«Nel “Paese delle Meraviglie” di Agostino De Romanis, si giunge solo dopo aver attraversato il mare dei colori. Una barca a vela ne è il mezzo, e approda in una baia dall’aspetto tropicale: sulla terra infuria un vento onirico». Questo è il ritratto del mondo di Agostino magicamente dipinto da Arnaldo Romani Brizzi, una fotografia delle caratteristiche essenziali della sua pittura: il colore, la libertà e l’invenzione.
Se si osservano i suoi dipinti come fotogrammi che scorrono lentamente in un film vedremo paesaggi fiabeschi in cui emergono intrecci di corpi, miscugli di facce, figure mitologiche e luoghi leggendari e tutta una pletora di maghi e gnomi, regine ed eroi, animali e oggetti sacri, ingredienti di quell’altrove che il nostro artista ricrea seguendo il vento del suo bisogno di libertà.
È lui stesso ad aprirci le porte dell’anima svelandoci i segreti racchiusi nelle sue tele attraverso questa intervista gentilmente concessa nel suo accogliente e museale studio veliterno.
In principio era il “colore”: come si è evoluto l’uso del colore dai tuoi primi passi artistici fino alle brillanti tinte del periodo indonesiano?
Il colore negli anni accademici aveva la presunzione di denunciare gli eventi di quegli anni, gli anni ruggenti della mia vita, il ’68, quando la crisi era generale e la forza giovanile ci spingeva a manifestare ed essere in prima fila. All’epoca i colori erano dei grigi potenti, forti, accompagnati dai neri, da tutti quelle tinte cupe che facevano emergere la verità di quel periodo. Il cambiamento è avvenuto dopo il primo viaggio in Indonesia, laddove il mondo era diverso, più tranquillo. Era un universo calmo, ricco di fascino: la natura, i colori espressi dal mare, dal cielo, dai costumi delle variegate tribù, hanno fatto sì che i grigi passassero in secondo piano. Sono andato sempre più a ricercare e immortalare sulle tele dei colori brillanti, quei verdi mistici della natura, degli alberi, dei fiori e di tutto ciò che ci circondava: era proprio il colore del cielo che faceva filtrare delle tinte meravigliose, quasi iridescenti.
Sei nato nel dopoguerra, in una patria investita dal dolore: come è stato influenzato da questo imprinting il tuo pensiero artistico?
Ha influito di certo però probabilmente non me ne sono accorto. La ricerca era basata su ciò che era il mondo circostante, sulle notizie che arrivavano: i primi dipinti li ho elaborati attraverso le notizie del giornale radio. Ascoltando la radio cercavo di tradurre le notizie in qualcosa che potesse essere significativo per la notizia stessa. La notizia diventava un dipinto da collocare in una serie utilizzata per contestare quello che era il dopoguerra, quello che erano i movimenti, quello che era un inizio di confusione…
Cosa ha significato l’incontro con Italo Mussa nel tuo percorso pittorico?
È stato un incontro meraviglioso perché il gruppo della Pittura Colta, che annovera nomi eccellenti come Carlo Maria Mariani e Alberto Abate, era un gruppo emergente degli anni ’80 sorto contemporaneamente ad altri movimenti, come la Transavanguardia di Achille Bonito Oliva. C’era una contrapposizione di artisti che rielaboravano il passato attraverso un filtro mentale, io invece traducevo gli stimoli in dipinti con una sensibilità poetica rispetto alla iniziazione della Pittura Colta.
Quali caratteristiche del movimento della Pittura Colta ti appartengono ancora oggi?
Solo il ricordo memoriale delle opere eseguite, nessun’altra.
Hai illustrato La Gerusalemme Liberata di Tasso con passione e coinvolgimento, qual è stata la sfida più ardua di quest’impresa?
La sfida è stata proprio quella infernale, cioè dipingere il momento in cui la fede cristiana traballa e il demonio si insinua nel territorio cristiano sotto forma di donna nuda. Allora diventa una potenza immane contro i cristiani che cominciano a cedere le armi e ad abbassare gli scudi…
«Dopotutto erano solo mattoni nel muro», cantavano i Pink Floyd: quali muri dell’esistenza ha superato la tua pittura?
Quelli che possiamo vedere attraverso le illustrazioni di Carceri e Vie di Fuga, laddove il carcere è quello esistenziale con cui l’uomo deve convivere. Il bambino è già in un carcere perché non può liberamente giocare, non può allargare le sue visioni mentali. La via di fuga non esiste, essa è un’utopia, l’uomo non può uscirne proprio perché incatenato al carcere dell’uomo stesso…
Quali sono i “Limiti” che maggiormente influenzano la nostra realtà secondo la tua visione poetica?
Il compromesso esistenziale in tutte le sue sfaccettature.
Nella tua filosofia la creazione ha origine dai simboli numerici. Qual è il tuo numero favorito e perché?
Lo zero perché è universale, perché c’è tutto dentro e non fuori: esso è l’inizio, è la fine. Zero è il numero di Dio, solo lui può chiudere il cerchio…
Gli elementi sono stati oggetto di una tua mostra Acqua, Aria, Terra, Fuoco: dove ti senti più a tuo agio?
