Quella domenica, Vito Michele e suo figlio Giovanni se ne stavano seduti sotto gli archi. Guardavano la gente che andava a messa, gli uomini in cravatta e cappello nero, le donne tutte agghindate, coi gioielli in mostra come se andassero a una festa. Vito scuoteva la tesa di fronte a questi riti borghesi che lui naturalmente giudicava inutili e nefasti. Videro anche Giannoni, il maestro di scuola. Era il maestro di Giovanni e aveva una speciale predilezione per lui, anche se Giovanni era un giovanetto schivo e alquanto scontroso.
Giannoni il maestro passeggiò due o tre volte dinanzi alla panchina, poi si sedette vicino a loro con un gran sospiro, sbottando: “Che caldo!” “Lei non va a messa, maestro?”, chiese Vito, un po’ imbarazzato da quella vicinanza che non si aspettava. “No, oggi no, ho da fare…”. Vito sapeva che il maestro non era un clericale, anzi, dicevano in paese che fosse un po’ anarchico, cosa però da non dire ad alta voce, lo avrebbero cacciato da scuola. Vito sapeva tutto questo e quindi il maestro gli era simpatico, anche se non si erano mai rivolti una parola.
Il maestro chiese a Giovanni se avesse già fatto i compiti per il lunedì, Giovanni fece solo un segno di assenso. Ci fu poi silenzio e allora Vito, tanto per dire qualcosa, gli disse di aver sentito una storia interessante, di una donna elbana forte e coraggiosa che aveva sfidato la borghesia andandosene da sola, anzi con tre figlie piccole, in America… “Oh”, disse il maestro Giannoni, che era un vecchio elbano. “Le donne coraggiose qui all’Elba non mancano. Fin dai tempi dei tempi. Fin dai tempi di Emilia d’Hercole di Grassera nel millecinquecento… Erano addirittura i tempi del Barbarossa…” “Barbarossa il pirata?” - scattò su Giovanni - “E c’erano davvero i pirati? Ed erano davvero così cattivi?”.
“Erano tempi di guerra, Giovanni, e in tempo di guerra tutti gli uomini sono cattivi. Devi sapere che a quei tempi l’Elba, e questa parte in particolare, era sotto il principato degli Appiani, principi di Piombino. Il principato teneva molto all’isola d’Elba, che con i suoi giacimenti minerari era una grande risorsa finanziaria. A quei tempi c’era Jacopo V, che era succeduto al padre Jacopo IV, un principe molto amato dalla popolazione. E Jacopo V era alleato con la Spagna, anzi si chiamava Jacopo d’Aragona Appiani, e d’Aragona vuol dire degli Aragonesi, gli spagnoli. E questo essere con la Spagna voleva dire essere in guerra con la Francia, che era alleata con i turchi. In Turchia c’era Solimano detto il Magnifico, il gran monarca, che aveva una flotta grandissima di galere, padrona dei mari, e il Barbarossa era il suo grande ammiraglio”. “Le galere andavano a remi?” “Avevano anche delle vele, ma per lo più andavano a remi. Pensa che certe galere avevano fino a 80 remi… Famose erano quelle della repubblica di Venezia, che a quei tempi era una delle grandi potenze navali… Andando a remi, capisci, potevano arrivare fino alla costa, o andare all’abbordaggio con estrema precisione… proprio da pirati, capisci? E nacquero anche fortificazioni contro i pirati in tutte le coste e isole del mediterraneo. Vedi, anche la nostra Torre, qui a Rio, ha questa origine. Fu costruita nel 1555, un po’ troppo tardi per il Barbarossa…”
“Le galere erano come i galeoni?” “No, i galeoni vennero dopo, ed erano molto più grandi, avevano tre o quattro alberi e andavano per lo più a vela. Anzi, quando arrivò il tempo dei galeoni, le galere scomparvero. Erano grandi navi da guerra, i galeoni. Pensa che in una battaglia, tre galeoni distrussero una flotta di trenta galere”. “Avevano cannoni?” “Ma sì, le galere avevano cannoni, e ancora di più i galeoni”. “Lui aveva davvero la barba rossa?” chiese allora Giovanni. “Si chiamava, aspetta che mi ricordo, Hayreddin. Il nome Barbarossa apparteneva a suo fratello, morto in battaglia, che aveva davvero una barba rossa. Poi dettero questo nome a lui in onore di suo fratello. Ma nel feroce attacco a Grassera e all’Elba, nel 1531, non era lui l’ammiraglio, ma un altro, pure molto famoso per la sua ferocia, di nome Sinaam. Era guercio, e lo chiamavano anche il Giudeo, forse perché era davvero di provenienza giudea. “Oh, allora aveva una benda nera sull’occhio, proprio come i pirati… Ma perché se la presero con l’isola d’Elba?”
