“La medicina consiste nell'introdurre droghe che non si conoscono in un corpo che si conosce ancora meno”: queste parole di Voltaire emergono in tutta la loro sorprendente attualità quando, nell'affrontare la complessità degli organismi viventi, ci si imbatte in fenomeni del tutto straordinari e imprevedibili.
Oggi conosciamo gli effetti farmacologici di centinaia di principi attivi vegetali, ciò nonostante esistono delle piante, come l'Atropa belladonna, che continuano a mantenere un'aura di fascino e mistero. Benché parente stretta di specie notoriamente commestibili, come pomodoro, patata, peperone, peperoncino e melanzana (tutte appartenenti alla famiglia delle Solanaceae), la Belladonna è responsabile di gravi effetti avversi, alcuni dei quali imprevedibili e con esito letale. Tra i suoi componenti prevalgono tre alcaloidi particolarmente attivi sul sistema nervoso vegetativo: atropina, scopolamina e iosciamina.
La pericolosità di questa pianta è già evocata dal suo nome: il termine atropa deriva dal greco atropos ed è l'appellativo dato a una delle tre Moire (o Parche, nella mitologia romana) responsabili del destino degli uomini, con il compito di recidere il filo della vita. L'espressione belladonna, invece, è legata al fatto che anticamente il suo estratto, opportunamente diluito, trovava impiego come collirio in modo da favorire la dilatazione delle pupille (midriasi), rendendo gli occhi più belli.
I casi di avvelenamento da Atropa belladonna sono per lo più di natura accidentale, dovuti a un utilizzo improprio di piante raccolte a scopo alimentare oppure medicinale, generalmente in contesti di automedicazione. I sintomi sono caratterizzati da midriasi, blocco delle secrezioni (lacrimale, bronchiale, nasale, sudoripara, salivare), nausea, vomito, tachicardia, respirazione rapida, iperpiressia (aumento della temperatura corporea), atassia (perdita della coordinazione muscolare), agitazione, stati confusionali, delirio, allucinazioni, fino al coma e alla morte nei casi più gravi. Tutte le parti della pianta sono velenose (soprattutto i frutti; non a caso sono chiamati “ciliegie del diavolo” o “bacche delle streghe”) e il loro utilizzo sia per uso topico (assorbimento cutaneo) sia per ingestione, provoca gravi intossicazioni; la dose mortale per un bambino corrisponde a 3-4 bacche,(per un adulto sono sufficienti 10-15 bacche, corrispondenti a 30-50 mg di atropina).
Oltre alla Belladonna, sono numerose le piante, come la Mandragora (Mandragora officinarum e autumnalis), il Giusquiamo (Hyoscyamus niger e albus) , lo Stramonio (Datura stramonium), l'Aconito (Aconitum sp.), il Papavero (Papaver sominiferum) e la Segale cornuta (Claviceps purpurea, un fungo parassita delle Graminaceae) che, per la loro ricchezza in sostanze psicoattive, sono entrate a piena titolo nell'immaginario collettivo, svolgendo la funzione di “porte” spazio-temporali per accedere a esperienze extrasensoriali o mistiche. Basti pensare al Soma della tradizione vedica, ai misteri eleusini dell'antica Grecia oppure al fenomeno della stregoneria, particolarmente diffuso in Europa tra il XV e il XVIII secolo che causò la morte di migliaia di donne, ingiustamente accusate di essere delle streghe.
Nella preparazione dei vari “unguenti satanici” venivano impiegati numerosi ingredienti, tra cui radici e frutti di Belladonna, foglie e fiori di Giusquiamo, radice di Aconito, radice di Elleboro (Helleborus sp.), lattice di Papavero, foglie di Cicuta (Conium maculatum), foglie e infiorescenze di Assenzio (Artemisia absinthium), radice di Cicoria (Cichorium intybus), fiori di Calendula (Calendula officinale) e grasso di maiale.
Ma la storia dell'Atropa belladonna è legata un altro fatto storico abbastanza singolare che vede protagonisti un guaritore di campagna, una generosa regina e una misteriosa epidemia, caratterizzata da strani disturbi neuropsichiatrici. La patologia in questione, provocata da un virus che non è stato mai identificato, è la cosiddetta “malattia del sonno” o “encefalite letargica”, chiamata anche morbo di von Economo-Cruchet, riferito a Costantin von Economo e Jean-Renè Cruchet, i due medici che primi ne descrissero la sintomatologia. Questa malattia è associata a cefalea, delirio, mutismo, apatia, sonnolenza, rigidità e spasmi muscolari, tremori, catatonia e coma profondo.
