Il signor Bill Miller era un tipo tranquillo, come tutti i personaggi di quel libro, compresa sua moglie, Arlene. Lui era un ingegnere, lei una segretaria. Trascorrevano una vita serena, forse un po' banale, una vita senza colpi di scena. Abitavano in un piccolo paese, non meglio identificato, dell’America degli anni Settanta. Più precisamente erano nati dalla penna di Raymond Carver. Abitavano una delle sue storie.
I vicini di casa dei Miller, gli Stone, avevano chiesto loro se potevano badare alle piante e alla gatta, in loro assenza. Partivano per l’ennesimo viaggio. Gli Stone, con quella loro intensa vita sociale, con i loro viaggi in giro per il mondo, con quella casa bella e inaccessibile. Così, con il pretesto del gatto e delle piante, i Miller avevano finito per violare l’intimità di quella casa. Erano entrati nella vita degli Stone. Il signor Miller aveva provato gli abiti della signora Stone, aveva bevuto il Chivas Regal del signor Jim, aveva preso le sue medicine.
Così, per i Miller, l’autore aveva ideato un finale grottesco: avevano finito per dimenticare le chiavi nella toppa esterna della porta di ingresso di casa Stone, rimanendo chiusi in quella casa, prigionieri di una vita che non era la loro. Vittime della loro stessa stupida curiosità. Un finale alla Carver insomma: le debolezze dell’animo umano, protagoniste di un racconto senza un vero finale.
Di certo il signor Miller non invidiava affatto gli altri personaggi delle storie di Carver. La cameriera del secondo racconto (Grasso) per esempio, impiegava undici pagine a deridere un cliente grassone, che si ingozzava di cibo, senza accorgersi che la sua vita non era meno squallida di quell’insulso ingurgitare; o il povero Huges (il protagonista del racconto Menudo) che nel gesto finale di spazzare le foglie del giardino dei vicini trova l’unico rifugio dai fantasmi di un matrimonio infelice; o ancora la protagonista del racconto Scatole, che trascorreva la sua vita a preparar valigie e a organizzare traslochi, alla ricerca di un inesistente luogo in cui poter essere felice.
L’umanità di Carver somigliava a una costellazione di finestre accese nella notte. Storie senza eroi, senza una morale salvifica, senza un vero finale. Piccoli racconti di piccoli uomini, soffocati dall’asfissia della loro stessa banalità. Ma il signor Miller era stanco di vivere nel carcere delle solite dieci pagine del suo racconto. Sarebbe voluto nascere in un romanzo di Hemingway, magari quello sull’ultimo scaffale a destra della libreria. La copertina in pelle prometteva una vita da eroi. Oppure sarebbe potuto entrare in quel quadro di Hopper - Nighthawks: quello poggiato sulla parete di fronte alla libreria. Il fascino della notte, nel dipinto, avvolgeva di mistero la vita di quattro naufraghi notturni, nell’ultimo bar ancora aperto. A New York. Sullo sfondo di una periferia immersa nella notte, nella penombra di un locale ancora aperto, si intravedeva, forse, l’oasi di un vero racconto. La certezza di un finale. Tre avventori e un cameriere, su quella tela, si contendevano la promessa di un’autentica trama. Un uomo, seduto di spalle, con il cappello a tesa larga che gli nascondeva il volto e chissà quale passato. Solo, in compagnia del suo bicchiere. Un altro uomo, poggiato al bancone, sembrava sfiorare con il braccio la mano di una bellissima donna dai capelli rossi, seduta accanto a lui, davanti allo stesso bancone. Un barman si affannava a servire l’ennesimo scotch whisky, quasi a voler ricaricare il filo della narrazione. Quattro storie, tutte da raccontare, nell’ultimo squarcio di quella notte newyorkese.
Il signor Miller amava la vita notturna, con i suoi bar aperti fino all’alba, in cui la vita finalmente prendeva forma. I nottambuli di quella tela di Hopper erano esattamente come lui avrebbe voluto essere: un tipo alla Humphrey Bogart, che vive al riparo dagli sbadigli del giorno, lontano dalle luci della banalità quotidiana. Dentro quella tela gli sembrò di scorgere, forse, il bandolo di una vera trama, la promessa di un vero finale.
Il signor Miller cominciò a desiderare di essere uno dei personaggi di quella tela. Anche lui voleva essere seduto al bancone di quel bar notturno, accanto a quella donna; anche lui voleva ordinare il suo scotch whisky. Così fu un gioco per lui, abituato a intrufolarsi nella vita degli altri, entrare in quella tela, sedersi in quel bar. Dalle pagine del libro di Carver, con un balzo, il signor Miller si trovò dentro il dipinto. Nessuno sembrò accorgersi di lui.
La prima cosa che notò furono i colori, più scuri di come li aveva percepiti dall’esterno. Colori familiari. La seconda fu il silenzio: unico vero regista della scena. Si avvicinò al bancone e l’uomo con il cappello si girò lentamente nella sua direzione, senza dar cenno di averlo visto. Non parlava, c’era qualcosa di assente nel suo sguardo. L’altro uomo continuava a fumare la sua sigaretta, col fare lento di chi ha trovato in quel vizio un rimedio ai silenzi.
Il sig. Miller andò a sedersi proprio accanto alla donna dai capelli rossi e ordinò il suo scotch whisky. Poi le chiese se poteva offrirle qualcosa. Non ne ebbe risposta. La guardò meglio: mani piccole, un collo aggraziato, qualcosa di indefinito negli occhi, qualcosa di familiare, che c’entrava con la guerra, ma anche con la resa. Le sue labbra si muovevano senza emettere un suono: come quelle di una bambola rotta. Anche il barista aveva uno sguardo assente. Si muoveva lento, al ritmo di quel silenzio sempre più insopportabile.
Il signor Miller cominciò a sentirsi a disagio, perso in quell’arcipelago di solitudini. Il silenzio della tela aveva, forse, colori più crudeli della quotidianità raccontata da Carver. Chissà cosa sarebbe successo, pensò il signor Miller, se Carver e Hopper si fossero incontrati. Magari proprio in quel bar, davanti a uno scotch whisky. Carver, il padre del minimalismo narrativo che incontra Hopper, il poeta, su tela, della solitudine.
Il signor Miller, per la prima volta, cominciò a rimpiangere la banalità della sua vita, sua moglie, la sua casa, persino i suoi odiati vicini. Pensò che, in fondo, la fragilità umana merita di essere raccontata. Pensò alle dieci pagine del suo racconto. Pensò ai mille finali possibili, nell’abbraccio tiepido della quotidianità.