“Erano tempi guerra, si razziava tutto quel che si trovava, e soprattutto, ascolta bene, volevano prendere prigionieri, uomini e donne, per renderli schiavi. Gli uomini schiavi servivano soprattutto come vogatori nelle galere, ti ho detto che ce ne volevano tanti, di rematori… che dovevano remare tutto il giorno, con i turchi che stavano su di te con la frusta, e se ti fermavi un po’ a respirare, botte da orbi … Poi, capisci, se la famiglia reclamava lo schiavo, allora sì, glielo rendevano, ma contro un grosso compenso. Così, capisci, gli schiavi fruttavano molto bene. E infatti, quella volta ne presero molti. Fu in una notte del 1534, mentre le popolazioni dei due paesi minerari erano immerse nel sonno, che le truppe di Sinaam sbarcarono alla Piaggia e da lì verso Rio”. “Vennero a Rio Marina?” “Attento, a quei tempi non c’era Rio Marina come oggi, c’era solo il comune di Rio, che oggi è Rio Alto. Un cittadella arroccata su in alto, come Capoliveri, proprio per stare più sicuri dalle invasioni barbaresche… La Piaggia era la marina di Rio Alto, (da cui Rio Marina, capisci?), con solo qualche casupola di pescatori, e quando la Piaggia divenne un villaggio vero e proprio, rimase per lungo tempo dentro il comune di Rio. Rio Marina divenne comune autonomo solo nel 1881”. “Allora i pirati salirono su a Rio Alto?” “Sì, e misero il paese a ferro e a fuoco, con razzie, stupri e violenze d’ogni tipo. Gli abitanti del vicino villaggio di Grassera tentarono di organizzare una resistenza nel vicino forte del Giogo, ma non servì a nulla: anche loro furono condotti in catene alle navi e il villaggio fu raso al suolo. Gli altri elbani, come i capoliveresi, avvertiti della tragedia, corsero a dar manforte; ma dovettero constatare che era troppo tardi”. “E le donne? Quella che mi diceva prima, signor Maestro, come si chiamava, Emilia d’Hercole? Chi era?” “Di lei non si sa molto, solo che era una donna bellissima, e molto forte”. “Bella come Maria Isolina?” - chiese Giovanni, facendo un gesto con le mani al petto, come per indicare dei grossi seni. Vito Michele gli rispose prontamente con un pesante scappellotto.
“Ma che dici? Scemo! Sta’ zitto!” “No, dicevo così …ma insomma, gli uomini schiavi erano messi ai remi, e le donne?” “Eh, le donne, figliol mio”, rispose il maestro Giannoni con un sospiro, “seguivano il destino di sempre, di essere considerate bottino di guerra, venivano stuprate, vendute e rivendute...”. “Cosa vuol dire stuprate? Che gli facevano fare quelle cose?” - Pam! Un altro pesante scappellotto. “Ma che domande sono? Ma son cose da chiedere alla tua età?” - sbottò Vito Michele. “Eh, diciamo così”, fece il maestro, “che venivano date in moglie anche quando non volevano… insomma anche quando proprio non volevano…”. “E Emilia d’Hercole, anche così?”. “Credo che con lei le cose andassero in modo un po’ diverso. Non si sa di sicuro, ma mi immagino che la sua forte figura si impose subito, come una che non era come le altre… e infatti divenne la preferita di Sinaam... E da lui ebbe un figlio. Che fu una fonte di guai per tutti…”. “Perché?”.
“Beh, devo prima raccontarti un altro episodio di storia. Tutte queste scorrerie dei saraceni, che depredavano e facevano schiavi tra i cristiani, avevano impensierito perfino il papa di quei tempi, credo che fosse Clemente VII, il quale convinse Carlo V re di Spagna a organizzare una crociata per liberare gli schiavi cristiani che erano tenuti a Tunisi, che è in Africa, lo sai?” “Sì, sì…”. “Ecco che allora, nel giugno del 1535 una flotta di 91 navi da guerra e 200 navi da trasporto sbarcò presso Tunisi 30.000 soldati. Ci fu una lunga guerra, e dopo un mese di assedio, i cristiani ebbero la meglio, Tunisi fu conquistata e messa a ferro e fuoco, e furono liberati anche 22.000 cristiani che nel corso degli anni erano stati catturati dai pirati musulmani. Rimpatriarono anche gli Elbani, ma quelli di Grassera non trovarono più la propria città, solo un cumulo di macerie, e rimasero nella terra di Rio.
