Quando cominciai a scrivere questo libro, ero in una età nella quale avevo speso la maggior parte della mia vita adulta all’estero, per lo più in Svizzera ma con anni spesi anche in America, Unione Sovietica, Svezia, Inghilterra, e via dicendo. Mi consideravo un cittadino del mondo, e fu quindi con una certa sorpresa che scoprii dentro di me questa intensa curiosità per le storie dell’Elba. Un’isola piccola, da cui erano originati i miei genitori e i loro stessi genitori, un posto dove si ritornava d’estate per lunghi mesi, attorniati da un gran numero di parenti che ti baciavano e ti amavano ma non sapevi chi fossero. Con tante storie di famiglia, quelle che venivano raccontate dopo cena spesso vicino al fuoco del camino, soprattutto d’inverno. Erano storie che noi bambini giudicavamo noiose, sempre le stesse storie raccontate con gli stessi precisi dettagli, ogni volta con le stesse esclamazioni di meraviglia come se si trattasse di racconti nuovi, e gli stessi precisi commenti degli astanti: un rito antico. “Ma ti ricordi di Poldo?” “E cosa disse allora Mario detto Brucia-capanne? E Natalina che andava a prendere l’acqua giù alla fonte?” “No, aspetta, è così, che lui disse…” e così via…
Non capii a lungo questo desiderio strano, inaspettato, di raccogliere tutte queste storie e trovarne anche gli angoli che ne erano rimasti nascosti… Davvero una specie di frenesia. Una sorta di spiegazione a questo strano moto dell’anima mi venne un giorno, quando, scrivendo le storie, feci dire a uno dei protagonisti: “gli uomini sono come gli alberi, hanno bisogno di radici, di un pezzo di terra cui abbarbicarsi…”. Eppoi, anche da letterato, cominciai a vedere quanto belle, in fondo, fossero queste storie. Ed eccomi trasformato da cittadino del mondo in un cantore di cose di famiglia. Ma cose che avrebbero potuto succedere in qualsiasi altra parte del mondo, e per questo avevano un sapore di universalità che cominciò a piacermi. Le radici, appunto. Cominciai a perlustrare in modo serio la memoria delle più anziane donne elbane che mi stavano attorno, e amici elbani di lunga data, scoprendo che spesso, quando mi raccontavano le storie di Filomena, di Pino il mozzo, di Poldo, la loro voce si commuoveva e i loro occhi si inumidivano - un amore vero per la propria storia, anche la storia piccola di famiglia.
Il termine “storie elbane quasi tutte vere” si applica ancora: prima di tutto non so quanto siano veri due o tre degli episodi che mi sono stati raccontati; inoltre, alcune storie vere le ho trasposte io nel tempo in modo da renderle consone alla storia di alcuni personaggi; e altre storie sono state da me trasposte geograficamente (per esempio la storia di Maddalena la Siciliana mi fu raccontata come storia di Porto Ferraio; quella di Pietro e l'asino mi fu raccontata come storia di Pomonte). A proposito delle storie, vorrei cogliere l’occasione per ringraziare quelli che queste storie me le hanno raccontate. Anche se non mi ricordo di tutti i nomi, non dimentico certo Sergio Nardelli (che mi ha raccontato la storia del riccio); Norma Mari-Benzoni (la storia di Filomena di San Piero); Eros e Adele Santini con le loro storie di magia, Antonio Bizzarri (una delle storie delle panchine), il vecchio Paride del Delfino Verde, con le sue mille storie di Porto Azzurro e Capoliveri; Lelio Leonardi, che mi raccontato la storia di Pino il mozzo (con Lelio avevamo fatto il patto di invecchiare insieme all'isola - poi la morte se l’è preso a tradimento, come fa spesso lei, sdegnosa dei patti tra uomini). Voglio anche ringraziare chi mi ha aiutato con il materiale fotografico: il comune di Rio Marina per mezzo del libro Memorie fotografiche (a cura di Gianfranco Vanagolli), 1984, e lo storico Lelio Giannoni. Dalle opere di Gianfranco Vanagolli ho attinto anche materiale per Il grande sciopero.
