Prendo il treno da Bruxelles in una giornata di fine marzo, destinazione Gent, Fiandre Occidentali. Il vagone dove sistemo me e la mia valigia è pulitissimo e già pieno di pendolari: impiegati in completi ministeriali, una coppia anziana e sorridente, molti studenti fiaccati dalle ultime due ore di lezione, universalmente le interminabili.
Appena il convoglio parte, qualche testa si abbandona sullo schienale per un finto sonnellino (da un colletto bianco spunta la coda di uno scorpione tatuato), altre, compresa la mia, si girano verso il vetro per guardare il paesaggio (verde, mucche,verde, recinti, campanili, verde, un capannone, villette dai tetti scuri, verde, verde), mentre la maggior parte si piega sul cellulare e lì rimane per tutto il viaggio.
In borsa ho un libro, come sempre, un romanzo che leggerò in questi due giorni fiamminghi. Racconta una storia polifonica di morte e aldilà, tutta racchiusa in un cimitero nell'arco di una sola notte. "Dal soffitto venne giù una trave che mi colpì proprio qui, mentre sedevo alla scrivania e così mi avviai verso una cassa... da malato."
Chi parla è uno dei bizzarri, orrendi, amabili defunti che non vogliono crederci alla propria morte, che le resistono strenuamente, certi che sia solo una momentanea interruzione, e così stanziano in un limbo affollato e folle.
Il regionale effettuerà dodici fermate, le ho contate e a ognuna, l'altoparlante scandirà il nome della cittadina in olandese e francese, due suoni inaccordabili, metal e minuetto, un mastino che abbaia e una gatta che fa le fusa e, correndo sopra quei binari linguistici, nel giro di un’ora arriverà al capolinea: Gent.
In così poco tempo i molti regolari e i pochi turisti come me, abbandonano la stratificata, spalancata, capitale del Belgio, per approdare a una campagna piatta e silenziosa, dove sembra imperare, tra giardinetti e recinti, tendine alle finestre e perfette simmetrie urbane, una rocciosa resistenza al rumore, alla confusione, alla mancanza di logica e tradizioni.
Appena scesa alla stazione di Gent St.Piters, mi incanalo insieme ai tanti viaggiatori verso l'esterno; ad attenderci un vasto piazzale invaso da biciclette parcheggiate ordinatamente. Ce ne sono centinaia, di tutte le fogge e colori. Mi fermo qualche minuto a osservare compiti ciclisti di ogni età calzare l'elmetto e, zaino sulla schiena, partire alla volta di casa; gote rosse, cosce resistenti, un'aria seria e sana.
Io prendo un taxi.
L'autista è scontroso.
Forse perché sta litigando con qualcuno al cellulare.
Una donna?
No, il suo capo.
Le gutturali nederlandesi si fanno assassine.
C'è un ragazzino di dodici anni appena approdato al cimitero; è Willi, in figlio di Lincoln. Il Presidente, povero padre disperato, ancora più grigio e allampanato di sempre, non se ne fa una ragione per quella morte è così precoce e ingiusta. In groppa al cavallo, che sotto di lui sembra solo un ronzino,poche ore dopo la fine del mesto funerale, in piena notte, torna segretamente dentro la cappella per piangere il suo dolore lontano da occhi indiscreti. Nel tetro silenzio di un camposanto illuminato solo da una lampada a petrolio, Lincoln non sente le voci irrequiete dei non dipartiti e non vede quelle anime ostinate, ammalate di resistenza che gli volteggiano intorno, che lo trattengono, che gli entrano persino dentro, per ascoltare e chiedere e, a modo loro, aiutare.
Leggo qualche pagina del mio libro prima di scendere al ristorante dell'albergo per cena. Ma c'è un convegno e tutti i tavoli sono prenotati."Possiamo sistemarla al bar" propone un addetto alla reception (gote molto rosse, segno del casco sulle guance). Tento una blanda protesta, ma alla fine accetto e, tra una patatina fritta e l'altra, continuo a leggere le funamboliche parole di George Saunders.
Intanto, attraverso una vetrata, ammiro il fiume Leie illuminato dai lampioni, le luci che oscillano sull'acqua, le barche coperte da teli che non riescono a stare ferme, qualche passante che alza il bavero e, nell'altra sponda, la Korenlei, la riva del Grano, le fiabesche case a gradoni che svettano verso il cielo nero con le loro finestrelle in vetro smerigliato. E subito la mente va a una casa nelle Fiandre del 1434.
I coniugi Arnolfini sono ritratti ieraticamente in piedi nella loro camera da letto cogliendo un attimo di vita domestica: un cagnolino dall'aria furba, un paio di scomodi zoccoli di legno, arance sparse su un mobiletto, una sul davanzale, uno specchio convesso con dodici fregi rotondi e dentro lo specchio il pittore che dipinge e sul muro una scritta:"Jan Van Eyck è stato qui". E io sono qui soprattutto per lui, per Jan Van Eyck.
La mattina dopo esco presto e mi incammino per le strade lastricate del centro respirando un'aria umida di fiumi e di Mar del Nord che è a solo mezz'ora di macchina. Il nucleo della città è tardo medievale e gotico e infatti tutto va in altezza, la Torre Campanaria, il Beffroi, il gigantesco Municipio e anche la chiesa di San Bovone che è la mia meta, è lì che vado a cercare il famoso Polittico dell'Agnello Mistico, dipinto da Van Eyck e da un fantomatico fratello (certo Hubert) nel 1432. E pregusto di ammirare dal vivo uno dei capolavori del Rinascimento delle Fiandre, tre pannelli di legno stracolmi di simboli e trabocchetti, enorme, due metri per tre...
"No, non c'è, è stato trasferito" dice il custode.
"E da quando?"
"Da un po'."
"Non si dice nulla in rete...".
"Lo restaurano, ecco l'indirizzo, si può vedere, a pezzi, ma solo il mercoledì".
È giovedì.
"Quel bambino bianco? Disse Lizzie”.
"Ha detto che siamo morti. Disse Elson".
La notizia si diffonde rapidamente in tutto il cimitero e gli ammalati di vita sono in subbuglio; nei pensieri d'amore che il Presidente Lincoln riversa sul piccolo Willie cadavere, ora che i fantasmi, entrandogli dentro riescono ad ascoltare, si conferma ciò che le anime resistenti non vogliono ammettere. E resto incatenata ai volteggi impazziti dei vari personaggi, ai poteri inversi che li animano, all'iperbole di vita che li trasfigura e alle soluzioni sceniche che stordiscono il lettore fino a ubriacarlo, felicemente...
Prima di tornare indietro verso la stazione, decido di pranzare lungo il fiume, in uno dei tanti ristoranti con i tavoli all'aperto; è una giornata mite e vicino alle stufe si sta bene. Mi guardo intorno, respiro, tolgo gli occhiali e solo adesso mi accorgo della luce, nitida e affilata. È la luce di Van Eyck, una luce avvolgente che apre gli spazi e li moltiplica, che esalta il dettaglio ma ingloba l'insieme, compreso chi osserva da fuori. Un cameriere con una grossa sciarpa rosso scuro al collo si ferma davanti a me e fissa il canale offrendomi il volto glabro, consumato e spigoloso di tre quarti: il fantasma di Van Eyck è venuto a salutarmi.