“E a Tunisi fu ritrovata anche Emilia d’Hercole?” - chiese subito Giovanni. “Proprio così. Lei con suo figlio, ancora piccolino. Lei non era una schiava comune, era in uno stato privilegiato, come favorita di Sinaam. Quindi fu riportata indietro con onore. Ma avvenne questo, che Jacopo V d’Aragona Appiani, principe di Piombino, decise di adottare il piccolo, lo fece battezzare, e se lo tenne a corte”. “E perché? E la mamma, allora?”. “Fu rimandata all’isola. Da sola, a quanto pare, ma con qualche ricompensa”. “E la storia finisce qui?” - chiese Giovanni un po’ deluso. “No, Giovanni, purtroppo no. Quasi dieci anni dopo, nel 1543, quando tutti credevano che ora ci fosse finalmente un po’ di pace, la flotta turca apparve nel canale di Piombino. I Piombinesi, spaventati, fuggirono dalla città, la quale era però validamente fortificata, e allora la flotta turca si diresse all’isola d’Elba, gettando le ancore nel porto di Longone. “E poi sbarcarono e fecero razzia?”. “Macché. Se ne stettero buoni a bordo. Poi una delle loro galere ritornò verso Piombino. E ne sbarcò un ufficiale con in mano un’ambasciata del Barbarossa per Jacopo V. Il testo del messaggio era il seguente, me lo ricordo a memoria”:
Lo so che hai presso di te schiavo un giovinetto turco figlio di Sinaam generale delle galere, detto per soprannome il Giudeo, il quale già molto tempo fa fu preso a Tunisi. Costui vorrei che amorevolmente tu mi restituisse, ed io ti mostrerò la mia gratitudine per questo dono. E ti giuro in fede mia che questa nostra grande armata, quando passerà davanti alle tue coste, non farà ingiuria né dispiacere alcuno a te e ai suoi sudditi, ma se non vorrai compiacermi in questa piccola richiesta, sappi le rive del tuo stato avranno tutti quei lutti e quelle rovine che può causare il più acerrimo dei nemici.
“E cosa fece il principe? Gli rese il piccolo?”. “Il principe Appiani prese tempo, dicendo che avrebbe fatto cercare il ragazzo, che, diceva lui, non si trovava lì… Ma era una mossa per prender tempo. Comunque il Barbarossa ci credette e dispiegò le vele, con gran gioia dei piombinesi e degli elbani. Ma ecco che circa un anno più tardi, per la precisione il 2 luglio 1544, l’armata turca, accompagnata da galere francesi, tornò all'Elba, dando fondo nel golfo di Portoferraio. Subito dopo partì per Piombino un emissario del Barbarossa, che rinnovò all’Appiani la richiesta per la restituzione del ‘giovane Sinaam’. Questa volta la richiesta fu respinta apertamente da Jacopo V. A quanto pare fu consigliato dal suo confessore, che gli disse che si sarebbe macchiata l'anima consegnando un battezzato a degli infedeli”.
“Ecco i preti e i loro consigli insensati!” - sbottò Vito Michele – “Così allora, come ora. Immagino che questo consiglio pretesco causò centinaia di morti!”. “Infatti” - continuò il maestro Giannoni – “Barbarossa montò su tutte le furie e dette ordine di razzia e distruzione. Il primo bersaglio fu Capoliveri, che fu attaccato di sorpresa, e gli abitanti tentarono invano di salvarsi cercando scampo nei boschi e nelle grotte. Molti furono uccisi, gli altri furono trascinati e gettati in catene come schiavi nelle galere che aspettavano all’ancora. Ci fu poi una lunga battaglia attorno al Volterraio, che oppose una accanita resistenza. Apparentemente il fragore delle armi si sentì fino a Piombino, dove Jacopo V infine capì di aver commesso un grosso errore. Accettò allora di restituire il giovane, chiedendo in cambio la liberazione dei prigionieri e il reimbarco dei musulmani. Ma intanto si erano consumate tante vite umane, tante tragedie che avrebbero potuto evitarsi. C’è anche la leggenda di Luceri, la leggenda delle cinque fanciulle di S. Lucia. La sapete?”. “No, maestro, ce la racconti”.
