È il 1960 e a Milano Luchino Visconti sta girando il film Rocco e i suoi fratelli. Per le scene di boxe cerca comparse tra la gente – è il neorealismo, bellezza! Per strada incontra Giorgio Vanni che ha appena finito di suonare in un rinomato locale: è un batterista cresciuto tra Forte dei Marmi e Livorno, emigrato nella città meneghina con la voglia di realizzare un sogno. Visconti lo convoca, per la scena di una scazzottata, in via Bellezza dentro un bel palazzo d’inizio Novecento, il primo convitto operaio costruito da operai, passato alle suore durante il fascismo e primo luogo liberato dai partigiani il 25 Aprile del ‘45. Solo il posto è un romanzo. Il Vanni fa la sua comparsata e se ne va, tornando a suonare nei night. Fine delle trasmissioni con Luchino e con il cinema. Cinquant’otto anni dopo però, in quella stessa palestra, sarà custodito un pezzo importante del suo sogno.
Laura Vanni, una delle figlie, mi ha raccontato la storia dall’inizio. È piena di nebbia, musicisti e di 9, il numero dell’empatia, della condivisione, della poesia e del compimento che precede un nuovo inizio. Eccola qua.
Quando Giorgio Vanni dalla Toscana arriva a Milano è un sognatore che vive la vita appassionatamente, seguendo l’improvvisazione come nella sua musica - tre frasi e 32 battute a caso, almeno sembrerebbe. Sbacchetta sul rullante, tiene in tensione il charleston, va nei night e ritma sotto le note dell’amico Nando De Luca, al piano. E a lui, Giorgio confida il suo sogno: aprire un locale per fare vera musica, “quella musica!” Insieme, un giorno, scendendo al capolinea del tram 19 (ecco un 9!) scovano un capannone. È il posto giusto, lo rilevano e lo chiamano Capolinea, ma non per via dei tram: Giorgio in particolare si riferisce alla sosta dopolavoro per i suonatori. Ogni musicista, dice, fa “marchette” in giro per pagarsi la pagnotta, ossia suona brani che accontentano i gestori dei night ma frustrano l’artista che dopo ha bisogno di rigenerarsi in un luogo dove possa fare musica in purezza.
Ora il posto c’è, ha un nome e una data d’inaugurazione: 12 dicembre 1969 (ecco un altro 9). La bomba in piazza Fontana però depista il corso della Storia d’Italia, figuriamoci se non svia quello di uno spazio con musica. Giorgio e Nicola si ritrovano con una manciata di amici, una bottiglia da stappare, nessuna voglia di brindare e rimandano l’apertura al giorno dopo. E il 13 un po’ di gente arriva al capannone squinternato – bohemienne per la borghesia – nascosto dietro un giardino avvolto dalla nebbia padana massiccia seppure poetica come una foto di Ghirri. Il Capolinea si trova – quando si riesce a trovare – nella zona più sperduta della vecchia Milan: lungo il Naviglio Grande in via Lodovico il Moro 119 (voilà un altro 9) al buio, senza un’insegna, arrivarci e trovare l’entrata è una caccia al tesoro, ma di sera in sera il posto si affolla.
Il tempo scorre, Nicola nel frattempo lascia questa terra e Giorgio resta unico patron ad accogliere ospiti, suonare, servire vino di pronta beva e birra Peroni, mentre la moglie cucina piatti sinceri. Nella sala una manciata di tavolini e là, sotto luci improvvisate, tra occasionali strumenti musicali, il posto fisso ce l’ha un grande pianoforte a coda, che attende. Aspetta ogni sera di animarsi sotto le dita di chi vuole suonare veramente, suonare l’unica musica che sullo spartito mette insieme amore, tempo, morte; insensatezza, pulsione e tensione irrisolta e vitale: il jazz, grande amore di Giorgio che ne ha sempre colto il respiro ancestrale. Una musica che sembra uno scherzo ma per arrivarci ci devi mettere studio, passione, pratica e precisione. Partendo dal pianoforte, lo stile jazz - far sembrare casuali le cose complesse - pervade tutto il Capolinea, le persone, l’atmosfera, le relazioni. La sottoscritta se ne ricorda bene.
A metà anni Settanta ero adolescente, ci andavo con mio padre e ogni volta erano incontri speciali: gastronomi e giornalisti visionari come Luigi Veronelli e Gianni Brera, attori e registi che hanno fatto la storia del Teatro e del cinema italiano, intellettuali e gente che amava unicamente la musica, tutti intrigati dalla formula “capolinea” che presto diviene l’unico e inimitabile tempio del jazz in Italia. E meta dei più grandi jazzisti del mondo da quando Arrigo Polillo, critico della rivista Musica Jazz, una sera arriva con il violinista Joe Venuti che fuori programma si mette a suonare. Ha un tale successo che diventa presenza fissa, dando l’occasione giusta a Giorgio per aprire la strada a concerti con artisti anche internazionali.
