Attraverso i colori si attenuano o si esaltano le forze attrattive degli oggetti e allo stesso tempo si tracciano invisibili confini mentali ed emozionali; non è facile delimitare i contorni di questa complessa osmosi. In origine, la scoperta dei colori si muove di pari passo con la conoscenza e il consumo del cibo. Ogni alimento, infatti, prima di essere forma e sapore, è inizialmente colore. Così le tonalità chiare sono simboli di vita e rinascita, emblemi di sacralità e purezza: come la neve, il latte, lo zucchero, il grasso animale e la polpa dei semi. I colori scuri manifestano stabilità, concretezza e sintesi: come la terra, il caffè, il cioccolato e il succo di molte radici. Mentre il rosso, il verde e il giallo incarnano rispettivamente coraggio, rigenerazione e dinamismo: come il fuoco, il sangue, la clorofilla e i pigmenti di molti frutti. Ma i colori naturali, nelle loro infinite sfumature, oltre a rafforzare la dimensione materiale del cibo, diventano “ingredienti culturali” essenziali di tutte le forma di creazione e attività umane, da quelle artistiche a quelle manifatturiere, compresa la lavorazione delle fibre tessili. La tintura delle stoffe, infatti, era praticata da tutti i popoli antichi secondo modalità e tecniche influenzate da fattori ecologici (disponibilità di materie prime), sociali e religiosi.
Gli antichi Egiziani tingevano di rosso e di giallo il Lino utilizzando il Cartamo (Carthamus tinctorius) e lo Zafferano (Crocus sativus). Nell’antica Roma esistevano particolari corporazioni di tintori, contrassegnate da nomi che indicavano il colore che trattavano: i Violari (specialisti del colore viola), i Corcearii (del giallo), ecc. I Cinesi riuscivano a realizzare colori dalle tonalità suggestive miscelando alle tinture ottenute dalle piante anche quelle ricavate da particolari specie di alghe. In India la cultura del colore naturale, tuttora fiorente, vanta delle origini antichissime: tra i tanti colori di estrazione vegetale abbiamo, ad esempio, il giallo ottenuto dalla Curcuma (Curcuma longa) e dall’Haritaki (Terminalia chebula), l’arancione ricavato dai fiori di Butea (Butea frondosa) e il bianco, nelle sue diverse gradazioni, ottenuto dai frutti di un albero Himalayano (Sapindus mucorossi). Mentre per quanto riguarda il colore indaco esiste una maestranza, i Nilari, specializzata da millenni nel tingere i tessuti di questa specifica tonalità. Il termine sanscrito nila, infatti, è usato per designare sia questo colore sia la specie vegetale da cui viene estratto, l’Indigofera tinctoria: una leguminosa arbustiva, alta circa 2 m, caratterizzata da fiori rosa con sfumature verdastre, riuniti a formare dei grappoli all’ascella delle foglie. La preparazione di questa tintura richiede numerose e complicate manipolazioni atte a trasformare il principale costituente, l’indaco, in indigotina: ciò avviene attraverso vari passaggi in acqua bollente, calce, melassa e urina di mucca. In passato gli scarti vegetali derivanti dalla lavorazione di questa pianta costituivano l’ingrediente principale per la realizzazione di eccellenti fertilizzanti naturali, indispensabili per valorizzare le esigue risorse agrarie di un vasto e popoloso paese come l’India. Oggi, il massiccio uso di indaco sintetico e di fertilizzanti chimici, la cui importazione è sotto il diretto controllo di alcune multinazionali inglesi, ha provocato una progressiva riduzione di questo tipo di coltivazione.
Una testimonianza più vicina alla nostra cultura, che per svariati motivi storici e sociali merita una certa attenzione, è rappresentata dal Guado o Pastello (Isatis tinctoria). Questa pianta erbacea biennale (o perenne), appartenente alla famiglia delle Crucifereae, può essere considerata una delle più importanti piante tintorie di tutta l’Europa centrale e meridionale; con essa si tingeva di colore azzurro la maggior parte dei tessuti, in particolare seta e lana. Il suo impiego risale alla preistoria e si è protratto fino il XVIII secolo, costituendo una delle principali risorse economiche di molte regioni italiane. Le piante venivano raccolte e macinate in appositi mulini (macina guati) formati da una coppia di macine circolari, ricavata ciascuna da un unico blocco di pietra del peso di circa 30 quintali: una di esse, canalizzata a raggiera e disposta orizzontalmente costituiva la base fissa, l’altra, sistemata in verticale e con scanalature parallele, girava attorno ad un’asta a bandiera, a sua volta azionata da forza animale o idrica. Con la macinatura si eliminava il succo del vegetale e la pasta ottenuta era modellata in palle o panetti ed essiccata. In seguito questo materiale subiva una delicata macerazione con aggiunta di calce, poi veniva nuovamente essiccato e infine ridotto in polvere. Con l’immissione sul mercato dell’indaco proveniente dall'India, di qualità superiore e a prezzo concorrenziale, la coltivazione di questa pianta registra un drastico calo, fino a scomparire del tutto con l’avvento dei colori chimici a base di anilina. La produzione sintetica di indaco viene realizzata ufficialmente in Germania nel 1897.
