Il periodico è la struttura comportamentale della moda del nostro tempo.
Non la novità, ma la rielaborazione del noto per vestirlo di nuovo.
Il fatto che la moda si vesta a sua volta per vestirci è la naturale conseguenza di processi produttivi dopati e le vesti assunte sono sempre di qualcun altro e nate per altre esperienze.
Questa condizione impone una riflessione sul concetto di inedito.
Un tempo le forme e i materiali si ispiravano ad ambiti comportamentali e creativi che divenivano tangenti al costume, oggi, per lo più, questi vengono rilevati da quanto già il sistema ha prodotto.
Non ci si sorprende del futuro, ma ci si impone di sorprendersi del passato.
La sorpresa giunge per definizione dall'inatteso, dalla forza di un accadimento che s'impone in dose di alterità e diversità rispetto ad una condizione data nell'oggi, ma in questo momento la presenza di esperienze d'innesto anche territoriale e culturale differente non scollega l'atto vestimentario dalla condizione già comunicata. Il principio egemonico occidentale, già declinato e variato dagli anni '70 e '80 del secolo scorso, resta il dominante.
L'intervento delle forze creative ha la sua esperienza nell'atto copulativo con il passato, questo è nella logica di sviluppo progettuale coeso al sociale e alle sue esigenze e che la moda alimenta, ma la misura del rispetto e della conoscenza delle fonti archivistiche ha oggi un approccio multistratificato che fa perdere i riferimenti ed edulcora l'edito con l'etichetta di nuovo, ma più che nuovo si può dire che “giunge di nuovo”. In tale prospettiva è ingiustificato l'uso di termini quale “Geniale” o “Straordinario” che non hanno ragione d'essere in contesti di ordinaria rielaborazione di quanto già rielaborato, ma che fungono da etichetta di una qualità che altrimenti non si potrebbe leggere. Rielaborare ciò che è stata l'armonia espressiva di un tempo passato per poi elaborare il già rielaborato scombina l'asse della storia del manifestarsi dell'uomo, in immagine, in favore di una prospettiva d'asimmetria con la bellezza: asimmetria forzata dall'esigenza di trasformazione nel segno del “nuovo” che per forza di cosa vira verso il decadente e il ridondante.
Di fatto il ritorno imperante al passato non è standardizzabile nella ripresa dei canoni, ma nel ruolo di assemblatore per il corpo coperto di novità più raccontate che di fatto e dunque la strada s'inverte in un domani onanistico.
La strada da anni governa i progetti del design e del fashion, ma la strada ha tolto l'indicatore individuale di chi a suo nome comunicava un'idea: oggi il nome è un'etichetta governata dal marketing. Si parla di mescola dei linguaggi che avviene per attribuire nomi a strade che sono sempre le stesse. Non si dialoga con forme, materiali e colori per la forza che essi hanno nell'essere emotivi e funzionali, ma per bisogno di colleganza e aggregazione al consumo.
Osservando le presentazioni della moda quello che ieri si chiudeva come obsoleto oggi si apre come rivoluzionario, ma questo è appartenente al suo DNA e al suo comunicarsi. In questo nostro tempo la pagina scritta nel fashion usa sempre le stesse sentenze con ritmo duale, scomposizione del canone e forza contrattuale con lo spirito del noto come traccia da percorrere per accomodare il torpore delle coscienze e “lasciare”, come permanente, il certo per il valore di un risultato certificato escludendo dal ritmo l'incerto che da sempre è, dell'atto creativo puro, la sua adrenalina.
L'armonia di questo ritmo si apre ai giochi del tempo nella misura di uno a uno, questo è il risultato di una sopravvenuta incapacità addizionale al reale che invece è sempre appartenuta all'atto creativo in tutti gli ambiti.
Questo deficit emerge in un'epoca di sovracomunicazione della “creatività”, dove nel sovracomunicato sta la qualità e non nel contenuto.
Il tema può sembrare legato al nostalgico sguardo al tempo che fu, ma in realtà è solo una disamina educativa sull'uomo e il suo progetto d'esperienza.
Cosa sempre più rara è l'autentico atto del prodursi in un pensiero scollegato dal mercato e dal mercato captato.
Ma cosa è il mercato se non ancora noi che lo alimentiamo?
L'atto che si chiede a noi stessi è di coscienza rispetto al perimetro di cui ci occupiamo, ossia il nostro.
Approfondire, oltre al comunicato, per comprendere i linguaggi che raccontano la sintesi di una civiltà questo è il primo atto di coscienza per esigere un parametro a misura d'uomo.
Oggi la sintesi associativa è il modulo per didascalizzare contenuti che altrimenti avrebbero altra denominazione e uso.
La costruzione dei periodi che la moda scrive nell'oggi è dopata da quantità di presenze riempitive dei vuoti creativi esattamente come la locuzione “cioè”, nel linguaggio parlato, interviene a colmare i vuoti espressivi durante un'esposizione verbale. “Cioè” spesso viene interposta a riempire l'incapacità di costruire un discorso compiuto. Questo termine che nel linguaggio corrente sembra aprire all'approfondimento e alla spiegazione di un enunciato, spesso viene usato a ripetizione di un suono inchiodato all'assenza di contenuto e immaginazione in un racconto: “... cioè...”.
Il cioè della moda è la partita tra ineffabile e affabile come gioco letterario a piè di pagina: trasalimento verso un demone geniale, cioè straordinario, cioè mai visto prima...basta enunciarlo, meglio non guardarlo, c'è il rischio di vederlo... cioè…