Maria Isolina
Vito Michele e suo figlio Giovanni, che a quell'epoca aveva dodici anni, arrivarono all’Isola d’Elba nel porto di Rio Marina con la grossa barca a vela della Finanza in una sera di fine agosto. Il viaggio era cominciato ben due giorni prima, con un primo giorno passato a cuocere in treno, e stava finendo ora con la traversata del canale di Piombino. I due, che soffrivano il mal di mare, se ne stavano accucciati a poppa senza la forza di muoversi.
Quando la barca entrò nel porto e il marinaio lasciò cadere la grossa vela, entrambi alzarono la testa verso quella terra che doveva essere la loro per tutti gli anni a venire, e osservarono con intensa curiosità gli scogli, le case sulla riva, e le montagne spaccate dalle cave delle miniere. Giovanni guardò in su verso suo padre e disse: “È bella, però!”. Michele rispose con un grugnito dei suoi e si calcò il suo cappellone nero in testa con un gesto burbero che lasciava intendere che anche lui la pensava così. Non si trattava precisamente di un viaggio di piacere. Vito Michele veniva mandato al confino come esiliato politico, perché era un anarchico inveterito. Il “pretesto infame della borghesia” - come diceva lui - era stato una rissa in Rapone, il suo paese in Calabria, nella quale Michele aveva spaccato una bottiglia in testa a un compagno di osteria spaccandogli un po’ anche la testa. Sia come sia, le autorità del Regno non lo avevano mandato in galera. Ma al confino sì, in un paesino di un’isola lontana, e l’Isola d’Elba, detta semplicemente l’Isola dai suoi abitanti, era un posto ideale per questo.
“Questo paese si chiama Rio Marina, nome che viene da quel fiume lì sulla sinistra, vedete?”, disse uno dei due finanzieri. “Ha oltre tremila abitanti, sai, e ci sono le famose miniere di ferro, conosciute fin dai tempi dei Romani, e gli uomini qui lavorano quasi tutti in miniera oppure sono pescatori o contadini d’uva. Ma a voi mica vi ci fanno stare in paese. Vi mandano nella casa degli esiliati, lontano dal centro del paese. Non ce n’avrete da divertirvi, qui...”.
Così cominciò la loro storia all'Elba, con babbo Michele che, tenendosi a malapena in piedi nella barca, cercava negli alberi e nelle case che vedeva da lontano somiglianze con la sua terra di Calabria che non avrebbe più rivisto. Gli piacquero i fichidindia, e soprattutto gli piacquero quelle colline così ricolme di uva. La terra non era così ruvida e arcigna come quella delle sue parti; ma era forte e seria, una di quelle terre generose solo se tu lavori duro. Non che Michele avesse intenzione di lavorare la terra. Anzi, lui per la campagna non ci aveva né simpatia né dimestichezza. Lo stesso per il mare: barche, vele e remi dovevano rimanere per lui, e per le sue generazioni a seguire, delle cose da guardare quasi con sospetto. Lui era un commerciante, abituato alle botteghe e agli affari - al suo paese aveva avuto una fiorente bottega di calzolaio. Ma soprattutto si interessava di libri, con una propensione per quelli di natura anarchica e anticlericale, un altro marchio genetico che avrebbe tramandato alle generazioni future.
