La sartoria occupava un piccolo appartamento al primo piano di un condominio nuovo, di quelli che, all’improvviso, avevano cominciato a spuntare al di là delle mura antiche della città. Prima c’erano i campi, le case coloniche, le aie col trattore parcheggiato sotto la tettoia, e poi, di colpo, erano apparsi questi parallelepipedi, facili e alti come ragazzoni di buona famiglia cresciuti a vitamine. Due stanze, una sala prova, un bagno e una piccola cucina per fare il caffè alle clienti; i miei pochi ricordi d’infanzia sono chiusi là dentro.
Quel posto era pieno di oggetti unici: un baule profondissimo con ritagli dalle strane consistenze, inebrianti palline di naftalina, calamite giganti che attiravano tutto, dragheschi ferri da stiro, manichini nudi (androidi in fase di montaggio) o vestiti (spie nel mondo degli umani). Avevo fatto mia la seggiolina che usavano le lavoranti per appoggiare la gamba che sostiene l’abito nei lunghi sottopunti, e lì mi sistemavo per spiare quell’universo tagliato con le forbici e imbastito su misura per piccole rivalse di provincia. Dalla mia postazione le clienti sembravano tutte spavalde; si spogliavano senza esitazioni, restavano in mutande e reggiseno e si giravano su loro stesse per controllarsi dietro, come buttava dietro.
Mia madre riprendeva, svasava, pareggiava, srotolava il centimetro con la penna stretta in bocca, sorrideva alle pagine di Vogue, la sigaretta tra le dita. Anni Settanta, tessuti sfavillanti, striati, rettili, impalpabili, le sete, da Como, lo Studio 54 approdato anche nelle feste dei crudeli, asfittici circoli bene della città, tra le signore che andavano in crociera e ai balli di carnevale. La donne sposate erano signore; quelle giovani, le zitelle e le amanti clandestine, signorine. “Più corto, più stretto, più luccicante, più luccicante!”
Il luccicante mia mamma se lo portava anche a casa la sera. Quando entrava nella mia stanza da letto (denti, preghiere, leggere) perdeva sempre un po’ di luccicante dalla camicetta o dai capelli.