I grandi inviati del Corriere Sera. Buzzati sul fronte navale e la censura. Barzini in Cina per la rivolta dei Boxer. Il raid da Pechino a Parigi del principe Scipione Borghese. Tomaselli testimone delle imprese di Umberto Nobile e dell'ascesa di Mao Tse-tung. Il giro del mondo di Vittorio Beonio Brocchieri
Per vent'anni aveva sognato montagne, mentre ora sognava solo navi. Navi da guerra. Quando sognava, nella sua cabina affollata di taccuini e lapis spuntati, era il rombo degli aerei inglesi a svegliarlo. Ma anche quelli facevano parte dei suoi sogni di corrispondente di guerra, insieme alle battaglie, ai siluri, agli incrociatori, alle corazzate, ai convogli, ai portelli d'acciaio delle torri marine, agli esili dei sommergibilisti in fondo al mare. Quando i sogni svanivano, Dino scriveva, armato di taccuino, a bordo di una nave o di un sommergibile. Quando capitava, da una base navale. Nel 1940, ufficiale richiamato alle armi, s’era imbarcato sull'incrociatore Fiume perché raggiungesse da corrispondente il teatro delle operazioni navali del Mediterraneo. Vi fu il Fiume, ma anche il Gorizia, il Trieste e i sommergibili, come il Bragadin.
A bordo delle unità della Regia Marina, lontano dalla quiete borghese di via Solferino, dal silenzio della grande stanza dal lungo tavolo rettangolare, quello con le lampade a curvatura e l'incavo per i calamai e le asticelle, dove per anni, fra dispacci, telegrammi, notizie, aveva scritto i suoi articoli, sempre a penna mai con quella macchina dai tasti da pigiare e il rullo da far scorrere su e giù, Dino Buzzati avrebbe redatto per il Corriere della Sera, suo giornale, una cinquantina di articoli. Non che non gli capitasse di incappare nella censura. Come quel suo articolo di costume sulla Betta 5, bettolina per anni in servizio fra La Spezia e La Maddalena, che gli fu restituito senza troppi complimenti dal Ministero della Marina o ancora quello sul marinaio scelto Schiano, di Torre Annunziata, morto il 2 ottobre 1940 nelle acque del Canale di Sicilia dopo un attacco di siluranti ai danni di incrociatori britannici, esaminato personalmente dal “Sottosegretario di Stato il quale ha espresso il parere” gli manderà a dire il Ministero “che non sia opportuno pubblicarlo attualmente per non risvegliare in molti ricordi il tormento di una fine così tragica e che la pubblicazione possa essere rimandata di qualche tempo”. L'articolo non fu mai pubblicato.
“Avrai forse visto i miei pezzi di marina, che vanno facendosi sempre più difficili perché il colore, gli articoli d'ambiente e simili sono banditi” scriverà Buzzati il 31 dicembre 1940 dall'incrociatore Trieste all'amico fraterno Arturo Brambilla fino a quando la Marina non gli ordinò un libro sulle manovre della flotta navale italiana. “Mi è stato proposto, da alta autorità della Marina, di fare una specie di Tsushima sulla attuale nostra guerra navale” scriverà sempre a Brambilla in una lettera da Messina del 5 febbraio 1942 “penso che ne potrebbe venir fuori una cosa bellissima, a saperla fare, soprattutto perché l'opera dovrebbe essere veritiera e non ricalcare le corrispondenze di guerra che via via appaiono sui giornali”. Il libro di Buzzati non vedrà mai la luce. Rimangono in compenso le sue corrispondenze marinare con la descrizione della vita di bordo, delle battaglie, delle manovre, degli assalti, delle tante perdite e delle altrettante conquiste.
Quando in Cina scoppia la rivolta dei Boxer, Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera, telegrafa a Londra a Luigi Barzini chiedendogli se è disposto a partire. Barzini non risponde. Parte per Milano e si presenta al giornale. “Sono pronto” dirà con già in mano i bagagli per l'Oriente. Per il Corriere della Sera Barzini scriverà corrispondenze come quelle sul conflitto russo-giapponese o ancora sulla Pechino-Parigi (Barzini al taccuino, il principe Scipione Borghese, sedile accanto, al volante della 35/45 HP modello 1907 della Società Itala).