Michele e Giovanni, appena sbarcati, emisero entrambi un respiro di sollievo, e si ripromisero di star lontano dalle barche per tutti gli anni a venire, promessa che riuscirono a mantenere quasi per intero. Alcune persone erano venute loro incontro, e Michele riconobbe subito il Maresciallo. Non che lo avesse mai visto prima, ma era così tipico, così logorato dentro il suo stesso mestiere, che non avrebbe potuto essere nient’altro. Il Maresciallo lo guardava con curiosità, anche perché oltre alle notizie riservate sul conto di quell’anarchico, aveva anche ricevuto dal sindaco di Rio Marina copia di un atto del Ministero della Guerra, che attribuiva a Vito Michele un vitalizio come veterano di guerra - una cosa insomma da rispettare…
Michele lo guardò fisso negli occhi, e fu la sua prima sfida vittoriosa contro il futuro avversario: l’altro abbassò lo sguardo, sorrise, fece un cenno amichevole con la mano, poi gonfiò il petto e disse le due o tre frasi di convenevole che la borghesia gli aveva insegnato: “Siete il signor Luisi Vito Michele, confinato dalla Calabria, non è vero? Benvenuto, cittadino. Vi troverete bene tra noi, se sarete ossequioso della legge del Re e del popolo”. Michele si limitò a rispondere con un grugnito. “Seguitemi, prego” - disse poi il Maresciallo. Fece qualche passo, si fermò e aggiunse: “Noi dovremmo andare a destra, verso il vostro Dormitorio, il paese è a sinistra. In via eccezionale vi lascio fare una passeggiata, tanto per farvi conoscere Rio Marina!”. Poi prese per mano Giovanni e si incamminò verso il paese. Vito Michele emise un altro grugnito: il fatto che l’avversario di classe mostrasse d’essere una persona gentile, era contro i suoi principi, una delle cose che lo mettevano in difficoltà…
In paese era giorno di mercato, con tanta gente e tanta roba colorata esposta nelle bancarelle, e nell’aria molte voci allegre e rumorose. Michele e Giovanni si sentirono subito meglio, sorrisero perfino. Il Maresciallo si accorse di quella loro gioia, fu gentile, e disse che potevano avere un’ora per sgranchirsi le gambe prima di procedere per le formalità. Tirò fuori il suo orologio dal panciotto e disse che sarebbe ritornato a prenderli, lì al mercato, alle otto in punto. Il piccolo Giovanni si fermò incantato davanti a un pentolone enorme che bolliva sul carbone. Dentro c’erano dei polpi giganteschi, di un colore rosa intenso, fumanti e teneri. Un omone grasso e senza capelli li vendeva tagliando a pezzi con gesti rapidi una granfia o un pezzo di borsa. Il fumo del pentolone saliva fino al cielo, e il profumo era così penetrante e buono che Giovanni, che non mangiava qualcosa di caldo da tre giorni, si sentì svenire. Il padre lo sorresse per tempo e lo sospinse fino a una panchina, facendolo sedere. Poi tirò fuori l'ultimo pezzo di pane dalla giacca e glielo porse. Una giovane donna che teneva per mano una bambina di circa sei anni si avvicinò a loro. La bambina, istruita dalla madre, porse a Giovanni un grappolo d’uva. Giovanni rimase un attimo incerto, poi allungò la mano. La donna allora rise e fece un passo in avanti, chiedendogli come si chiamasse. Giovanni arrossì, e chinò il capo a terra confuso senza rispondere.
“Siete nuovi?” chiese poi la donna rivolgendosi a Vito Michele. Michele fece un cenno di sì, sorpreso che una donna gli rivolgesse la parola così apertamente. Fu il suo primo contatto con le donne del posto, e anche in seguito avrebbe faticato ad accettare quei modi aperti e a suo parere un po’ immodesti delle donne di là. Anche il linguaggio era troppo spregiudicato per lui, gli appariva indecoroso. Di una camicia non ben stirata, per esempio, dicevano che “sembra uscita d’un culo a un cane”; e una volta che lui al mercato, qualche tempo dopo, cercò a lungo una paio di calzoni per Giovanni, e quello scorbutico li rifiutava tutti, questi non andavano bene come colore, e quelli erano troppo ruvidi, questi erano troppo lisci, si sentì dire di dietro dalle due commesse un’altra delle tipiche frasi del posto: “Questo qui non trova un palo che gl’entri in culo”.