Direi in Terra, però l’elemento primordiale più importante è l’acqua, ma senza l’aria che faremmo? In realtà non staremmo in Terra. Il fuoco poi è distruttivo, purificatore, quindi necessario…
Hai dipinto nel tuo Grande Cammino un quadro intitolato Il Trionfo della Chiesa: sei veramente convinto che nella realtà la Chiesa abbia trionfato? Perché?
È l’uomo che trionfa se è dentro la Chiesa. La Chiesa in sé e per sé lascia delle perplessità che inducono comunque alla tentazione. Non arriva mai alla risoluzione della verità, l’uomo la cerca, vi anela, la trova? Non lo so… La troverà se avrà una grande fede. Che scaturisce da che cosa? Dalla Chiesa? Non lo so…
Nel tuo altrove inconscio si deformano i luoghi e si sfigurano i contorni: qual è la verità celata?
È che nei contorni e nelle figure drammaticamente deformate dentro c’è la verità, dentro c’è la bellezza e dentro c’è l’immagine che nella mente dell’artista diventa prepotentemente salvata solo dalla memoria.
I tuoi dipinti sono spesso permeati da un racconto fiabesco e mitico, quali forze entrano in gioco nella tua fiaba per creare l’armonia delle forme?
Sicuramente la fantasia gioca un ruolo fondamentale. E poi la purezza dell’artista che vuole essere ancora bambino per credere in qualcosa che non morirà mai se tramandato e raccontato. Nel quadro sono un insieme di elementi che creano armonia: forma, colore e luce. Quando essi sono in equilibrio allora c’è armonia…
Quale aspetto dell’Indonesia, e di Bali in particolare, ti ha rivelato la magia di questa terra?
La magia è scattata quando ho visto la vegetazione di quel posto, le palme, i frutti, i fiori: era tutto differente rispetto al nostro mondo e quella straordinaria diversità mi ha travolto.
“La ritualità”, elemento fondamentale delle tue opere orientali, secondo Sgarbi «è il surreale teatro mediante il quale le civiltà arcaiche riescono ancora a rappresentare il senso del sacro»: è «il sacro, il mistero sfuggente del mondo» che fa il pittore De Romanis «sacerdote di altri sacerdoti?». Quale messaggio vuole divulgare il tempio dei tuoi quadri?
L’incontro con altre civiltà, il ponte ideale tra l’Occidente e l’Oriente, quell’incontro di pensieri, di emozioni, di rispetto delle diversità che distinguono le nazioni interessate.
L’Universo “Donna” è molto presente nei tuoi dipinti, quali facce femminili ritrae e svela il tuo pennello?
Le persone più care perché le conosci meglio ed escono fuori spontaneamente sulla tela. È quasi una ritualità del gesto perché quell’universo è già entrato dentro di te e ne cogli meglio il tratto, la luce, il colore, la femminilità… Io ricerco l’interiorità della donna che viene rappresentata sempre nella sua bellezza… La sua parte più intima è difficile da portare su tela, solo talvolta ci sono riuscito…
Dipingi gli alberi in connessione con l’uomo, come ci possono aiutare questi grandi alleati dell’anima?
Ci offrono l’aria per respirare, il loro splendore, la bellezza del germoglio, l’incanto della fioritura e non si tirano mai indietro perché rimangono fissi dove sono nati e sembra che ubbidiscano all’uomo…
La Natura è la casa di Dio: è un Dio che tutto giudica e punisce o è una divinità pacificatrice che crea equilibrio tra opposte tensioni?
È un Dio del perdono, è un Dio dell’accoglienza, che guarda l’uomo, lo commisera e lo perdona proprio perché è una sua creatura.
In che cosa hai realmente Fede?
Nell’Uomo.
Come affronti lo sfacelo politico e il disfacimento sociale del mondo contemporaneo nelle tue tele?
Denuncio continuamente nelle mie tele tutto ciò che accade senza la presunzione di attuare una denuncia politica, perché la politica è una cosa che ti scivola tra le mani, non sai mai se stai da una parte o dall’altra. Io sto con l’uomo, cerco di rappresentare tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno.
Dove giungerà in futuro la tensione del tuo sguardo?
Vorrei ancora saper intravvedere ciò che il futuro ci riserva e arrivare a guardare le nuove prospettive che si propone domani l’Uomo…
È questa la fiaba di Agostino, o forse la sua fabula, un desiderio forte di vedere riemergere dallo sfacelo che ci circonda la figura di un uomo nuovo.
C’è una canzone di Gaber–Luporini che rappresenta questo desiderio:
Se ci fosse un uomo
un uomo nuovo e forte
forte nel guardare sorridente
la sua oscura realtà del presente.
Una canzone con un finale che piacerebbe a De Romanis, uno spazio vuoto da reinventare come la sua tela bianca:
Uno spazio vuoto
che va ancora popolato.
…
Popolato da un bisogno
che diventa l'espressione
di un gran senso religioso
ma non di religione.
…
Popolato da un uomo
cui non basta il crocefisso
ma che cerca di trovare
un Dio dentro se stesso.
Una canzone che riporta alla sua fabula, infatti, come sostiene Domenico Guzzi «La fabula è immaginazione. La fabula è trasgressione. La fabula è abisso e labirinto. La fabula è sogno».
Per maggiori informazioni: www.deromanis.it