Nel 1889 Albertini spedì a Cristiana, l'odierna Oslo, Ugo Ojetti. Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi, era in partenza per il Polo Nord a bordo della Stella Polare. Che se ne scriva. Ma più che quella al duca, per Ojetti potè l'intervista a Fridtjof Nansen, il principe dei ghiacci.
Quando nel 1928 il dirigibile Italia si schiantò sulla banchisa, Cesco Tomaselli era là. Tra le vittime della Tenda Rossa il comandante non c'era, Umberto Nobile era salvo, chiuso in una cabina del Città di Milano con gli occhi luccicanti di febbre, il volto “smagrito, sfigurato”, seduto su una poltrona “la gamba fratturata, la destra, appoggiata a una sedia”. Al Corriere della Sera Tomaselli sarebbe rimasto una quarantina d'anni testimone delle imprese di Umberto Nobile, della campagna d'Etiopia e di quella di Russia, della Guerra Civile spagnola e dell'ascesa in Cina di Mao Tse-tung.
“Bengasi, 20 ottobre. Alle sette e venti di stamane, il capitano di vascello Capomazza, capo dello stato maggiore dell'ammiraglio Aubry, discende a terra scortato da pochi marinai, visita il console inglese Jones, indi inalbera la bandiera italiana sulla Dogana e sul castello gridando: Viva l'Italia! Viva il Re! Gli fanno eco i marinai. Il capitano Capomazza induce i capi arabi e il sindaco di Bengasi a recarsi a bordo della Vittorio Emanuele a conferire con l'ammiraglio Aubry. Salgo con loro. L'ammiraglio Aubry rivolge ai capi un lungo fervorino, rendendo loro noti i pacifici civili intendimenti dell'Italia. Più tardi discendono a Bengasi i carabinieri al comando del capitano Borsarelli, e si fanno largo tra la folla degli indigeni convenuti alla Dogana sparando in aria colpi di fucile”. Era il 30 ottobre 1911 quando sul Corriere della Sera fu pubblicato un articolo di Giulio Bonacci sui giorni festosi di Bengasi (i marinai italiani erano sbarcati a Tripoli giorni prima issando il tricolore sul forte Sultania).
Ma per Bonacci così come per tutti gli altri inviati del Corriere della Sera, Barzini, Lasagna, Fraccaroli, Civinini, Tioli, Rossini, Larco, Berri, Emanuel, la Libia non sarebbe stato terreno amico: mai come quella volta il Ministero dell'Informazione esercitò la censura. “I telegrammi da Tripoli a tutti i giornali” si lamentò via Solferino “confermano che il Ministero insiste nel volere che i corrispondenti non seguano le operazioni di guerra, e che essi non sbarchino in Cirenaica. L'autorità militare aveva dato il suo consenso. Ma il Governo pretende che il pubblico sia informato di quanto avviene solo attraverso i gelidi, meschini comunicati ufficiali che compaiono quando esso vuole, e dei fatti non recano che un tenue riassunto. Nessun Governo, di nessun paese, si è mai permesso di commettere una simile sopraffazione a danno della stampa. In tutte le guerre è stato permesso ai giornalisti di seguire le operazioni militari salvaguardandosi colla censura dalle loro indiscrezioni od esagerazioni. Che c'entra la segretezza colla narrazione dei fatti compiuti?”.
Vi fu la Libia, e l'Abissinia di Arnaldo Cipolla, la Dancalia di Buzzati e quella di Tomaselli e il giro del mondo di Vittorio Beonio Brocchieri. Altri tempi, altri giornalisti. Una storia, la loro, raccontata da Lorenzo Cremonesi, inviato del Corriere della Sera, nel bel libro Dai nostri inviati: inchieste, guerre ed esplorazioni nelle pagine del Corriere della Sera pubblicato nel 2008 da Rizzoli.