale, in realtà operano nell'esatto contrario.
Clamorose le inchieste recenti sull'estrazione del cobalto. Il cobalto è uno degli elementi che costituiscono il catodo, ossia il polo negativo delle batterie dei nostri smartphone, pc portatili, sebbene i contenuti in questi siano modesti, intorno ai 50 gr per batteria e dei motori delle auto elettriche, dove purtroppo il contenuto arriva a 14 kg, che presto rivoluzioneranno il sistema auto. Il cobalto viene estratto principalmente dalle miniere del Congo (il 65% della estrazione mondiale) dove, grazie al reportage del Washington Post, si conosce che vi lavorino 100.000 persone con attrezzature rudimentali e senza misure di sicurezza, di questi, 40.000 sono ragazzi che per 2 dollari al giorno, lavorano 12 ore. In queste condizioni i feriti e i morti sono frequenti, per non pensare ai danni dovuti alla esposizione al particolato inalato, che fa insorgere problemi respiratori e potenzialmente nelle donne in gravidanza, porta alla nascita di bambini malformati. Come mai quindi queste aziende definitesi attente alla sostenibilità, non controllano anche la filiera? Questo metallo costituisce il nuovo oro tant'è che viene venduto a 80.000 dollari a tonnellata, infatti il governo del Congo pensa già a tasse pesanti a carico delle società estere che estraggono nel suo territorio.
Situazioni analoghe sull'inopportunità di sbandierare una “produzione sostenibile” la ritroviamo nell'ambito alimentare e cosmetico, dove il boom dell'utilizzo dell'olio di palma ha portato a un altro caso sul quale riflettere. Nella produzione dolciaria, ad esempio, l’olio di palma offre molti vantaggi, conferisce struttura e si conserva meglio, aumenta la durata del prodotto, ha un'alta resa e non modifica il gusto, ma soprattutto costa poco. L'opinione pubblica è divisa in due sulla questione: secondo alcuni le filiere dell’olio di palma sarebbero sostenibili proprio per l’altissima resa. Sostituirlo con la soia o con altri oli vegetali comporterebbe la sostituzione massiccia di molte colture, richiedendo una quantità di terra impossibile da ipotizzare.
Le Nazioni Unite stimano un fabbisogno sempre crescente di oli vegetali pertanto coltivazioni a soia necessiterebbero di 62,5 milioni di ettari di terreno, a colza 43,3 milioni di ettari, mentre a palma ne basterebbero 5/8 milioni di ettari. Le zone che sono state disboscate comunque hanno portato a un aumento della vendita del legname tagliato e l'impianto della palma su quei terreni per i contadini e le aziende locali si è rivelato un buon investimento e quindi una risorsa per le popolazioni locali. L'altro lato della medaglia e dell'opinione pubblica però rivela altri aspetti di questa alterazione fitogeografica, ossia i danni irrimediabili all’ambiente, agli animali, alla biodiversità in generale e alla alterazione del suolo con conseguenze importanti sulla permeabilità e tenuta.
Proprio per l'alta resa e i bassi costi, l'utilizzo dell'olio di palma è in costante crescita e questa massificazione nell'utilizzo lo rivediamo in modo speculare nella massificazione delle coltivazioni. Difatti secondo i dati del Ministero dell’Ambiente indonesiano, tra il 1990 e il 2015 “l’Indonesia ha perso circa 24 milioni di ettari di foresta tropicale” , di questi, secondo la denuncia di Greenpeace, “sarebbero stati distrutti (tra il maggio 2015 e l’aprile 2017) 4 mila ettari di foresta pluviale nella provincia indonesiana di Papua, per una superficie che corrisponde alla metà di Parigi”. La deforestazione massiva dei territori dati in concessione per la produzione di palme da olio ha al suo interno però anche alcune aree protette dal governo di Giacarta in risposta agli incendi del 2015, come afferma Greenpeace. In più anche in questo caso, come in tutte le catene produttive “massive” il costo della manodopera è essenziale che sia ridotto così da massimizzare il guadagno portando anche in questo caso allo sfruttamento dei lavoratori finanche alla sottrazione dei diritti umani, in molti casi perpetrato a ragazzini di minore età.
Secondo i dati di Amnesty International, stando alle informazioni da loro raccolte, “lavorano in quelle regioni molti bambini tra gli 8 e i 14 anni, costretti a trasportare sacchi del peso anche di 25 kg e a lasciare la scuola”. Anche in questo caso come nell'estrazione del cobalto, i lavoratori sono esposti a veleni e pesticidi impiegati nei campi, alcuni dei quali persino proibiti come il paraquat, un diserbante che la Comunità Europea ne ha vietato l'utilizzo e la commercializzazione sul territorio ma non la produzione per gli Stati Uniti e altri mercati dove ancora non c'è un divieto. L'avvelenamento da paraquat provoca una insufficienza respiratoria acuta e le inalazioni un innalzamento del rischio dell'insorgere del Morbo di Parkinson misurabile tra il 75% e 80%.
Conclude Amnesty nel suo rapporto sullo scandalo dell'olio di palma “Le aziende stanno chiudendo un occhio di fronte allo sfruttamento dei lavoratori nella loro catena di fornitura. Nonostante assicurino i consumatori del contrario, continuano a trarre benefici da terribili violazioni dei diritti umani. Le nostre conclusioni dovrebbero scioccare tutti quei consumatori che pensano di fare una scelta etica acquistando prodotti in cui si dichiara l’uso di olio di palma sostenibile”.
Allora, facendo una riflessione su tutto questo, che sicuramente è soltanto la punta di un iceberg di proporzioni impensate, se le grandi aziende non sono in grado di controllare l'origine delle filiere di produzione, allora spetta alla politica dei governi porsi delle domande e porre provvedimenti, istituire commissioni di vigilanza e imporre sistemi che tutelino sul lavoro i diritti dell'uomo, in un'epoca storica dove nel concetto “sostenibile”, la schiavitù, la coercizione e il ricatto dovrebbero essere aboliti.