In The light between oceans abbiamo un cast eccezionale, Michael Fassbender e Alicia Vikander, umanamente simpatici perché belli, bravi e schivi, e una natura bellissima e selvaggia, dove troneggia un faro racchiuso fra due oceani, una storia che si svolge tra un passato tormentato dalle distruzioni della Prima guerra mondiale e un futuro che i due personaggi, Tom e Isabel, sperano di costruire insieme. È cosparsa di eventi dolorosi, ma è anche un incontro felice fra un uomo e una donna che sanno capirsi, al di là delle differenze, e si amano.
La trama è tratta da un romanzo, La luce sugli oceani, di M.L. Stedman, del 2012, che ha avuto un certo successo. Se vi aggiungiamo il dramma della maternità mancata, gli effetti della guerra e della pace, i piaceri della relazione di questa coppia, l’ambientazione in luoghi strabilianti, ai remoti confini dell'Australia occidentale, dove Tom svolge il lavoro di guardiano del faro, è facile immaginare un successo commerciale, considerando che, alla fine di un crescendo di colpi di scena, c’è persino da piangere. Ma è un film che non convince. Il regista Derek Cianfrance ne fa un melodramma che ci parla di problemi in larga parte già superati, come la vergogna femminile di non riuscire a procreare, il rifiuto di farsi vedere da un medico dopo un primo aborto, quasi che l’atto di generare un figlio fosse imperscrutabile. C’è pure una neonata che arriva al faro su una barca, e viene cresciuta da Isabel, e più tardi le verrà strappata, per consegnarla alla madre vera, come fosse un oggetto, senza la minima mediazione, episodio anche questo non credibile dato il buon livello sociale delle famiglie che si contendono la bambina. Se ammettiamo che ci siano testimonianze storiche di tali comportamenti, a che scopo metterli in scena con un grande dispendio di denaro, dichiarandone falsamente l’attualità?
Ben diversa la ricostruzione storica, ambientata al termine della Prima guerra mondiale, che ci propone il regista francese François Ozon col film Frantz, girato in un perfetto bianco e nero, che lui sceglie come “colore della guerra”. Il racconto è semplice: in una cittadina tedesca, Anna, promessa sposa di un soldato perito al fronte per mano dei Francesi, si reca a portare fiori sulla tomba del fidanzato, in un rito quotidiano con cui cerca di lenire la perdita. E lì scopre un misterioso giovane francese che porta anche lui fiori ogni giorno. L’enigma verrà risolto, non senza grandi turbamenti, ma insieme anche con l’elaborazione della possibilità di superare, a livello personale, le ostilità creata dalla guerra. Il regista ha scelto questo racconto anche per scandagliare quello che provano i Tedeschi, che dopo la sconfitta furono umiliati dal Trattato di Versailles, e per mostrare quanto la Germania di quel tempo fosse terreno fertile per la diffusione del nazionalismo, usando nei dialoghi entrambe le lingue, la francese e la tedesca, per rendere più concreto questo ampliamento della visuale storica. Non perde, inoltre, l’occasione per descrivere come le guerre possano trasformare una persona sensibile e umana in assassino, per la pura sopravvivenza. Un film, insomma che rielabora con grande qualità stilistica, problemi sempre attuali di cui fornisce una chiave di lettura originale, orientata a una loro soluzione.