Michele guardò dunque quella sua prima donna elbana negli occhi, e trovò uno sguardo azzurro e quieto, ma molto forte. Con sua sorpresa fu lui che dovette abbassare gli occhi. Li lasciò allora scorrere in giù, percorrendo tutti i suoi vestiti leggeri fino ai piedi scalzi; e poi di nuovo in su, rapidamente, fino ai capelli biondi. Michele non aveva mai visto una donna bionda così da vicino, e sentì il cuore battergli furiosamente nel petto, ma non lo dette a vedere. Non glielo confessò mai quel turbamento iniziale, nemmeno quando si sposarono, una decina d’anni dopo, e nemmeno quando lei gli dette due figlie, una più bella dell’altra. La donna se ne andò con un sorriso breve, e Vito Michele la seguì con gli occhi finché potè. Poi padre e figlio si allontanarono dalla folla camminando verso una grande piazza sul mare. Di là, si poteva vedere la costa di Piombino e l’isolotto di Cerboli. Il mare appariva calmo e quasi amichevole, con una decina di vele che scorrevano rapide sulla superficie azzurra.
“È bello, però!”, disse di nuovo Giovanni. E Vito Michele di nuovo grugnì. Poi si sedettero su una di quelle panchine di pietra dura e si addormentarono seduti, l’uno appoggiato all’altro. Così li trovò il Maresciallo, che li svegliò bruscamente, quasi per pareggiare la sua gentilezza di poco prima. Era accompagnato da due carabinieri, e tutti insieme ritornarono verso il porto e cominciarono a camminare verso la casa degli esiliati, il “Dormentorio”, come lo chiamavano i paesani.
Il piccolo Giovanni camminava volentieri nella sera tiepida, assaporando gli odori nuovi nell’aria. Riconobbe quello del rosmarino, che si confondeva però con l’odore di pino. Dal mare, poi, veniva come un odore come di cocomero. A un certo punto emise un sospiro di gioia e disse: “Babbo, come si chiama quella donna bionda?”. Vito Michele, che stava proprio pensando a lei, fece un sobbalzo. “Ma chi? Ma di che cosa stai parlando?” “Di donne bionde non ce n’era nemmeno una al nostro paese. E poi così bella! Non è vero, babbo?” “Cammina e zitto, non dire scemenze!”. Ma in cuor suo anche Vito Michele si sentiva felice, anche se non l’avrebbe mai ammesso. Quel primo contatto con la nuova terra era stato buono. E per tutta la vita avrebbe rivissuto quel momento - in cui la donna bionda si era avvicinata a loro, con la bambina che aveva offerto l’uva - rivivendo anche quella sensazione strana di pace e al tempo stesso di frenesia che gli era entrata dentro. Ci vollero ancora quaranta minuti per arrivare al Dormitorio, che era un palazzone proprio sul ciglio dello stradello a picco sul mare - e il mare di lassù appariva enorme e azzurro. C’erano una dozzina di stanze, di cui solo tre erano occupate da altri esiliati, tutti uomini soli senza famiglia. A Michele gli assegnarono una stanza con due lettini, gli spiegarono di nuovo che di giorno poteva lasciare il palazzone e camminare a Rio Marina o tutt’al più fino al Cavo - un paesotto di poche case dalla parte opposta di quello stradello - ma non più oltre, e che doveva comunque presentarsi ogni notte a dormire lì altrimenti sarebbero stati guai, addirittura la galera vera. Michele dovette firmare due o tre carte, e dare due o tre altri grugniti di assenso, poi il Maresciallo se ne andò, bestemmiando per il lungo cammino all'indietro che ora doveva fare. Ah!, se almeno gli avessero dato un calesse con un cavallo, per questo lavoro... !
