Nel corso degli anni, la sommatoria di decennali conflitti armati uniti agli effetti del cambiamento climatico che spesso colpiscono comunità già vulnerabili hanno causato lo spostamento di milioni di persone sia all’interno dei confini nazionali sia attraverso le frontiere. I campi profughi, che originariamente erano stati concepiti come una risposta temporanea a una situazione di emergenza, sono ormai diventati una soluzione semi-definitiva. Si stima infatti che la permanenza di un rifugiato all’interno di un campo sia mediamente di diciassette anni. Negli ultimi anni, la crescita esponenziale di questo fenomeno ha messo in discussione la gestione di questi territori che in termini di estensione sono da considerarsi più vicini alle città che non a semplici accampamenti di emergenza. In particolare, ci si confronta sugli aspetti urbanistici di queste non-città, sulle relazioni fra spazi pubblici e privati, fra individui e collettività.
Esistono diversi manuali che si occupano della gestione di campi profughi, principalmente redatti da enti e strutture che operano nel settore umanitario. Alcuni sono vere e proprie istruzioni d’uso che illustrano come agire in caso di emergenza, altri affrontano il tema più nel suo complesso provando a dare risposte in merito al mantenimento degli stessi spazi per periodi di tempo più prolungati. Ma la questione inerente la gestione non resta circoscritta a chi abita il campo profugo o a chi opera all’interno di esso. Esistono dinamiche e interessi più complessi che si intrecciano. Se da una parte chi si è trovato a dover fuggire dal proprio paese tende a voler ricreare - per quanto possibile – un nuovo assetto “permanente” che possa col tempo identificare come “casa”, i governi locali dei territori occupati – non riconoscendo la legittimità delle nuove “città” – si preoccupano di proteggere le proprie risorse ostacolando l’espansione e soprattutto la prolungata permanenza, nei loro territori, di campi profughi nei loro territori. Lo sviluppo di questi ultimi è il risultato di queste forze opposte: permanente contro temporaneo.
Nonostante la loro estensione sia in certi casi paragonabile a quella di grosse città (da un paio di anni a questa parte, il campo profughi di Dadaab è la quarta città più grande del Kenya), si registrano sporadici casi di pianificazione urbanistica come se questo aspetto non fosse rilevante. Chi opera sul campo ha spesso lamentato l’assenza di figure professionali specializzate in questo settore. Se si osserva l’assetto distributivo di molti campi, spesso questi ultimi sono organizzati sulla falsa riga di quelli militari: una griglia di strade che definisco i perimetri dei lotti sui quali si localizzano tende o costruzioni similari di tipo provvisorio che si alternano a strutture adibite a servizi per la collettività. Si tratta di una distribuzione molto efficiente che massimizza lo spazio a disposizione e facilita il controllo su ordine e sicurezza, non funziona altrettanto bene se si pongono al centro delle priorità le esigenze del singolo. Spesso i lotti dati alle singole famiglie sono distribuiti lungo il perimetro dell’isolato e affacciano quindi sul reticolo di strade; mentre nella parte interna degli isolati vengono localizzate le attrezzature di uso comune. L’organizzazione per isolati quadrati agevola sicuramente il controllo, ma non certo la privacy con i lotti lungo le strade e meno ancora la possibilità che si creino aggregazioni di quartiere con chi è posizionato al di là della circolazione principale. In ogni caso, la facilità con cui si organizza un campo in stile militare, rende questa soluzione la più efficace in caso di emergenza.
In alternativa, esiste l’approccio cluster, cioè per raggruppamento di elementi, dove le strade sono organizzate in modo gerarchico con dimensioni diverse organizzate “ad albero” che si sviluppano nel rispetto della topografia irregolare del luogo. Le aree che ospitano attrezzature di interesse comune si trovano al centro di un sistema distributivo radiale. Lo scopo di questo approccio è il rispetto delle esigenze individuali rispettando la privacy delle aree private, ma agevolando l’aggregazione con attività di vicinato che rafforzano i rapporti fra le persone all’interno delle comunità.
Nel passaggio dalla teoria alla pratica, le figure professionali coinvolte hanno il compito di valutare prima le condizioni del luogo tenendo presente gli aspetti ambientali e sociali per poi identificare la soluzione più idonea che soddisfi i requisiti di flessibilità per un contesto in continuo cambiamento. Probabilmente la soluzione corretta abbraccia diversi aspetti di entrambi gli approcci illustrati.
Qualunque sia la strategia scelta, a un certo punto il campo profughi perderà presumibilmente parte del supporto umanitario che lo ha messo in piedi e a quel punto saranno le comunità che lo abitano ad assumere un ruolo più centrale. La capacità di aver potenziato le capacità individuali e la coesione sociale darà in questa fase i suoi frutti.