Marco, ragazzino “Down” di 13 anni, presenta notevoli difficoltà scolastiche, è sregolato, oppositivo, ma soprattutto manifesta comportamenti sessuali incontenibili ed eccessivi che espongono tutta la famiglia a umiliazioni brucianti e al dover restringere il campo della vita sociale in quanto invitati ad allontanamenti, quando per esempio a scuola o nei ristoranti si infiltra nei bagni riservati alle femmine e le infastidisce o quando al mare si nasconde nelle cabine per spiare donne nude o in autobus si lascia andare a toccamenti imbarazzanti creando scompiglio e lamentele.
I genitori sono molto preoccupati e si sentono impotenti rispetto alla pulsionalità dirompente del loro figlio che non sente ragioni ed è vittima della sessualità come se fosse un cavallo imbizzarrito che non tollera le redini. Quando incontro Marco mi appare come un ragazzino sveglio, mi squadra da capo a piedi dal di sopra degli occhiali e sedendosi vicino a me, con un’aria complice e con voce ansimante e roca mi dice: “Sai qual è il mio problema?” “Dimmelo tu” rispondo pacatamente e lui con tono misterioso continua: “Ho il pisello che fa scintille!!!” Questa è stata la secca, ma significativa presentazione che è rimbombata nello studio come una pallottola rovente, più esauriente di qualsiasi diagnosi, una sorta di carta d’identità e quasi un titolo dei sequel che sarebbero stati i nostri futuri discorsi. In effetti, hanno fatto seguito un’infinità di sedute con tante variazioni sul tema dove Marco ha continuato a parlare delle sue imprese sessuali con il relativo scotto delle inevitabili conseguenze, senza lasciarmi il minimo spazio per poter pensare assieme a cosa succedeva o tantomeno tentare di dare un senso ai suoi agiti, ma mettendomi immediatamente all’angolo con un imperioso: “Sta zitta! Non parlare!”.
Era davvero pesante stare con lui quando ogni minima manifestazione di realtà era automaticamente erotizzata, per cui anche i miei gesti, movimenti, espressioni del viso o il tono della voce venivano subito recepiti come comunicazioni seduttive, per cui mi immobilizzava in una staticità mortifera che mi risultava difficile da tollerare. L’apice l’abbiamo toccato quando una volta, uscendo dal bagno, si è presentato con pantaloni e mutande abbassate e, indicandomi il pene, mi aveva chiesto con aria subdola e provocatoria: “Ma che cos’è questo?”. Sbalordita e irritata, con voce ferma e intransigente l’ho invitato a rivestirsi e a non permettersi più comportamenti del genere perché non erano consentiti dalle regole.
A poco a poco nei nostri discorsi sono entrati altri argomenti, ha fatto anche capolino il film con Totò Fifa e arena che abbiamo visto parecchie volte e di cui Marco ripeteva a memoria le battute, ridevamo insieme o ci dispiacevamo insieme delle sventure di Totò e riflettevamo che è possibile sbagliare, fare figuracce, non essere capaci e poi riparare, risolvere e alla fine anche vincere. Marco, allora, poteva cominciare a parlare dei suoi insuccessi a scuola, delle difficoltà a capire e della vergogna se faceva figuracce.
Finché un giorno, nell’attraversare la solita anticamerina che conduce alla nostra “stanza”, Marco si è fermato davanti allo specchio che tutte le altre volte sembrava non aver notato, si è guardato a lungo, ha fatto delle boccacce, si è tirato l’esterno degli occhi con la punta delle dita per sottolinearne la forma orientaleggiante, ha schioccato la lingua e poi con voce grave e solenne ha detto “Io sono un Down!”. Si è riguardato e poi sempre attraverso lo specchio ha guardato me, aspettando una risposta, ma forse anche per vedere la mia reazione, se mi ero spaventata di fronte alla “mostruosità” della sua dichiarazione, se avevo provato disprezzo, ripugnanza, allontanamento, ma anche per avere conferma o meno della sua scoperta. Le sue parole, in realtà, sono risuonate come una bomba. Era come un proclama di verità, di una verità che forse pensava fosse sorprendente per me, come se prima di quello svelamento io non avessi potuto conoscere la sua “macchia”.
Profondamente sorpresa, ho sentito dapprima sgomento, poi una forte emozione di tenerezza e di simpatia, ma anche di struggimento identificandomi con il dolore che comportava il riconoscimento di un’identità così sofferente. Allo stesso tempo ho provato un piacevole stupore per lo straordinario lavoro psichico compiuto da Marco per arrivare a questa consapevolezza, e anche ammirazione per la sua capacità di specchiarsi davvero, per la forza di poter vedere e ammettere la sua diversità tollerando il dolore mentale dello svelamento, tra l’altro in un’età dove l’identificazione con l’ideale è così rilevante. Pensavo alla trasformazione avvenuta in lui, ma soprattutto sentivo una grande vicinanza emotiva e la disponibilità a offrirgli un grembo mentale protettivo, aperto ad accogliere con rispetto e cura la sua mente come se fosse appena nata dopo questo riconoscimento, una mente ancora fragile per sostenere un peso così grande, una mente che si stava cimentando nella difficilissima prova di affrontare il mondo con questa croce.