La sua massima diffusione si verificò in Europa, tra il 1915 e il 1926, per poi estendersi in tutto il mondo, proprio quando imperversava la micidiale influenza “spagnola”, una pandemia che a partire dal 1918 provocò la morte di decine di milioni di persone; molti studiosi non escludono un legame tra queste due patologie. I primi segni della strana epidemia ebbero inizio qualche mese prima della fine del conflitto mondiale, interessando un numero sempre più crescente di soldati reduci dal fronte e in seguito la popolazione civile; furono contagiati oltre 5 milioni di persone con un elevato tasso di mortalità e di danni neurologici, spesso irreversibili (sindromi del tipo parkinsoniano).
Ma è proprio nel pieno di questa emergenza sociale e sanitaria che s'impone all'attenzione pubblica un erborista di origini bulgare dotato di grande esperienza e spirito d'iniziativa, chiamato Ivan Raev. Egli aveva intuito che gli alcaloidi estratti dalle radici dell'Atropa belladonna potevano rappresentare rimedio efficace per guarire non tutti, ma almeno una parte consistente dei pazienti affetti da encefalite letargica. Nel giro di poco tempo, dopo aver ottenuto delle guarigioni sorprendenti, quasi miracolose, la fama della sua cura raggiunse anche l'Italia dove trovò l'interesse e il pieno appoggio della Regina Elena, moglie di Vittorio Emanuele III.
Le sue origini montenegrine, l'interesse coltivato sin da giovane per la medicina tradizionale, la sua grande forza di carattere e il suo agire filantropico, fecero di questa donna la principale sostenitrice e promotrice della terapia ideata dal famoso erborista bulgaro. La Regina Elena si era già distinta per il suo spirito altruista, organizzando gli aiuti per la popolazione siciliana sconvolta dal terremoto del 1908 e per aver trasformato, nel 1915, sia la corazzata Elena che i locali del Quirinale in attrezzati ospedali, riservati ai soldati feriti in guerra.
A spese della Famiglia reale di Savoia (con qualche protesta del Re che accusava sua moglie di essere “eccessivamente generosa”) fece costruire un'apposita sezione presso il IV Padiglione del Policlinico Umberto I (che in seguito, ampliandosi, darà origine al grande Istituto Regina Elena) per accogliere e curare gratuitamente, sotto la supervisione del professor Giuseppe Panegrossi, allora clinico di fama internazionale e docente di neuropatologia all'Università di Roma, centinaia di persone affette da encefalite letargica. Inizialmente furono utilizzati campioni di radice di Belladonna importati direttamente dalla Bulgaria; in seguito, obbedendo ai severi dettami delle direttive autarchiche dell'epoca, furono impiegate piante di produzione nazionale che, dopo un'attenta analisi, si erano dimostrate altrettanto efficaci. Dopo i successi ottenuti, questo protocollo di cura fu adottato prima dagli ospedali italiani e poi da quelli di altre nazioni d'Europa e del mondo.
Intanto Ivan Raev, dopo un'iniziale ostilità da parte della classe medica locale, raggiunse fama e ricchezza, grazie anche all'appoggio offerto dalla regina Elena di Savoia. Poi improvvisamente e in maniera altrettanto misteriosa di come era apparsa, questa strana malattia scomparve, lasciando però una lunga scia di malati inguaribili e in condizioni disperate. [1]
Nel 1969, il neurologo americano Oliver Sacks ebbe la brillante idea di somministrare a 200 soggetti reduci di questa passata pandemia, ricoverati al Mount Carmel Hospital, nei dintorni di New York, un nuovo farmaco di sintesi (la levo-diidrossifenilalanina o L-dopa) destinato alla cura del morbo di Parkinson. Il risultato conseguito da Sacks fu altrettanto miracoloso quanto quello ottenuto da Ivan Raev: i pazienti si risvegliarono dopo anni di stato vegetativo, ricominciando a comunicare con il mondo esterno. Purtroppo quella che sembrava una guarigione sicura e duratura, si rivelò invece un miglioramento temporaneo di soli pochi anni, a cui seguì un ritorno allo stesso stato di coma precedente il trattamento (nel libro Risvegli Sacks racconta le storie di alcuni di loro).
Ancora oggi, dopo 100 anni, la medicina ufficiale non è ancora in grado di spiegare l'eziologia infettiva dell’encefalite letargica e nessuno può escludere la possibilità che possa ritornare a essere una minaccia per il genere umano.
[1] Per approfondire l'argomento si consiglia la lettura del saggio di Paolo Mazzarello. L'erba della Regina. Storia di un decotto miracoloso. Torino, Bollati Boringhieri, 2013.