Per prima cosa, Vito Michele e Giovanni fecero la conoscenza degli altri esiliati che vivevano nel Palazzone. Erano anche loro forestieri. Uno veniva dal Friuli, che doveva essere un paese su su nel Nord Italia e, quando parlava, si capiva a stento quel che diceva. Vito Michele capì però che era uno che parlava sempre di Gesù Cristo e del Papa e decise subito di evitarlo. Un altro veniva dalla Sicilia e anche questo aveva un dialetto incomprensibile. Il terzo era un giovane romano, con una faccia lustra e furba da levantino, ma che perlomeno si faceva capire e sapeva ridere e scherzare. Nel Palazzone c’era anche il custode, un vecchio sempre ombroso. Era l’unico con le scarpe: un paio di stivali da caccia ereditati chissà da chi e chissà quando. L’occhio esperto di Vito Michele, il calzolaio, notò che uno dei tacchi si stava staccando. “Che belle scarpe! Sono di vitello giovane e ben stagionato, lo so bene io! Complimenti! Ma uno dei tacchi sta cadendo. Se voi mi permettete, ve lo riparo. Sono calzolaio, io... Giovanni, vieni qui che c'è da lavorare!”.
Fu così che Vito Michele si fece il primo amico e il primo cliente. Mentre martellava il tacco dello stivale, tenendo i chiodini in bocca, Vito Michele alzò gli occhi verso il custode che lo osservava ancora insospettito, e portò il discorso sulle donne del paese. Voleva sapere qualcosa della giovane donna bionda con la bambina, ma da quell’orso non riuscì a cavare una sola parola utile. Già l’indomani mattina Vito Michele, con Giovanni che gli volle andar dietro, ritornò a piedi al paese con la speranza di rivedere quella donna bionda. Si era sbarbato, e indossava una camicia pulita sotto il cappellone nero. La vide che camminava sul molo del porticciolo tenendo per mano la bambina. Vito Michele cominciò a fare piani per capitarle vicino, ma in modo tale che sembrasse un incontro fortuito.
“Guarda, babbo, quella donna di ieri!” gridò Giovanni, puntando la donna bionda con il dito. “Bella, vero?” “Zitto, scemo!” rispose Vito Michele allungandogli uno scappellotto. “Ma di che stai parlando?”. La donna bionda si volse, li riconobbe, e venne loro incontro con quel suo sorriso. Si fermò davanti a Michele, che rimase impalato senza saper dire una parola. Fu lei che parlò, gli chiese se gli piacesse, lì all’isola. Giovanni rispose per lui di sì, con entusiasmo, soprattutto i fichidindia e l’uva moscato. Cominciarono a parlare e Michele si sentiva molto imbarazzato nel parlare così all’aperto con una donna che non conosceva. Per fortuna c’era Giovanni, che Michele si teneva vicino sorreggendolo per le spalle e immettendolo continuamente nella conversazione: “Non è vero, Giovanni?... Diglielo tu, Giovanni...”. “Questo” - disse lei con uno dei suoi sorrisi amari - “è il paese dell'amore, sapete? Vedete quella chiesa lassù?" - e indicò con il dito una chiesa arrampicata sulle pendici del monte. “Si chiama Chiesa di Santa Filomena. Conoscete la storia?”.
Vito Michele voleva rispondere che lui di chiese, di madonne e di santi non ne sapeva proprio niente e nemmeno ci teneva. Ma si trattenne e fece un’aria interessata: “Ma ditemi, ditemi...”. “Filomena era una fanciulla timorosa di Dio, una di quelle, sapete, tutta casa e chiesa, educata naturalmente al culto di chiesa santa cattolica romana... Ma un giorno si innamorò di un bel giovanotto, che però era di religione protestante, uno che apparteneva alla chiesa Valdese. Naturalmente i genitori di lei non ne vollero sapere di un matrimonio del genere: dovete sapere che per un cattolico non c’è niente di peggio di un protestante - meglio un saraceno!”. “E allora?” fece Vito Michele fingendo un vivo interesse. “Allora? Beh, lei pianse, ma non osò ribellarsi, appunto perché era una brava figlia timorosa di Dio e della famiglia. Lui fu costretto a partire. Lei morì di crepacuore e cadde in mare, ma c’è chi dice che ci si gettò, in mare, là da quella rupe del palazzo Cetolone. Allora le gente del paese, impietosita, commossa, sapete com’è, fece una colletta, le eresse una chiesa e la chiamò santa, santa Filomena, appunto”.