Riemersa, dopo alcuni secondi, da questa ridda di pensieri-lampo, mi sono sentita dire: “È vero che sei un Down, ma sei un Down bello!”, lo pensavo davvero e gli ho raccontato di quando qualche mese prima avevo visto per le strade di Milano e in metropolitana dei manifesti affissi col suo ritratto per pubblicizzare gli incontri per la “Settimana-Down”, di come mi avesse fatto piacere che avessero scelto proprio lui, che questo voleva dire che era un bel ragazzino e di essere fiera di lui e orgogliosa di conoscerlo. Sottovoce Marco ha ripetuto “orgogliosa” e sorridendo ha distolto gli occhi dai miei e si è riguardato, abbiamo contemplato a lungo le nostre immagini riflesse nello specchio. Vedevo il suo viso, le mani, il corpo segnati inequivocabilmente dal marchio della sindrome e, all’improvviso, mi si è accesa una lampadina: l’unica parte del suo corpo ad essere “normale”, riconoscibile e presentabile era proprio il suo famoso “pisello” e, con sollievo, ho finalmente colto un ulteriore motivo delle sue esibizioni e dei suoi comportamenti sessuali non addomesticati: soltanto i genitali potevano essere mostrati senza vergogna e senza il dolore di sentirsi diverso. Prima non l’avevo compreso così profondamente, prima forse il mio era un sapere che aveva bisogno di aggrapparsi alle teorie e quello che gli offrivo e che lui rifiutava con “stai zitta!” era come se fosse un cibo preconfezionato, non un alimento pensato solo per lui.
Ho provato una grande tenerezza, ho immaginato che avrei potuto appoggiargli una mano sulla spalla non avendo più paura di scatenare una tempesta sessuale, ormai al fantasma era stato tolto il lenzuolo, allo stesso tempo lui ha leggermente inclinato la testa verso di me come per affidarmi il peso dei suoi pensieri che adesso, cominciando a pensarli in due, diventavano meno pesanti. Ci siamo guardati, sempre tramite lo specchio, in silenzio, condividendo un momento così solenne, di grande intensità emotiva dove dolore e liberazione potevano trovare ospitalità, vivendo quella straordinaria esperienza di essere all’unisono: tranquillità, fiducia, affidamento conferivano all’atmosfera un senso di pace e di riposo. E, da quella nuova posizione emotiva, abbiamo continuato il nostro percorso … ”.
La sacralità di questo momento topico vissuto in modo particolarmente emozionante, a posteriori, richiama la “fase dello specchio”, locuzione con cui Lacan intende sottolineare quel momento particolare in cui l’infante riconoscendosi nell’immagine riflessa dello specchio, prova giubilo e allegria scoprendo per la prima volta di essere un’unità, si conosce per davvero e la sua mente inizia a strutturare il nucleo dell’Io. Ma ancora di più mi sono ritrovata nel pensiero di Winnicott, psicoanalista dell’area inglese, che sottolinea come il bambino non si guarda da solo nello specchio, ma necessita della presenza della madre che lo accompagni in questa esperienza dove la superficie riflettente rimanda l’immagine di entrambi, per cui sperimenta per la prima volta la diversità tra di loro, vede che sono separati, è una svolta importante nella sua vita, e questa rivelazione produce gioia, un piacere narcisistico esaltante, si riconosce come individuo, “io sono quello lì”, “io esisto” e la madre è lì con lui a incoraggiare e a sostenere questa scoperta in un clima emotivo di condivisione e festosità.
Ma Winnicott presuppone un’esperienza precedente in cui il bambino si vede riflesso dallo sguardo materno, precursore dello specchio. Il rispecchiamento è un meccanismo psichico fondamentale nel riconoscimento della propria identità, il lattante guardando estasiato il viso della madre, in realtà vede nei suoi occhi se stesso e questa scambio ineffabile è fondante il sentimento di sé. Essere madre, allora, significa anche saper accogliere e rimandare al bambino la sua immagine proprio come se fosse uno specchio e la qualità di questo feedback condizionerà la percezione che il piccolo avrà di sé: uno sguardo amorevole e appassionato farà sentire il bambino buono, bello e adeguato, uno sguardo stanco o irritato lo farà sentire brutto e cattivo, uno sguardo distratto lo farà sentire perso, disorientato, uno sguardo assente, depresso, opaco, lo farà sentire non esistente, spaventato e potrà essere obbligato a indossare come difesa un’armatura psichica che segnerà con la sua rigidità il suo sviluppo mentale.
I miti, le fiabe, l’arte hanno sempre intuito l’importanza dell’esperienza del rispecchiamento precedendo, come al solito, il pensiero scientifico. Da Biancaneve al mito di Narciso, dalla Regina delle Nevi ad Alice attraverso lo specchio, lo specchiarsi assume un ruolo fondamentale nel dipanarsi della storia, lo specchio, infatti, può diventare fonte di invidie e odi furenti o può condurre alla scoperta di sé, condizionandone così l’esito finale. Non da ultimo, l’iconografia religiosa raffigura molte Madonne col Bambino legati da uno sguardo che li rende un tutt’uno, in una “conjuctio mistica” che incanta per la sua potenza evocatrice, dove l’amorosa coppia raffigura l’importanza straordinaria del ruolo del rispecchiamento nella costituzione dell’identità dell’individuo.