“Erano le figlie del comandante di un forte nei pressi di Portoferraio, il quale fu sorpreso e ucciso dai Turchi fuori dal porto. Ignorando la sua triste sorte, le figlie lo cercarono a lungo, camminando tutte sole, tenendosi per mano tra le macchie e le scogliere di un’isola devastata. Si racconta poi che, nelle ultime luci del giorno, videro una nave puntare verso terra, e allora fuggirono per paura di un nuovo sbarco dei pirati, finché non giunsero, tenendosi per mano, su una scogliera a picco sul mare. Qui una delle fanciulle mise un piede nel vuoto e precipitò, trascinando con sé le sorelle. Si dice nella leggenda” - concluse il maestro con voce triste – “che il loro pianto si sente salire dalle onde nelle notti di luna”. Perfino Vito Michele si prese la testa tra le mani…
“Quindi” - chiese Giovanni dopo quel breve silenzio – “il piccolo ritorna da suo padre, il Guercio, che era il grande ammiraglio?”. “Ritornò certo ad abbracciare il padre, che lo amava molto. Ma intanto, ti devo dire che quando il ragazzino, che ora aveva circa dieci o undici anni, arrivò all’Elba, il Barbarossa lo creò immediatamente comandante di sette galere…” “Come, alla sua età?” “Sì, poi non si sa più nulla di lui, ma immagino che egli crebbe e divenne un potente ammiraglio della flotta turca”. “E non tornò più all’Elba?” “Non si sa, ma credo di no”. “E quella fu anche la fine di tutte le guerre barbaresche?” Il maestro Giannoni scosse pesantemente la testa. “Purtroppo, no, Giovanni. Ci fu uno sbarco dei Saraceni poco dopo, già nel 1553, guidati dal feroce Dragut, che era un allievo del Barbarossa, che era morto qualche anno prima. E fu una strage per la gente di Rio…”.
Il piccolo Giovanni ebbe una reazione inaspettata. Alzò la testa e la voce, e quasi gridò: “Ma perché gli uomini devono essere così cattivi, sempre a uccidersi gli uni con gli altri?” I due uomini non risposero. Poi Vito Michele dette una delle sue risposte: “La guerra è sempre colpa della borghesia, colpa dei ricchi e potenti, quali re e papi, che vogliono sempre più profitto. Per questo si ammazza e si conquista, per avere più soldi e più potere. Ma verrà il giorno in cui l’anarchia regnerà nel mondo, e allora sarà un mondo di pace e di abbondanza per tutti!”. Vito aveva gridato ad alta voce, e il maestro Giannoni si guardò timoroso in giro, sperando che nessuno avesse sentito queste frasi anarchiche. E tagliò corto: “Ma tu vorrai sapere, Giovanni, come è andata a finire con il figlio di Emilia d’Hercole, vero?” “Sì, ma anche la mamma? Che fine ha fatto?” “Non si hanno notizie, Giovanni. Ma pare che fosse tenuta in grande onore, tanto che non doveva pagare tasse o balzelli come tutti gli altri. Infatti, si ha una sua lettera del 1556 indirizzata al duca di Firenze, che allora presidiava sopra l’Elba, una specie di supplica. Me la ricordo a memoria. Sai cosa diceva?”
Ill.mo et Ecc.mo Principe,
Supplica all’Ecc.zia V. Emilia d’Hercole da Rio, sua serva indegna, già rapita da quel famoso Pirata detto el Giudeo, del quale ne fece un figliuolo, qual poi Barbarossa rivolse dalla felice memoria del Sig.re Giacomo Quinto, Sig.re di Piombino, per il che ne successe la liberazione di tutto questo stato, come è noto, e ditto signore volendola ristorare in qualche cosa li concesse una ampia patente e faceva esenti da ogni gravezza personale e reale lei el suo marito e suoi heredi in perpetuo, et V. Ecc.tia si voglia degnare di renovargli.
“Quindi si era risposata?” “Pare di sì. In fondo, quando ritornò all’Elba dopo Tunisi, probabilmente era ancora una giovane donna nel vigore dell’età, anche se aveva avuto un figlio… “Come Maria Isolina” - si lasciò scappare Giovanni, e si prese un altro scappellotto, questa volta più robusto del precedente. “Ma” - volle chiedere ancora Giovanni- “non si sa più altro di lei, Emilia d’Hercole? Non rivide più suo figlio?” “C’è un documento seguente, dove pare che le cose non andassero così bene, così che lei dovesse chiedere aiuti economici. Ma non vogliamo ricordarla così, povera e questuante. Dobbiamo ricordarla invece come una donna elbana bella e forte. Certo che pensava sempre a suo figlio. Mi immagino che si immedesimasse in lui, e ne fosse orgogliosa, orgogliosa del giovane e bellissimo ammiraglio, ritto a prua e contro il vento, alla guida di una flotta di galere veloci e silenziose…”.
P.s. per le notizie storiche sono molto grato a Lelio Giannoni, storico di Rio Marina.