Muhammad Ali, nato Classius Clay, ex campione del mondo dei pesi massimi e oro olimpico alle Olimpiadi di Roma '60 è deceduto nella notte tra il 3 e il 4 giugno all'età di 74 anni in un ospedale di Phoenix, in Arizona, dove era stato ricoverato per "precauzione". Le sue condizioni non erano state giudicate gravi, ma data l'età e il morbo di Parkinson, di cui "Il più grande" era malato da trent'anni, i medici avevano scelto la strada della prudenza.
Figura carismatica, controversa e stravagante, sia dentro che fuori dal ring di pugilato, Muhammad Ali, al secolo Cassius Marcellus Clay Jr, è stato tra gli sportivi più conosciuti di tutti i tempi, e non solo per essere stato nominato "sportivo del secolo" da Sports Illustrated e "personalità sportiva del secolo" dalla BBC. È l'unico peso massimo ad essere stato campione in tre occasioni successive, e a distanza di tempo l’una dall’altra: nel 1964, nel 1974 e infine nel 1978. Per ben cinque volte è stato riconosciuto "pugile dell'anno", assegnato da The Ring, avendo vinto tale premio nel 1963, nel 1972, nel 1974, nel 1975 e nel 1978.
Ali aveva cominciato ad allenarsi all'età di 12 anni, sollecitato in questo da un poliziotto che gli indicò anche una palestra dove imparare a fare a pugni. La leggenda – o forse la cronaca - vuole infatti che il giovane Cassius, furibondo perché qualcuno gli aveva rubato la bicicletta, sia stato indirizzato alla boxe da un poliziotto di Louisville, dove Cassius era nato nel 1942, tale Joe E. Martin, che lo incontrò mentre, dodicenne, inveiva contro chi gli aveva rubato la bicicletta, promettendo allo sconosciuto "una bella strapazzata". Il poliziotto gli consigliò di imparare prima a boxare e lo portò alla palestra Columbia, dove Cassius iniziò a mettere in mostra il suo talento. Vinse l'oro olimpico nel pugilato, categoria mediomassimi, ai Giochi di Roma nel 1960 e nel 1964, all'età di 22 anni, conquistò il titolo mondiale dei pesi massimi sconfiggendo a sorpresa Sonny Liston, temuto e potente campione in carica.
Successivamente si unì al movimento afroamericano Nation of Islam e cambiò legalmente il suo nome, diventando come si sa Muhammad Ali. Nel 1967, tre anni dopo la conquista del campionato mondiale, Ali si rifiutò di combattere in Vietnam per via della sua religione e della sua opposizione al conflitto. Per questo, arrestato e accusato di renitenza alla leva, fu privato del titolo iridato e non combattè per i successivi quattro anni.
Soprannominato "The Greatest" (Il migliore), Ali è stato protagonista di alcuni dei più importanti e famosi eventi del mondo pugilistico: tra questi, la prima controversa sfida contro Sonny Liston, i tre combattutissimi match con l'irriducibile rivale Joe Frazier, e il cosiddetto "Rumble in the Jungle", il drammatico incontro nel 1974 in Zaire contro il campione in carica George Foreman, dove riconquistò i titoli persi sette anni prima. Trasformò profondamente il ruolo e l'immagine dell'atleta afroamericano negli Stati Uniti, diventando punto di riferimento di Black Power, Potere Nero, che ebbe poi un’altra storica esibizione alla premiazione dei velocisti statunitensi alle Olimpiadi di Città del Messico.
Nel 1984 gli fu diagnosticata la sindrome di Parkinson, che lo portò a un graduale declino fisico nel corso dei decenni successivi. La malattia non gli vietò di essere protagonista, quale ultimo tedoforo, all’Olimpiade di Atlanta, nel 1996. Nell’occasione, ebbi a scrivere un articolo per un quotidiano in cui criticai l’iniziativa, non ritenendo che l’apparizione del glorioso campione, fiaccato nel fisico, fosse un fiore all’occhiello della manifestazione.
In attesa dei protagonisti – scrivevo - "al proscenio sale l’Uomo, con le sue debolezze, le sue défaillances, i suoi errori: e i Giochi - anche i tanto celebrati Giochi della perfezione tecnologica - esordiscono esibendo tutta la loro umana fragilità, blackout compresi (…). Sale al proscenio anche Muhammad Ali, il Cassius Clay dell’oro olimpico e della prima parte della sua folgorante carriera. Vi sale anche lui, come gli altri, senza una sua dichiarata specifica volontà. E su quella apparizione si innestano commenti e giudizi. È stato giusto affidare al campione malato la fiaccola dell’ultimo tedoforo? Avevamo avuto occasione di vedere qualche recente filmato che ritraeva l’ex pugile assediato dal morbo: per questo non ci hanno meravigliato quel tremore alle mani, né quello sguardo smarrito e quasi sorpreso che hanno invece dolorosamente colpito spettatori finora ignari. Ci ha meravigliato invece quella apparizione ai piedi del tripode olimpico che consideriamo una caduta di gusto dell’organizzazione, uno degli errori di Atlanta, indipendentemente dal fatto che essa sia stata dettata o no dal desiderio e dall’ansia di sensazionalismo che sembra essere il substrato di ogni manifestazione, non solo sportiva. Desiderio di épater les bourgeois o memento sulla caducità dell’uomo, e quindi dello sport, quella mano tremante in un corpo quasi immobile deve comunque far riflettere gli spettatori non meno che gli atleti, i dirigenti non meno che i cronisti, sul rispetto dell’uomo, della sua vita, della sua sfera privata. Banalizzarla o desacralizzarla significa rendersi complici della profanazione dello sport e della sua funzione sociale e morale".
Ali difese il titolo otto volte, poi la sua carriera fu interrotta quando si rifiutò di combattere in Vietnam. Ciò gli costò il ritiro della licenza da parte delle commissioni atletiche pugilistiche statunitensi. Su 61 incontri disputati, vanta un record di 56 vittorie, 37 delle quali per KO. Ha perso per KO una sola volta. Ritiratosi definitivamente dall'attività agonistica nel 1981, nel 1984 gli fu diagnosticato il morbo di Parkinson, e commosse il mondo apparendo come ultimo tedoforo alle Olimpiadi di Atlanta del 1996; in quell'occasione gli fu anche riconsegnata la medaglia d'oro vinta a Roma nel 1960, e che si dice il pugile avesse gettato via in segno di protesta contro l’establishment statunitense. Nel 2012 presenziò alle Olimpiadi di Londra, nonostante fosse evidente lo stadio avanzato della Sindrome di Parkinson.