E negli anni i nomi arrivano tutti: da Chick Corea, McCoy Tyner, Paul Bley, Mal Waldron, Larry Porter, Steve Lacy a Giorgio Gaslini, Enrico Intra, Paolo Tomelleri, Enrico Pieranunzi, Tullio De Piscopo, Umberto Petrin, Mario Rusca. Per dirne alcuni. E poi Chet Backer, che al Capolinea registra un disco dal vivo oltre a suonare spesso con Enrico Pierannuzzi, è testimone supremo di quanto il sogno di Vanni si sia avverato. Tra gli anni Settanta e Novanta al Capolinea non solo si fa jazz tutte le sere e i musicisti vanno lì per “purificarsi” e improvvisare jam session, ma capita anche che restino a dormire nel vecchio albergo sopra il locale, diventando parte della famiglia, che intanto si allarga. A inizio degli anni Ottanta Giorgio diventa nonno di Francesco che da piccolo ama stare al locale per essere svegliato con la tromba di Chet Baker mentre suona le ballate.
Quando nel 1995 il Vanni arriva al capolinea della sua vita, se ne va soddisfatto: in un capannone rimasto sempre senza insegna, si è fatta la storia di un’epoca. La figlia Laura, che già da tempo lo affianca nell’organizzazione artistica, prosegue l’impegno con le sue sorelle fino al 1999 (…il 9…). Quell’anno però il locale va a fuoco. E non riaprirà mai più. Si salvano poche cose, tra cui uno Yamaha C5 arrivato lì quasi 20 anni prima. I suoi tasti hanno assaggiato le dita di mostri sacri. Superstite, va in una casa di campagna e lì rimane, muto, fino al 2017.
«Ho cercato di darlo a qualche scuola di musica, ma senza successo», racconta oggi Laura Vanni, «mi dispiaceva tanto lasciare in silenzio uno strumento così; ho pensato di venderlo pur di restituirlo alla vita, ma non ho avuto coraggio, poi un giorno è spuntato il progetto alla Palestra Visconti». Ricordate il set di Rocco e i suoi fratelli dove nel ’60 Giorgio fa la comparsa? Ecco, siccome i sogni certe volte ci sopravvivono il mitico Yamaha C5 ora si trova lì e ha ricominciato a suonare. «È una coincidenza incredibile», racconta Maso Notarianni, presidente dell’Arci Bellezza sede della palestra intitolata a Luchino Visconti, che si trova nello storico stabile, oggi del Comune di Milano, in via Bellezza. «Da due anni mi sono impegnato per restituire alla città questo spazio magnifico e pieno di storia del Novecento. L’obiettivo è trasformarlo in un polo di arti e cultura un luogo di relazione, condivisione, appartenenza. C’è molto da fare - prosegue Notarianni - e abbiamo bisogno dell’aiuto di chi ci crede davvero, come Laura che ho incontrato grazie ad Alberto Minetti dell’associazione Jazz @ Milano. Lui ci dà una mano per il programma musicale: ogni ultimo giovedì del mese jam session jazz e poi una palestra per giovani jazzisti. Stavamo cercando un pianoforte e Alberto mi ha parlato di Laura. Voilà».
C’è un video che testimonia il trasloco del leggendario pianoforte: «Ero davvero tanto emozionata, tutti lo eravamo. Arrivato a destinazione l’abbiamo fatto ripulire e riaccordare» dice Laura e Maso, fiero, aggiunge: «non abbiamo toccato l’estetica, così le bruciature su un fianco e la stoffa del seggiolino sdrucita sono rimaste, sono parte della leggenda non si possono cancellare». Notarianni ha invitato Laura a dare anche il suo apporto al comitato collettivo per la programmazione musicale dell’Arci Bellezza e lei ne è felice: «Ho vissuto un periodo speciale al Capolinea e spero di poter vivere ancora certe emozioni accompagnata dal suono del mio Yamaha C5, com’è successo la prima sera con il grande Mario Rusca – ottant’anni e ancora simbolo del jazz - che dopo 19 anni (oibò un 9! Ndr) qui all’Arci bellezza lo ha rianimato».
Anche Paolo Tomelleri e Umberto Petrin hanno ri-suonato sul mitico e altri si succederanno: «Andiamo avanti convinti: c’ è troppa storia e troppe connessioni per non crederci e poi nei locali di jazz oggi manca pubblico forse proprio perché manca un Vanni con lo spirito vero del jazz. Con Laura vogliamo provare a ricostruire un luogo che crei quell’atmosfera», chiosa Notarianni. L’anno prossimo saranno 50 anni dalla fondazione del Capolinea e 20 dalla sua chiusura. E visto com’è andata la vicenda e che sarà il 2019 (ops, 9) ci viene quasi da credere che potremmo forse chissà trovarci anche davanti a un nuovo inizio.