Docente di Storia dell’Arte all’Accademia di Belle Arti di Brera, è studiosa e critica d’arte, in particolare del periodo fra le due guerre e del rapporto tra modernità e classicità. Ha pubblicato i principali testi teorici di artisti, da Cézanne a Pollock, e collabora a quotidiani e periodici nazionali. Ha vinto il premio “San Valentino d’oro” per la storia dell’arte e il premio “Carducci” per Modernità e Classicità. Il ritorno all’ordine in Europa dal dopoguerra agli anni Trenta.
Cosa si sente di raccontarci di sé?
Ho sessantun anni e da quaranta mi occupo della storia dell’arte del Novecento, che è l’aspetto meno atroce della storia senza aggettivi. Il mestiere di storico dell’arte è uno di quei lavori in cui conta molto l’incontro fortuito. Non bastano la preparazione o il talento, occorre anche una certa dose di fortuna o, meglio, di opportunità esterne. Che oggi in Italia mancano quasi completamente. Io ho cominciato scrivendo recensioni per giornali e riviste. Allora, parlo dei primi anni Ottanta, non era così difficile. Sono palestre significative perché impari a informarti, a conoscere di persona gli artisti, ma anche a scrivere in modo semplice.
Lei infatti ha parlato dell’italica diffidenza atavica del parlar chiaro, anche la critica d’arte ne è affetta?
Per scrivere di critica o di storia dell’arte bisognerebbe anche imparare a scrivere, ma non sembra che molti se ne preoccupino. Intendiamoci, uno storico o un critico (tranne qualche eccezione) non sono scrittori e nemmeno artisti, sono solo artigiani. Scrivere una pagina di critica, in questo senso, è come fabbricare una sedia comune. Nessuno ti chiede di essere Horta o Le Corbusier, ma anche se fabbrichi una sedia qualsiasi devi preoccuparti che sia solida, non malferma. Oggi invece c’è molta sciatteria. È un errore perché, come ha detto uno scrittore a me molto caro “ogni parola è un mondo e non ci si possono permettere distrazioni”.
Pensando alla donna di oggi: possiamo parlare di emancipazione, di integrazione?
Ricordo che quando ero agli inizi, poteva essere il 1983-84, un gallerista mi ha detto: “Non ho niente in contrario che a occuparsi di questo artista sia una donna”. E in questo modo dimostrava che erano ancora vivi molti pregiudizi. Nessuno avrebbe detto: “Non ho niente in contrario che a occuparsi di questo artista sia un uomo”. Oggi comunque le cose sono cambiate. Il sistema dell’arte è folto di donne (critiche, storiche, direttrici di museo, galleriste e, in misura minore, artiste). E se, come diceva Hume, la guida della vita non è la ragione ma l’abitudine, il mondo dell’arte si è “abituato” alla presenza delle donne. Oggi i pregiudizi sono quasi inesistenti, almeno nei giovani. Io non credo, in generale, nel progresso come lo intendevano i positivisti, ma un tempo nelle accademie era vietato l’ingresso alle donne, mentre oggi a Brera il 91% (novantuno!) degli iscritti sono ragazze. Questo, si intende, non è solo un buon segno, significa anche che intorno alle accademie ruotano meno potere e meno soldi, ma certo è un enorme passo avanti rispetto al passato. Nei primi anni Quaranta chi fosse entrato nell’aula di Carrà a Brera avrebbe visto appeso alle pareti (esistono fotografie dell’epoca) un foglio che riportava le parole del maestro: “Le donne non sono adatte all’arte, perché non sanno sopportare le privazioni e i sacrifici che l’arte richiede, per esempio la fame”. Dunque una condanna definitiva, ontologica, metafisica: non questa o quella donna, ma tutto il genere femminile era escluso dal regno dell’espressione artistica. E Carrà non era solo un pittore, era un teorico, un critico, uno degli artisti più colti della sua generazione. La mentalità era quella.
Donna e/è potere. Cosa ne pensa?
Mi sembra che in molte donne (penso a me stessa, alle tante studiose con cui ho lavorato, ma non credo che siamo un caso isolato) non ci sia una sufficiente preoccupazione per il potere. Il potere è qualcosa che storicamente non ci è mai appartenuto, a cui non pensiamo. La nostra è una forma di idealismo, che naturalmente si sconta caro, come ogni idealismo. Perché poi la realtà si vendica e ti emargina.
Stereotipo e realtà della donna milanese.
Si dice che i milanesi, uomini e donne, amino fin troppo il loro lavoro. Confermo.
Come rappresenterebbe il rapporto donna-uomo contemporaneo: confronto o scontro?
Scontro assolutamente no. Direi confronto, a patto che nessuno si senta autorizzato a stabilire che cosa è “femminile” (o “maschile”). Quando mi sono iscritta alla Statale, nel 1973, un funzionario dell’università, incaricato dei colloqui orientativi con gli studenti, mi aveva sconsigliato di intraprendere studi di Medicina (volevo diventare psicologa), perché diceva che erano poco adatti a una donna: “Sai, un medico lo possono chiamare anche di notte e tuo marito si spazientirebbe”. Ed eravamo a Milano negli anni Settanta, non tra i talebani… Oggi, comunque, la maggioranza degli iscritti a Medicina sono donne.
