Una notte di ordinaria sofferenza umana, di riflessione sulla fragilità, fisica e emotiva. Vite frenetiche, di corsa, impegnate tra lavoro, figli, vita. Quella vita che sembra a volte eterna e intaccabile ma poi ti ritrovi a far conto con il tuo essere effimero, la tua terminabilità. Il dolore mette l'individuo di fronte alla sua fisicità limitata e non appena manda chiari segnali di pericolo lo rende così indifeso, umile, arrendevole. Mette la sua vita nelle mani di uno sconosciuto purché lo salvi. Si fa iniettare qualsiasi cosa (cit. infermiera killer), guarda con occhi supplichevoli, si annulla.
Cadono così i muri della dignità umana, uno insieme a tanti a lamentarsi, a chiedere aiuto, a sporcarsi dei propri liquidi, così come se ormai non contasse più niente, come anime di un girone dantesco afflitte dal medesimo dramma, la pena. Così in una notte, passata a osservare il significato, l'essenza dell'essere umano, in attesa che un tuo caro venga preso in osservazione, che tu con agitazione accompagni e vorresti inserito per non si sa quale presupposto in una corsia preferenziale di prontissimo soccorso, questa attesa si rende occasione di riflessione.
Ed ecco che tra individui silenziosi che sopportano con stoicismo la situazione, altri brandiscono il pugno in alto folli di una situazione disumana che chiede urgente attenzione sugli altri. Qualcuno ha perso per la demenza dell'età la consapevolezza delle cose e sdraiato su di una barella prende e osserva e poi cerca di capire cosa sia quella sacca di urina che un catetere gli porta via dalla vescica. La tocca, la esamina con l'occhio sbarrato, fino a spaccarla per la rabbia e a rovesciarne litri di contenuto giallo per terra. La puzza ti prende la gola, ma devi rimanere lì, ti giri dall'altra parte e vedi una giovane donna che tiene un sacchetto della spesa in mano, è mezzo pieno, ma è il suo vomito. Ha ingoiato un pezzo di carne nella sua tranquilla cena da immortale e questo è scivolato in trachea, è riuscita ed espellerlo non si sa come ma parte la sta ancora affogando. Tossisce di continuo, rantolando e vomita in continuazione.
Poi, dopo 4 ore di lager tocca a noi, vorresti far finta che tutto sia passato per dire al medico di poter tornare a casa ma non è così, il rilascio non è immediato anche se l'allarme è cessato e dettato più dalla paura che dalla malattia. Visite e esami e di nuovo attesa per il referto e alla fine il desiderato rilascio. Vedi persone entrate come moribonde che escono da quel portone sul mondo, sorridenti e con le loro gambe, erano i paurosi; poi vedi altri che non escono da quel portone ma dalla shock room e partono su carrelli per i reparti di ricovero, erano i veri malati. Poi vedi due angeli, sì, due infermiere amiche, e ti senti meglio, tracce di umanità si svegliano, allentano le tensioni, non sei più solo con la sofferenza dell'umanità ma ti accorgi di aver trovato un salvagente a cui aggrapparti in quel mare di relitti, è tanto in quei momenti e le ore trascorrono meglio.
Finalmente torni a casa, miracolato, scampato da quel non luogo avulso dal movimento quotidiano della vita, senza finestre, una scatola artificiale con luci abbaglianti di un bianco allucinante, puzzo, dolore, lamenti, paura. Capisci che sei un soffio d'aria nell'atmosfera terrestre. Capisci che dallo stare bene allo stare male può essere un attimo, capisci che il dolore è in agguato e prima o poi ti colpisce. Capisci che godere di ogni istante è una capacità da coltivare. Capisci che devi vivere e prendere tutto il bello che c'è, perché il brutto è lì che aspetta. Basta una notte al pronto soccorso per rendersene conto.