Le celebrazioni del trentennale della maison Dolce & Gabbana a Napoli hanno innescato l'ormai consueto dibattito, con l'altrettanto consueto corollario degli schieramenti pregiudiziali, che inevitabilmente schiacciano (e scacciano dal dibattito pubblico) le argomentazioni più razionali e non di parte. Pure, non è affatto privo di senso provare ad articolare una qualche forma di ragionamento, che cerchi per quanto possibile di astrarsi dallo specifico contingente, per puntare piuttosto su un suo inquadramento generale. Per fare ciò, è comunque forse opportuna una riflessione - quanto meno sommaria - sulle specificità dell'evento, poiché può fornire elementi utili a quella di più ampio respiro.
Premesso che l'uso di pezzi di città per eventi privati (non più luoghi chiusi e circoscritti, ma letteralmente parti del tessuto urbano) è ormai consuetudine crescente (si pensi alla privatizzazione di Ponte Vecchio a Firenze per la Ferrari, le sfilate di moda sulla scalinata di Piazza di Spagna e, più di recente, sulla Fontana di Trevi, l’uso privato del Colosseo da parte dello sponsor del restauro, la pretesa dell’uso esclusivo persino dell’immagine del bene pubblico, come nel caso Fendi/Colosseo Quadrato all’EUR, ecc.); un fenomeno, questo, conseguenza anche del significativo spostamento di capitali dal pubblico al privato, e che non costituisce più una novità, nello specifico napoletano esso ha assunto alcune caratteristiche degne di essere sottolineate.
La più rilevante, in assoluto, è il livello di privatizzazione dello spazio pubblico. Per estensione, durata, e qualità dell'esclusione, questo è stato sicuramente fuori misura. Ma anche, il senso dell'operazione D&G, che è stato - legittimamente - di valorizzazione del proprio brand, ma che si è ottenuto attraverso un uso comunicativo della città che l'ha ridotta al suo più becero stereotipo: la città stracciona (e in quanto tale ricca di suggestioni), che fa da palcoscenico per la messa in scena celebrativa del brand - della sua raffinatezza... Quel che veniva ricercato, e che è stato trovato, era l'effetto contrasto.
Questo modello d'uso dello spazio pubblico, quindi, non solo lo privatizza, ma lo costringe anche a interpretare un ruolo subalterno, che esclude il protagonismo e lo ingabbia nella rappresentazione macchiettistica dell'identità. In questo senso, l'esclusione persino dei residenti, dalla zona rossa, è strutturalmente connessa con l'esclusione di tutto ciò che non corrisponde all'immagine stereotipata della città, e sono reciprocamente funzionali.
Il fatto che poi, grazie al marketing del brand, questo si traduca in una visibilità internazionale della città, e che questo abbia una ricaduta positiva sui flussi turistici, rischia paradossalmente di innescare un circolo vizioso, in cui lo stereotipo - in quanto funzionale al profitto - si autoalimenta all’infinito, producendo però (alla fine) lo snaturamento culturale ed economico del tessuto urbano. Ed è un modello d'uso che, nel vuoto di politiche culturali che caratterizza numerose amministrazioni locali, rischia di dilagare come un blob sul cuore delle città.
Nella sua essenza, la questione riguarda i destini della polis - o, se si vuole, la direzione in cui procederà verso il futuro. E non una questione in cui le parti in commedia siano nettamente distinte, perché la città stereotipata è quella su cui vive una parte della cittadinanza, e lo sviluppo disordinato appare a tanti come una opportunità. Si tratta quindi di aprire una riflessione sul come governare questo trend.
L'idea di sviluppo basata sul turbo-turismo, come insegna l'esperienza di Barcellona, non è soltanto rose e fiori. E soprattutto, quando si lascia al mercato il compito di determinare le modifiche che intervengono sulla città (sul suo assetto sociale, economico, infine urbanistico e culturale), il risultato non può che essere la socializzazione dei disagi e la privatizzazione dei profitti. Il pericolo non è tanto quello di una gentrification, quanto - all'opposto - la cristallizzazione presepiale, la trasformazione (ad es.) del centro storico napoletano in una Disneyland scugnizza, che perpetui all'infinito lo stereotipo sino al punto di svuotarlo del tutto di ogni aggancio con la realtà (che pure ancora sussiste), trasformandolo definitivamente nella sua mera rappresentazione.
Nello specifico napoletano (ma non solo), l'impatto del turismo sul centro storico sta marcando, negli ultimi anni, un'impennata (aumento dei B&B, dilagare di pizzerie e fast-food più o meno tipici lungo le vie di maggior densità turistica); ma l'avvio di un processo di espulsione dei ceti popolari dal centro antico è assai improbabile, per la semplice ragione che proprio essi costituiscono l'humus dell'icona napoletana pizza & mandolino. Si tratta quindi, semmai, di un processo che punta a privarli di autenticità, rendendoli maschere di se stessi.
Per operare dunque un rovesciamento dello schema, particolarmente invasivo nel caso di città di dimensioni ridotte ma ad alta concentrazione artistico-culturale (Firenze e Venezia, su tutte), è necessario partire dalla definizione di una nuova identità, più consapevole e non più subalterna: avviare processi di trasformazione sociale, capaci di produrre mutamenti reali e profondi. Un'azione essenzialmente culturale (e che, in quanto tale, sia altamente politica nei fini e nel significato), che offra l'opportunità di una presa di coscienza collettiva, il riconoscimento di una identità non più prigioniera dello stereotipo tradizionale, ma pienamente matura, moderna, consapevole. E in quanto tale, non meno ricca e suggestiva di quella precedente.
Su questa identità andrà poi costruita una nuova narrazione della città, capace di raccontarne la bellezza antica e quella moderna, tenendo insieme ogni aspetto (culturale, artistico, sociale, politico) della sua trasformazione. Perché il prossimo brand che la sceglierà come location, lo faccia per riceverne luce, non per usarla come oscuro background. E soprattutto, se festa sia, che sia per tutti.