Nel suo lavoro si è occupata spesso di classicità moderna. Avanguardia e tradizione sono termini contrapposti?
Certo, se si leggono i manifesti delle avanguardie sembra che il Ventesimo secolo si apra con una dichiarazione di guerra contro la tradizione artistica e che tutta l’Europa risuoni di proclami di indipendenza nei confronti dei secoli antichi. Non è così. Parafrasando l’aforisma di Baudelaire (“La modernità è solo una metà dell’arte. L’altra è la sua eternità”), si può dire che la polemica col passato sia solo una metà del moderno. L’interesse per i grandi maestri di ogni epoca e il dialogo con la storia dell’arte non sono mai completamente soffocati. Affiorano anzi, in forme diverse, agli inizi del secolo; serpeggiano, nonostante le grida contrarie, durante l’età stessa delle avanguardie; e si affermano dopo, negli anni fra le due guerre: in quel periodo maldestramente definito “Ritorno all’ordine”, che non va considerato una reazione (o, peggio, un’involuzione) rispetto ai movimenti d’avanguardia, ma un aspetto della modernità. Tradizione e innovazione sono componenti ugualmente insopprimibili della conoscenza. È un errore soffocare la seconda in nome della prima, ma anche dimenticare l’una in favore dell’altra. Sembra insegnarlo anche l’etimologia, secondo cui “inventare” (da invenio) rimanda a “rinvenire, ritrovare”.
All’arte “milanese” ha dedicato buona parte dei suoi studi, facendo scoprire anche autori, come Breveglieri, che hanno tratteggiato una Milano da sogno. Tra gli altri artisti che hanno ritratto Milano chi citerebbe?
Nella prima metà del Novecento ne citerei quattro. Il primo è Boccioni, che all’inizio degli anni Dieci ha dipinto una Milano veloce che va verso il futuro. Il secondo è Sironi, che all’inizio degli anni Venti ha dipinto un paesaggio urbano immobile, dolorosamente grandioso. Il terzo è Birolli, che all’inizio degli anni Trenta ha dipinto una città del colore, con i taxi rossi e le strade azzurre. Il quarto è appunto Breveglieri, che dà vita a una città stupefatta, insieme dimessa e incantata: una città non a misura d'uomo ma di bambino.
L’occhio femminile, la critica e la storia dell’arte.
La capacità analitica e la concretezza, che in genere si attribuiscono alle donne, sono ottime doti per un critico.
Come giudica la sempre più ampia “offerta” di mostre: un’opportuna occasione di divulgazione o una confusiva e interessata opportunità editoriale e di mercato?
Le mostre si visitano molto più dei musei, anche perché non durano per sempre, mentre i musei si ha sempre l’impressione che siano lì ad aspettarti, e che ci si possa andare il giorno dopo. Purtroppo, ultimamente le mostre sono sempre più spesso richiami per le allodole: grandi nomi, ma piccole opere. Sono mostre di intrattenimento, non di ricerca. Il nostro provincialismo, poi, ci spinge a realizzare mostre solo di artisti stranieri, dimenticando di far conoscere i nostri, soprattutto la grande stagione del nostro Novecento. Non si tratta di autarchia, ma se non ce ne occupiamo noi, chi dovrebbe farlo? Certo, il pubblico accorre maggiormente a una mostra di Monet che a una, poniamo, di Arturo Martini. Ma anche perché non abbiamo fatto molto per far conoscere Martini.
Insegna in una delle scuole più prestigiose di Milano, l’Accademia di Brera: ci può sintetizzare le sue finalità e il posto che ha occupato e occupa questa istituzione nella cultura ambrosiana?
Brera è stata in Italia l’accademia per eccellenza e ancora adesso è una delle migliori d’Europa. Oggi però ci sono molti problemi. Accademia significa giardino. Deriva dal greco Akadémeia, il giardino di Academo, poco distante da Atene, dove fu fondata la scuola filosofica di Platone. Brera, invece, come rivela meglio l’aggettivo “braidense”, ha a che fare con “brado”. È una parola longobarda che significa pianura incolta. Può esserci un giardino allo stato brado, un giardino incolto? Personalmente tutte le volte che parlo d’arte con i miei studenti, dopo più di trent’anni che insegno in accademia, mi sembra ancora di stare in un giardino. Ma altre volte, soprattutto quando li congedo al termine degli studi e li lascio alle soglie di un mondo del lavoro sempre più precario e incerto, mi sembra che quel giardino si tramuti, come per un sortilegio, nel suo contrario.
Quale itinerario sceglierebbe per far scoprire una Milano insolita e fuori dal turismo tradizionale?
Muoverei dalle grandi opere di Sironi: il grande mosaico dell’Italia Corporativa a Palazzo della Stampa, il rilievo del balcone sulla facciata dello stesso palazzo, L’Annunciazione a Niguarda, i Paesaggi urbani nei musei (non nella realtà, perché le periferie di Sironi non si trovano per le strade: non sono un’immagine di Milano, ma un’immagine della vita).