Fece a questo punto una pausa, e Vito Michele non sapeva che dire. Per fortuna la donna riprese a parlare: “A me è andata in modo diverso, con il mio amore, in modo molto più, come dire, terra terra...” sorrise alla sua bambina e le carezzò la testa ricciuta. A questo punto, Vito Michele dette una spinta a Giovanni, lasciandogli capire che se ne poteva andare. Giovanni ne fu ben lieto e corse via veloce verso la spiaggia. Vito Michele imparò cose interessanti: che lei si chiamava Maria Isolina, che non aveva ancora trent'anni, ed era così aperta perché non aveva niente da perdere, era una donna già perduta, perché aveva avuto quella bambina senza essere sposata e i suoi l’avevano cacciata di casa. Ora viveva sola con la bambina, e si guadagnava da vivere cucendo e lavando i panni. Vito Michele guardò le sue mani, che erano gonfie e screpolate. Quella donna aveva un sorriso franco ma una piega amara nel volto, parlava in modo pacato e paziente, usando le mani per spiegarsi con gesti ampi che ti parevano carezzare, e Michele si sentì di nuovo molto emozionato.
Ci fu poi un altro lungo silenzio che lui non sapeva come riempire. Guardò il cielo, c’era ancora il sole, ma sulla destra, pallida pallida, si intravedeva anche la luna. “Sarà luna piena, stanotte” era contento di aver trovato qualcosa da dire. “Dalle mie parti si dice che è di buon augurio, quando si conosce qualcuno con la luna piena”. Si sentì arrossire per quel suo ardire. Guardò con apprensione la donna, sperando che lei non si mostrasse offesa. Maria Isolina non ci pensava nemmeno. Guardò anche lei verso il cielo e disse: “Questa mi è nuova, ma ci credo senz’altro. Luna piena vuol dire che non c’è niente da aggiungere, che tutto si è compiuto...”. Poi si alzò d’improvviso, e Vito Michele, che era ancora stupefatto di quella risposta, aveva ora paura che lei se ne andasse via e così finisse quell’incontro. Cercò disperatamente un argomento di conversazione e disse in fretta: “Ma voi, dove abitate?”. Maria Isolina indicò con la mano un grosso palazzone su in alto, a picco sul mare. “Abito lì, quel palazzone là in alto, che chiamano di Cetolone, in una sola stanza”. Poi riprese dopo una breve pausa. “È un palazzo di gente strana. Lì ci vive per esempio Maddalena la Siciliana. La chiamano così perché è nata e cresciuta a Palermo. Si è sposata con uno di qui, che nel frattempo è morto. Lui era un anarchico, e di quelli arrabbiati! E anche lei è rimasta dell’idea del marito, con buona pace del maresciallo e del prete. Una donna in gamba, quella!”.
“Ma davvero ci sono degli anarchici qui in paese? Mi hanno proibito di fare attività politica, ... questi farabutti! Ma sarei ben lieto di conoscere questa Maddalena. Mi pare che ci siano molte donne in gamba, in questo paese” concluse Vito Michele. E osò guardarla negli occhi. “Oh, sì, perbacco, è proprio vero!” rispose lei con forza. “Per esempio, la Filomena”. “Filomena, la Santa Filomena di cui avete parlato prima?”. “No, no! Non c’entra nulla. Sto ora parlando della Filomena di San Piero, tutt’altro che una santa! Non avete mai sentito la sua storia? Credo che questa storia dovrebbe piacervi particolarmente. La volete ascoltare?”. Vito Michele, in cuor suo, era poco interessato alla storia di Filomena di San Piero, forse gli interessava di più qualche notizia su Maddalena la Siciliana e i circoli anarchici. Ma godeva di quell’intimità che quella bella donna bionda gli donava: intravide al di là dei suoi capelli biondi il mare e le colline con il rosso delle cave, e emise un lungo sospiro di soddisfazione. Ebbe di nuovo la sensazione di essere quasi felice. “Vi prego, raccontatemi la storia di Filomena di San Piero. Mi interessa molto, davvero! E non abbiate fretta: mi piacciono le storie lunghe”.