Tessuti di tonalità comprese tra il lilla e il viola scuro si ottengono con il succo dei frutti di Mirtillo (Vaccinium myrtillus), Edera (Hedera helix) o Ligustro (Ligustrum vulgare). Invece quando si parla di tintura vegetale rossa, generalmente, si fa riferimento alla comune Robbia (Rubia tinctorum): di questa pianta si utilizza il rizoma, ricco di alizarina, seccato e polverizzato (oggi il medesimo principio attivo è riprodotto in laboratorio). Diverse tonalità rosso-violacee si ottengono impiegando l’oricello, estratto da alcuni Licheni (appartenenti al genere Rocella e Pertusaria) o l’alcannina presente nella radice di Alkanna tinctoria, pianta tipica delle regioni mediterranee (utilizzata anche per colorare liquori, medicine e cosmetici).
Altre piante come la Camomilla dei Tintori (Anthemis tinctoria), la Ginestrella (Genista tinctoria) e la Reseda (Reseda luteola) contengono nei fiori o nelle parti verdi, sostanze coloranti gialle. La stessa tonalità può essere ottenuta utilizzando i fiori di Erba linaiola (Linaria vulgaris Miller), la corteccia o il legno di Gelso nero (Morus nigra), di Pero corvino (Amelanchier ovalis Medicus), di Salice bianco (Salix alba) di Pioppo nero (Populus nigra) oppure le radici di Crespino (Berberis vulgaris) o di Scotano (Cotinus coggygria). Tonalità che vanno dal giallo al verde si ottengono dalla radice di Ortica (Urtica dioica), dalle foglie di Centauro maggiore (Centaurium erythraea) o di Asaro (Asarum europaeum).
Tinture di colore scuro che vanno dal marrone al nero, si realizzano utilizzando la corteccia di Ontano comune (Alnus glutinosa), le radici, le foglie e il mallo di Noce (Juglans regia). Sconfinando nel mondo degli animali, una colorazione rossa si ottiene da alcune specie di insetti come le Cocciniglie (Emitteri appartenenti alla famiglia dei Coccidi); mentre di notevole importanza storica è la cosiddetta "porpora degli antichi": una tintura naturale di colore viola-rossastro (i primi a utilizzarla furono i Fenici) estratta da alcuni molluschi Gasteropodi, appartenenti ai generi Murex e Purpura. Tale colore era destinato ai tessuti indossati dalle più alte cariche politiche dell’antica Roma, in particolare dagli imperatori e dalle dignità cardinalizie.
I tessuti però devono essere lavati e conservati: ancora una volta incontriamo un universo di conoscenze e tecniche tutte al femminile, poiché queste mansioni erano appannaggio esclusivo delle donne. Scopriamo numerose piante ad azione detergente, riconducibile alla presenza di saponine naturali; ad esempio, per lavare lenzuoli, asciugamani e stoffe di vario genere s’impiegavano numerose piante, tra le quali la Saponaria (Saponaria officinalis), pestando e agitando nell’acqua le sue infiorescenze oppure utilizzando il decotto di foglie e radici, il comune Spinacio (Spinacia oleracea) o i frutti d’Ippocastano (Aesculus hippocastanum). Con le stesse finalità si poneva della comune cenere di legna a macerare nell’acqua per un’intera notte: prima di essere usata veniva filtrata con panni di lino e l’effetto pulente poteva essere potenziato aggiungendo frammenti di gusci d’uovo, scorze di limone e la cenere ricavata dalla combustione di piante secche di Fava (Vicia faba).
Un’azione detergente è attribuita anche alla radice di Gigaro (Arum italicum), alle foglie del comune Girasole (Helianthus annuus) o di Alloro (Laurus nobilis), mentre il decotto delle foglie di Edera è utile per ravvivare e fissare i colori. Un sapone di eccellente qualità, frutto dell’inventiva popolare, può essere realizzato facendo bollire scaglie di sapone di Marsiglia, foglie di Salvia, Alloro e scorze di Limone: si ottiene un liquido denso che tende a solidificare.
Una speciale considerazione era riservata al Tarassaco (Taraxacum officinale): il suo decotto, infatti, aggiunto all’acqua dell’ultimo risciacquo rende i tessuti morbidi e resistenti. Molte piante contengono principi attivi e sostanze aromatiche utili a profumare e preservare nel tempo le stoffe e i tessuti. Foglie, fiori e frutti, allo stato fresco, seccati interi o polverizzati, sotto forma di oli essenziali o estratti, emanano delle piacevoli fragranze e allo stesso si rivelano efficaci contro muffe, insetti e parassiti; a tale scopo si utilizzano numerose piante, tra cui Rosa, Lavanda, Gelsomino, Menta, Lillà, Rosmarino, Salvia, Basilico, Timo Origano, Issopo e Geranio.
Leggi e guarda dello stesso autore:
Ritorno alle radici