Torniamo ancora una volta in Liguria, terra amata e protetta da chi “la\ci” vive. Questa volta il mio viaggio gastronomico continua alla volta di una storica ricetta di questa regione, i “testaieu”, un piatto povero dal background ricchissimo. L’Italia, mulino d’Europa, è da sempre abile sfruttatrice di quanto ha da offrire il suo territorio, cercando di limitare gli sprechi e arricchendo ogni singola regione di tesori non ripetibili o confondibili.
La storia di questo prodotto è antichissima, nasce dalla semplice unione di farina (originariamente di farro) e acqua. Pare affondare le sue lunghe radici sino ai Romani, i quali cuocevano l’impasto su pietre arroventate nei bracieri durante le numerose spedizioni. Successivamente vennero forgiate delle forme realizzate in ferro battuto recuperato da quello utilizzato per i ferri dei cavalli così da semplificarne la cottura senza colare impasto ovunque e limitare quindi gli sprechi. Questa usanza continuò nei secoli, trasformando l’utilizzo degli stampi di ferro in forme per la realizzazione di un successivo attrezzo chiamato “testo” tradizionalmente realizzato in terracotta o ghisa.
Nell’alta Val Gravegna, già nel tardo ‘500, le massaie preparavano la sera i focolai sul quale arroventare i testi di modo che la mattina dall’unione del calore con la sapienza delle loro mani nascesse la colazione perfetta per coloro che avrebbero affrontato una faticosa giornata nei campi. Le ricette variavano per stagione e disponibilità di materie prime, in quella zona la farina di castagne era l’ingrediente principe, arricchito con burro, formaggi o tuffato in una generosa scodella di latte appena munto. Non si sprecava niente, veniva recuperato persino il calore che immagazzinavano i testi, i quali venivano avvolti in panni o stracci e infilati tra le coperte dei letti per scaldarli nel periodo invernale.
Ogni zona aveva le sue colture e quindi i propri sapori da regalare a questa ricetta mai uguale. Il testarolo “classico” ha origine nel cuore della Lunigiana, l’inconfondibile forma a disco e lo spessore di mezzo centimetro cotto su brace e poi arricchito dal gusto del pesto o dell’olio colato a crudo con una sana grattata di grana. Quindi, salendo in riviera non sono più testaroli? Assolutamente sbagliato, la tradizione vuole che per comodità di trasporto fossero realizzati di dimensioni ridotte cotti nei testi (rigorosamente di ghisa o argilla) o bolliti, eventualmente tagliati a straccetti e quindi serviti con i più gustosi e conosciuti sughi locali: pesto fresco, salsa di noci (rigorosamente priva di panna!), olio a crudo e parmigiano, caprino e tanta fantasia dei consumatori.
Esiste invece una provincia centrale, La Spezia, dove il testarolo abdica cedendo il trono a un altro prodotto che ha origine dallo stesso impasto, ma lavorato diversamente: il panigaccio. Queste due ricette vengono spesso confuse poiché la ricetta madre è la medesima, ma sono due prodotti estremamente diversi. Pane e pizza sono uguali? Sfogliatelle o cornetti anche? Direi di no, quindi è opportuno imparare a distinguere i prodotti che contraddistinguono le tradizioni del nostro paese.
A differenza del testarolo, il panigaccio ha un impasto meno denso e viene cucinato direttamente nei testi di terracotta grazie al calore delle forme arroventate e alla pressione di queste posizionate a “torre” (una sull’altra) e pressate. Questo ha un consumo più simile a quello delle tigelle emiliane, va infatti mangiato appena sfornato con formaggi e salumi. Fidatevi di me se vi dico che il bruciare dei polpastrelli a contatto con il prodotto rovente mentre spalmate sopra una generosa dose di gorgonzola o stracchino non vi toccherà nemmeno, credo anzi che l’acquolina inizierà a innondarvi allo sfrigolio del lardo che si scioglie lentamente col calore prima di mescolarsi in una danza di sapori sulla vostra lingua. Croccantezza e sapori forti contro morbidezza e cremosità delle salse, questi sono i tasselli principali che caratterizzano queste ricette che rischiamo sfortunatamente di perdere.
Ad oggi è infatti complicato trovare artigiani ancora in grado di produrre i testi sia di ghisa che di terracotta. Si tratta di una lavorazione molto lunga e complessa, che pochissimi hanno avuto la voglia di mantenere: in primis bisogna reperire la giusta argilla, successivamente con l’aiuto di una macina (che nel tempo ha sostituito l’antica “botuela”, una pala di legno) si impasta lentamente con una precisa dose di acqua tiepida. La miscela ottenuta si lascia poi a riposare per una settimana in modo da renderla compatta e asciutta, dopodiché inizia il lavoro di “formatura” in cui l’artigiano provvede alla realizzazione di forme tondeggianti da porre negli stampi di ferro e quindi cotte ad altissime temperature in forni specializzati (con il rischio che si crepino).
Siamo fortunati abitanti di un paese che è un teatro artigianale e gastronomico, dove la rete dei nostri prodotti edibili o meno si intreccia tra mari e monti, collegandone ogni singolo elemento e rendendolo allo stesso tempo così unico. Potremmo spendere un mese in ogni regione italiana senza riuscire a scoprire tutte le meraviglie (sopravvissute all’evoluzione) che ha da offrire. Siate curiosi e siate golosi, lasciandovi avvolgere da quel che i vostri sensi cercano di mostrarvi, non sottovalutando che, forse, l’esperienza più indimenticabile potrebbe essere nascosta vicino a casa vostra.