C'è oggi una congiuntura particolarmente fortunata, per il nostro paese. Un po' per la crisi che ha attraversato l'Europa, un po' per l'emergenza del terrorismo jihadista - che ha reso insicuri i paesi del nord-Africa, e che ha colpito anche in molti paesi europei - ma gli ultimi anni hanno ridato fiato alla filiera del turismo italiano, facendo registrare incrementi notevoli. L'Italia, del resto, è un paese ricchissimo di “offerta” - storica, artistico-culturale, paesaggistica, eno-gastronomica. Ma come affrontiamo, questa congiuntura favorevole? Con quale “strategia”?
Purtroppo, la risposta a queste domande è: male, nessuna. Tutto, nel modo in cui le varie istituzioni gestiscono il fenomeno, sembra rispondere alla vecchia logica di “affidarsi al mercato” - o comunque di affidargli i proventi... - e della “concentrazione”, in quanto per un verso offre maggiore visibilità al fenomeno stesso, e dall'altro favorisce un alto tasso di plus-valore. In ogni caso, con una scarsissima propensione a politiche di “stabilizzazione”, di “fidelizzazione”. Insomma, il buon vecchio "finché la barca va, lasciala andare"...
Ma, ovviamente, la congiuntura potrebbe modificarsi in senso sfavorevole, se non ne viene colta l'opportunità. Andrebbero quindi adottate, ad ogni livello, politiche capaci - per un verso - di creare continuità, di sviluppare prospettive di medio e lungo periodo, e non solo per i settori immediatamente connessi al turismo, e - per un altro - di “governare” il fenomeno, evitando che abbia un impatto eccessivamente concentrato (su alcuni centri storici, quindi su alcuni cittadini). E “governare” significa innanzi tutto capacità di immaginare il futuro, di costruire strategie e percorsi per costruirlo.
Per dirla con Bauman, "il potere è la capacità di fare, la politica è decidere che cosa fare." In Italia, oggi, va invece di gran moda mostrarsi capaci di “fare”, qualsiasi cosa ma “fare”, piuttosto che capaci di “pensare cosa”. Con ogni evidenza, abbiamo di fronte due criticità: i flussi turistici si concentrano su pochi luoghi, e sono sempre più "mordi e fuggi".
I centri storici di alcune città sono ormai quasi stabilmente invasi da frotte di turisti, che oltre ad impattare pesantemente sulla vita di chi li abita, stanno producendo fenomeni di “gentrification” esasperata e di bassa lega. La sostanziale deregulation in cui si svolge il fenomeno, fa sì che sorgano spontaneamente iniziative che cercano di trarne profitto, e così assistiamo alla crescita selvaggia (e spesso “nascosta”) di b&b, di take-away e di negozietti di paccottiglia più o meno “tipici”, che stanno via via espellendo i residenti (facendo salire la rendita degli immobili) nonché artigiani e piccolo commercio. Questo mentre, tra gli 8000 comuni italiani, sono tantissimi quelli di straordinaria bellezza e di interesse storico.
Delocalizzare i flussi turistici, distribuirli in maniera più uniforme, significherebbe alleggerire la pressione sui centri di maggior attrazione, far circolare maggiormente i benefici economici derivanti, prolungarne la permanenza. Certo, per fare ciò, occorrerebbe - appunto - quella capacità “di governo”: innanzitutto, sviluppando un’adeguata azione informativa (tutti conoscono Firenze, quanti conoscono Volterra o San Gimignano?), perché è di palmare evidenza che non si cerca ciò che non si conosce, e poi - per nulla meno importante - creando le necessarie infrastrutture logistiche (che vuol dire banda larga ovunque, e una rete di trasporti efficace e capillare).
Non ci vuole molto a capire che sarebbe una rivoluzione copernicana, nell'approccio - pubblico e privato - al turismo. Per dire, le ferrovie sono sempre più orientate a divenire una sorta di “metropolitana inter-regionale” (il claim di TrenItalia è "la metropolitana d'Italia"... ), sviluppando un sistema di trasporto sempre più basato sull'alta velocità lungo assi ad alto traffico (uguale massimizzazione del profitto), e lasciando il trasporto locale in un “purgatorio” legato peraltro ai contributi delle Regioni.
La mancanza di una opportuna informazione turistica, peraltro, non si riflette soltanto sulla scelta delle mete, ma anche sulla modalità di “fruizione” di queste. Prende sempre più piede - sia pure molto “fai da te” - un modello “sightseeing”, in cui ciò che si cerca è il “vedere”, accompagnato da un minimo di informazioni. Un consumo visivo, che è di per sé superficiale, e che appunto va a rafforzare la caratteristica “congiunturale”: se la mia esperienza è fuggevole, e non mi lascia qualcosa di più profondo, sarò più facilmente interessato a cercarne un'altra.
E qui andrebbe aperto il capitolo artistico-culturale. Al di là dei poli d'attrazione di fama internazionale, siano essi città (Venezia, Firenze, Roma... ), musei o siti archeologici (Colosseo, Pompei, Uffizi... ), che sono ormai dei “brand” consolidati, quanta comunicazione viene dispiegata per attrarre il turismo nei musei? Nel 2016, dice il Mibact che rispetto all'anno precedente i turisti provenienti dall'estero sono aumentati del 4% (oltre 60 milioni), ma altri dati dicono che invece l'aumento è del 9%, e quindi sorge il sospetto che, pur a fronte di un aumento degli ingressi in Italia (+ 5 milioni circa), l'aumento degli ingressi ai musei sia di meno della metà.
Del resto, spendiamo poco (e male). Continuiamo a farci i gargarismi con l'ormai acida storiella della "cultura petrolio dell'Italia" (peraltro concettualmente orrenda), ma poi a conti fatti sembriamo per nulla interessati a “profittarne”. Benché l'Italia abbia un patrimonio molto più vasto di quello degli altri paesi europei, e che quindi già solo di manutenzione e conservazione assorbe maggiori risorse, risultiamo al 22° posto in Europa per la spesa in cultura (spettacolo e turismo inclusi). Lo 0,37% del PIL, contro lo 0,75% della Francia o lo 0,67% della Spagna. Peggio di noi, solo Grecia e Romania.
Insomma, più che investire sul turismo, sembra che siamo “investiti” dai turisti. E restiamo incapaci persino di costruire qualcosa di durevole, su questa felice stagione. Perderemo anche questo “treno”? Se, tornando a Bauman, continueremo ad avere abbondanza di “potere” e penuria di “politica”, inevitabilmente sì. E allora, non ci resterà che attaccarci al Freccia Rossa...